
Genere: Fantasy, Young Adult
Editore: Salani il 12 Novembre 2009
Pagine: 1544
Punteggio: 4/5
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Descrizione:
LA RACCOLTA COMPLETA DEI CAPOLAVORI DI UN MAESTRO DELLA FANTASY MONDIALE.
Il volume comprende: L’Anello di Salomone, L'Amuleto di Samarcanda, L'Occhio del Golem e La Porta di Tolomeo.
Ambientato in un universo parallelo al nostro la magia è conosciuta e i maghi reggono il governo delle società umane.
La Trilogia di Bartimeus + 1
La Trilogia di Bartimeus è una saga di grande successo. Il primo libro, L’Amuleto di Samarcanda, fu pubblicato nel 2003 e, da allora, la saga ha venduto più di sei milioni di copie in ben trentasei lingue.
Ciascuno dei volumi ha vinto numerosi premi, tra cui il francese Grand Prix de l’Imaginaire del 2007; l’americano Mythopoeic Fantasy Award for Children’s Literature del 2006; l’australiano Children’s Book Award of the Jury of Young Readers del 2007… senza contare le tante candidature, tra cui spicca una per i British Book Awards del 2004.
Jonathan Stroud, autore dei già recensiti Lockwood & Co. e La Valle degli Eroi, scrisse il secondo volume, L’Occhio del Golem, nel 2004, e il terzo, La Porta di Tolomeo, nel 2005. La trilogia completa fu pubblicata l’anno successivo e arrivò in Italia, grazie a Salani, con la traduzione di Riccardo Cravero.
Colpo di scena: Stroud sforna un quarto volume, L’Anello di Salomone, pubblicato nel 2010. La versione italiana arriva l’anno seguente, ma dovremo aspettare il 2015 per l’intera Tetralogia di Bartimeus edita da Salani.
Detto ciò, in questa sede chiamerò la raccolta La Trilogia di Bartimeus, poiché si tratta dell’edizione che molti di noi, probabilmente, lessero in passato (ed è quella che ho letto per la prima volta). Tuttavia, non temete: l’ultimo volume è compreso ai fini della recensione.
Harry Potter Vs Bartimeus
La Trilogia di Bartimeus è una saga di libri fantasy per bambini e giovani adulti. L’ambientazione è una Londra ucronica e distopica in cui i maghi siedono ai vertici delle istituzioni e i comuni, cioè i non-maghi, rappresentano la manovalanza, il popolino. Il proletariato.

Ho parlato di ucronia perché l’esistenza stessa della magia ha cambiato totalmente il corso della storia. Non solo Londra, ma il mondo intero ne La Trilogia di Bartimeus è stato plasmato dai maghi e dalle loro guerre, sin dai tempi dei Sumeri.
Quella che esercitano i maghi è una vera e propria tirannia, soprattutto nel Regno Unito alternativo della storia. Resi tronfi dal loro potere, i maghi hanno creato una società alla 1984, in cui sfere di vigilanza schizzano sui tetti delle città come telecamere, demoni spiano la gente e i dissidenti vengono prontamente imprigionati e messi sotto torchio.
Nell’ambientazione de La Trilogia di Bartimeus i maghi si reputano gli eletti e dimostrano superbia, ipocrisia ed egoismo. Per essi vige la legge del più forte e cercano di soppiantarsi a vicenda per la loro sete di potere. I comuni, dal canto loro, sono considerati inferiori e ghettizzati in determinate aree.
Le similitudini con la saga di Harry Potter sono evidenti. Tuttavia, nei romanzi di J. K. Rowling sono i maghi ad auto-ghettizzarsi e non i babbani. Ricordate, infatti, che la società magica vive nascosta agli occhi degli uomini. La Trilogia di Bartimeus incarna, in effetti, il sogno malvagio e distopico di Voldemort (che poi, a conti fatti, aveva ragione).
Sono i maghi a dominare i comuni, qui, e in questo la saga di Jonathan Stroud si dimostra molto più realistica della controparte potteriana. Ma non solo: l’intero world-building sviluppato dall’autore è notevole e contiene implicazioni ben più profonde di quelle tratteggiate dalla Rowling.
Come in Harry Potter, in cui abbiamo l’omonimo eroe, ne La Trilogia di Bartimeus abbiamo un ragazzino inglese dai capelli neri come protagonista: Nathaniel. Anche qui, il lavoro di Stroud si distacca presto dagli stereotipi, presentando un eroe ben più sfaccettato e moralmente ambiguo del maghetto di Hogwarts.
Ma non abbiamo un solo protagonista. Insieme a Nathaniel troviamo Kitty e Bartimeus, coi loro rispettivi punti di vista che si alternano nella narrazione. Ed è qui che risiede l’originale premessa de La Trilogia di Bartimeus.
Bartimeus il Jinn
« Sono Bartimeus! Sono Sakhr al-Jinni, N’gorso il Possente, Serpente dalle Piume d’Argento! Ho riedificato le mura di Uruk, di Karnak e di Praga. Ho parlato con Salomone. Ho corso nelle praterie insieme ai padri del bufali. Ho sorvegliato l’Antico Zimbabwe fino a quando le pietre caddero e gli sciacalli banchettarono con le sue genti. Sono Bartimeus! Non riconosco signore alcuno. E per questo ora sono io che ti ordino di parlare, ragazzo: chi sei tu per convocarmi? ».
Il What-if de La Trilogia di Bartimeus non è l’esistenza dei maghi e della magia, ma l’esistenza dei demoni (o spiriti). È da essi, infatti, che i maghi traggono la propria magia; diversamente, essi sarebbero dei semplici comuni. Il problema è che assoggettare un demone non è cosa facile: occorre imparare complicatissime formule e un’arte assai rischiosa.
Tanto per cominciare, per convocare un demone occorre sapere il suo nome. È grazie a questo che, mediante i giusti incantesimi, è possibile renderlo schiavo e sfruttare i suoi poteri. Di contro, un semplice errore può portare alla morte, poiché i demoni non sono felici di essere asserviti agli uomini e punzonati da essi.

I demoni provengono dall’Altro Luogo, in cui “vivono” sotto forma di essenza. Temono l’argento e il ferro (come in Lockwood & Co.) e ce ne sono di svariati tipi: talpoidi, folletti, foliot… ma le tre classi più potenti sono i jinn, gli afrit e i marid.
Uno dei tre protagonisti della storia è proprio un jinn: il nostro Bartimeus, che allieta la lettura con una narrazione in prima persona, a differenza della terza per Kitty e Nathaniel.
Bartimeus è una voce narrante assai peculiare. Si tratta di un jinn antico e astuto e tali caratteristiche si riflettono nei dettagli che coglie, nei suoi pensieri e nelle sue parole. Ma soprattutto, è un tipetto sarcastico, ironico, che non risparmia battutine ciniche e pungenti su tutto ciò che lo circonda. Inclusi gli umani, che, com’è ovvio, non gli stanno tanto simpatici.
Bartimeus è un jinn e, come tale, possiede poteri unici. Tra questi c’è la vista a più livelli, ben integrata nella narrazione e che giustifica un po’ di sfasamenti nella simultaneità delle scene. La cosa più interessante, però, sono le sue postille. Avete capito bene: Stroud fa uso di note a margine nella sua Trilogia di Bartimeus.
È una scelta curiosa e impopolare per un’opera di narrativa. E con una buona ragione: le note, di norma, si usano nei saggi per spiegare qualcosa (o per i riferimenti bibliografici). Una storia deve “spiegarsi da sola” e degli approfondimenti dell’autore non possono che danneggiare la verosimiglianza e distogliere il lettore dal flusso degli eventi.
Non è il caso de La Trilogia di Bartimeus. Qui, oltre che per lo più accessorie, di colore e non troppo frequenti, le note sono farina del sacco di Bartimeus stesso. Sono i suoi commenti esilaranti e/o al vetriolo che, invece di spezzare una scena, la arricchiscono. Un’idea divertente e originale, devo dire; temevo che mi avrebbe infastidito, ma non è stato così.
Un appunto sugli ebook. Credevo che le note sarebbero state un disastro, ma così non è stato. Merito del Kindle e delle note con hyperlink: basta cliccarci sopra e una comoda finestrella mostrerà la postilla, senza scomodi reindirizzamenti. Testato sulla versione .mobi del quarto volume, L’Anello di Salomone.
Volume 1: L’Amuleto di Samarcanda

La Trilogia di Bartimeus si apre col primo romanzo, L’Amuleto di Samarcanda. L’incipit è magistrale sotto diversi aspetti: cala il lettore nell’azione e nel contesto; introduce con abilità la premessa e le fondamenta magiche della storia; genera immediatamente conflitto e tensione; tratteggia in modo indiretto l’ambientazione ucronica realizzata da Stroud.
Cosa più importante, l’incipit ci mette subito nei panni di Bartimeus, con la sua voce narrante e le note a margine, abituandoci rapidamente all’elemento più “strano” della saga. Anche lo stile è eccellente: Stroud imposta le scene come si deve, prima di avviare l’azione, e lo fa tramite descrizioni succinte ed evocative.
Peccato che il primo capitolo, dal punto di vista stilistico, sia nettamente superiore a ciò che viene dopo. Sì, perché non c’è dubbio che Stroud abbia curato in modo maniacale l’incipit a dispetto dei capitoli successivi.
Le descrizioni si fanno meno ispirate; l’uso delle metafore e delle similitudini, strabiliante nel primo capitolo, perde di efficacia, sebbene rimanga a un buon livello; l’impostazione delle scene si fa meno pulita e, in generale, tutto inizia a procedere con minor sveltezza. Il che è normale per una saga così corposa, comunque.
Il ritmo de L’Amuleto di Samarcanda si mantiene scorrevole e più rapido dei volumi successivi. La trama si sviluppa poco alla volta, ma i numerosi misteri del mondo costruito da Stroud alimentano la curiosità e la voglia di proseguire la lettura. I dialoghi restano tesi e più che buoni per l’interezza de La Trilogia di Bartimeus.
Com’è ovvio, è ne L’Amuleto di Samarcanda che si stabilisce maggiore empatia con i protagonisti. La costruzione di quest’ultima è classica ed efficace: Stroud ci mostra dall’inizio i travagli di Nathaniel e Bartimeus, mentre Kitty viene introdotta solo più tardi. La ragazza ha un ruolo marginale nella storia, a dispetto degli altri volumi.
La crescita dei protagonisti è sensata e interessante. Nathaniel, in particolare, mostra una dimensionalità rara per il target del libro e un’ottima introspezione. Peccato che il suo arco subirà una brusca frenata ne L’Occhio del Golem. Ciò in cui pecca L’Amuleto di Samarcanda, invece, sono le scene d’azione.
Alcune sequenze sono scritte bene, per carità, ma in tante altre mi sono perso e non sono riuscito a riprendere il filo.
Le scene più concitate sono a dir poco confusionarie e la colpa è, a mio avviso, dovuta a due fattori: da un lato, l’eccessiva ambizione dell’autore, che non ha voluto in alcun modo semplificare gli avvenimenti; dall’altro, un problema insito nella premessa de La Trilogia di Bartimeus tutta. Mi riferisco alla magia stessa.
Sì, perché Stroud non fissa delle regole precise. Per quanto interessante e originale sia l’idea, il sistema magico ideato dall’autore è poco… sistematico. Certo, è ricco di dettagli e punti di riferimento, come i pentacoli, le convocazioni, le punzonature e determinati incantesimi, ma per il resto è assai vago.
Per esempio, non sappiamo mai quali siano i reali poteri dei demoni e quale portata abbiano. Stroud introduce elementi mai descritti prima in determinate sequenze, spiazzando il lettore e generando confusione. I demoni riescono a gettare Deflagrazioni, Convulsioni e incantesimi mai ben chiari; riescono ad assumere altre forme, ma non si capisce secondo quali criteri e così via.
Per non parlare del solito problema: perché non si prendono a revolverate e basta?
Quando c’è una scena d’azione in cui prendono parte i demoni, il risultato è fuorviante. Il campo di battaglia si espande, in certi casi, e non si riescono più a localizzare i personaggi; in altre evenienze, le scaramucce sono così triviali che mi sono chiesto perché il demone di turno (Bartimeus, spesso) non si trasformasse in qualcos’altro o agisse in modo diverso.
Se non ci sono regole, non ci sono limiti e questo genera problemi anche da un punto di vista strutturale. Ne La Trilogia di Bartimeus ci sono numerosi buchi di trama, che prendono piede soprattutto nel secondo volume. L’Amuleto di Samarcanda è, per fortuna, più coerente con sé stesso ed è, a mio avviso, uno dei migliori romanzi della trilogia (o tetralogia).
Volume 2: L’Occhio del Golem

L’Occhio del Golem è il secondo volume de La Trilogia di Bartimeus e segue L’Amuleto di Samarcanda. Ritroviamo Nathaniel, Bartimeus e Kitty, ora più presente nella narrazione e protagonista a tutti gli effetti assieme agli altri due.
Da un punto di vista stilistico, il libro non differisce dal precedente. La trama, però, si fa molto più complessa, con una maggiore varietà di ambientazioni, personaggi e una maggiore alternanza dei punti di vista. Ne L’Occhio del Golem ci sono due storyline che s’intrecciano e il ritmo è, in generale, più lento del libro precedente.
La causa di questo rallentamento sta anche nell’uso smodato di flashback da parte dell’autore; cosa che ripeterà nel terzo capitolo. Tuttavia, il gran numero di colpi di scena e le improvvise accelerate nella trama riescono a bilanciare la lentezza iniziale e a velocizzare la narrazione. L’Occhio del Golem, insomma, si fa leggere con piacere dopo lo scoglio iniziale.
Nathaniel è cresciuto in questo volume e, con lui, i temi della storia. L’Occhio del Golem è ancora un fantasy young adult, ma dalle tinte decisamente più cupe e crudeli.
A mio avviso, Stroud non ha saputo gestire la cosa: il libro presenta alcune scene adulte e altre smaccatamente fanciullesche. Dalle torture della Torre di Londra, per esempio, si passa al personaggio Arlecchino, che sembra una caricatura da cartone animato, o a certi dialoghi da film Disney.
L’Occhio del Golem non diventa mai grafico, anche quando dovrebbe esserlo. Allo stesso modo, la voce di Bartimeus non si spinge oltre e, il più delle volte, risulta innocua più che pungente. Il recinto della fiction per bambini pesa sulla narrazione, e questo è un peccato.
Come se non bastasse, più complessità significa maggiori problemi, e questi non tardano ad arrivare. Ricordate i miei dubbi sui demoni? Niente regole, niente limiti. Ecco, qualcosa di fondamentale non quadra ne L’Occhio del Golem e getta un’ombra sul resto de La Trilogia di Bartimeus. Non posso parlarne senza fare spoiler, perciò nasconderò il commento sotto il seguente pulsante.
Non è chiaro se i demoni debbano rispettare gli ordini dei loro padroni esclusivamente per timore delle punizioni (prima tra tutte, la Triste Vampa o Vampa Ardente) o perché sono, in effetti, impossibilitati a ribellarsi. I libri restano vaghi sull’argomento e ciò dà adito ad alcuni dubbi.
Nel caso in cui i demoni non possano evitare di svolgere i loro compiti, non si capisce il bisogno della minaccia delle punizioni. Al contempo, i riferimenti a possibili ribellioni non avrebbero alcun senso. Se, invece, il problema fossero le punizioni, non si capisce perché i demoni non attacchino i loro padroni di sorpresa o quando essi non sono vigili (nel sonno, per esempio).
Ne L’Amuleto di Samarcanda, Nathaniel obbliga Bartimeus a fare ciò che desidera sotto la minaccia della Cattività Perpetua e afferma espressamente che, se Bartimeus lo ucciderà, l’incantesimo andrà comunque a buon fine (per farla breve, ha messo una specie di timer all’incantesimo). Questo smentirebbe la teoria dell’impossibilità di ribellarsi agli ordini, però, perché sarebbe bastato obbligare Bartimeus e non danneggiarlo in alcun modo.
Dunque, ne L’Occhio del Golem ci troviamo in una situazione praticamente identica: Bartimeus è costretto a restare al fianco di Nathaniel perché teme le punizioni di quest’ultimo (che può rispedire al mittente, tra l’altro, dato che ne conosce il vero nome) e non per i suoi ordini. D’altro canto, lo stesso Nathaniel perde i sensi e Bartimeus non ne approfitta per ucciderlo!
Ma non è finita qui. Ho trovato il finale de L’Occhio del Golem decisamente fallato e forzato. Un personaggio in particolare agisce in modo, secondo me, innaturale per soddisfare i criteri della trama e del tema della storia. Anche qui, inserisco lo spoiler per non disturbare chi non abbia ancora letto il libro.
Kitty non ha alcun motivo per aiutare Nathaniel, anzi. Ma soprattutto, non ha motivo di farlo rischiando la vita. E in modo stupido, aggiungerei: saltando addosso a un Golem!
Stroud tira in ballo l’orgoglio della ragazza, punzonato da Bartimeus, ma è la prima e unica volta nell’intera Trilogia che l’orgoglio di Kitty la spinge a una tale follia.
L’ho trovata una scena a dir poco forzata.
In definitiva, ritengo L’Occhio del Golem l’opera peggiore della trilogia (non della tetralogia, però!). Resta una lettura appassionante e fondamentale per il più riuscito terzo capitolo.
Volume 3: La Porta di Tolomeo

La Porta di Tolomeo è l’ultimo volume de La Trilogia di Bartimeus (penultimo della tetralogia) e segue L’Occhio del Golem. Abbiamo, ancora, i nostri Nat, Kitty e Bartimeus alle prese con nuovi e vecchi problemi. Il libro tira le fila del complotto soggiacente agli altri due e conduce al finale.
Il sistema magico viene definito con maggiore accuratezza dall’autore e, di rimando, le scene d’azione risultano un po’ più chiare. La Porta di Tolomeo è il capitolo in cui tutto viene, finalmente, rivelato e i demoni non fanno eccezione.
Stroud, qui, si sbizzarrisce con flashback e riassunti, ma può permetterselo: la voglia di scoprire la verità, di vedere come si conclude l’avventura e di seguire il destino dei personaggi dà un’accelerata vertiginosa, compensata da qualche paragrafo di troppo, o troppo annacquato.
Sono proprio i personaggi la perla de La Porta di Tolomeo. A differenza de L’Occhio del Golem, l’arco di trasformazione di Nathaniel riprende i fasti del primo capitolo. Stavolta, perfino Bartimeus è interessato da una vera introspezione e crescita, e non solo di riflesso rispetto al suo padrone. Anche la costruzione dell’empatia viene ripresa, con ottimi risultati.
Se dovessi riassumere in un nome l’essenza dei tre capitoli de La Trilogia di Bartimeus, li chiamerei Infanzia, Adolescenza e Maturità. La storia segue la struttura di un massivo romanzo di formazione. Come tale, La Porta di Tolomeo assume i connotati di una riconciliazione. In tutti i sensi, come capirete leggendolo.
Il modo in cui l’autore orchestra la trama e i colpi di scena è davvero ammirevole e segue un’architettura tanto classica quanto efficace. Quando pensiamo che la situazione si stia stabilizzando, la posta in gioco aumenta e le cose vanno, come si suol dire, di male in peggio. Sembra una tecnica semplice, ma è più facile a dirsi che a farsi e, in questo caso, Stroud sembra non aver badato a spese (di sudore e grattacapi).
Per quanto riguarda il finale, dirò solo che non sono rimasto deluso. Il climax è degno di una grande avventura: potente, ambizioso, sconvolgente. L’ambizione di Stroud porta, però, alle scene d’azione peggiori dell’intera trilogia, causa la goffaggine delle stesse, la vaghezza dei dettagli e l’assoluta confusione (non ci ho capito molto).
Detto ciò, siamo anni luce avanti rispetto al finale spazzatura de La Valle degli Eroi. La conclusione è coerente, soddisfacente, completa, sia in termini di trama che di crescita dei personaggi (anche grazie alla breve Risoluzione, che vi ciene mostrata prima dell’ultimo capitolo). E senza risparmiare sull’impatto emotivo.
Volume 4: L’Anello di Salomone

L’Anello di Salomone è l’ultimo volume della tetralogia ed è un prequel alla storia de La Trilogia di Bartimeus. Né Nathaniel né Kitty sono presenti, ma è Asmira, guardia reale della regina di Saba, ad accompagnare Bartimeus nel ruolo di co-protagonista.
Il romanzo è ambientato nella Gerusalemme di Re Salomone e aderisce, in parte, al resoconto mitologico narrato nella Bibbia, inclusa la relazione tra la regina di Saba Balkis e Salomone stesso. Tuttavia, come negli altri volumi, la premessa fantastica altera gli eventi e fa prendere loro una piega inaspettata.
Il potentissimo anello magico posseduto da Salomone ha trasformato Israele in una superpotenza ante litteram, sia grazie ai prodigi del medesimo sia mediante la minaccia da esso esercitata nei confronti delle altre popolazioni. Il pacifico regno di Saba è in pericolo e Asmira parte alla volta di Gerusalemme per assassinare il perfido Re.
Bartimeus si trova, suo malgrado, invischiato nella vicenda, proprio come nella Trilogia. Il suo rapporto con Asmira ricorda quello con Kitty fin troppo da vicino. In realtà, Kitty e Asmira si somigliano davvero molto: entrambe sono ragazze forti, determinate, pronte di spirito, prestanti, orgogliose e immature. L’ingenuità di Asmira, in particolare, ci viene spiegata più volte nella narrazione.
Sì perché Stroud, ne L’Anello di Salomone, non si fa mancare paragrafi su paragrafi di spiegoni sui risvolti psicologici della protagonista. Tali dissertazioni vengono messe in bocca a Bartimeus, quando va bene, o riportate direttamente nella narrazione in terza persona quando va male. Dovrebbe trattarsi di una parafrasi dei pensieri e delle sensazioni di Asmira, ma il risultato è la pura e semplice voce dell’autore.
L’ingenua fedeltà di Asmira si tramuta nel suo difetto fatale: l’incapacità di decidere per sé, di creare il proprio destino. Lei vive per Balkis e ogni parola della regina è oro colato. Chiunque si aspetterebbe, quindi, il rovescio della medaglia, e il romanzo non soprende nessuno in tal senso.
Ma oltre che stereotipato nella scelta e nell’esito, il difetto fatale in questione non funziona. Il motivo è che non dipende da un comportamento disfunzionale di Asmira, anzi. Lei non ne ha colpa. È stata cresciuta per diventare una guardia reale, come sua madre, e si comporta come tale. Tutto qui.
Per altro, l’ingenuità di Asmira non fa altro che dimostrare, a più riprese nella narrazione, la sua purezza e bontà d’animo.
Fin quando il difetto non si concretizza, sembra che Asmira di pecche non ne abbia affatto. Per più di metà romanzo abbiamo a che fare, insomma, con una protagonista piatta, banale e “troppo brava”. Nathaniel era mille volte meglio.
Anche Bartimeus non ne esce bene. Il terribile jinn risulta ancora più innocuo, sia nei fatti che nei commenti, rispetto ai precedenti libri. Devo ammettere che il tono del romanzo è, in generale, più bambinesco, nella peggior accezione possibile. I dialoghi cartooneschi che citavo prima, per esempio, abbondano.

L’Anello di Salomone, in definitiva, non si prende sul serio. Il comportamento dei personaggi è più irrealistico che mai; ogni situazione, per quanto pericolosa e drammatica, si risolve senza conseguenze; giochi e battute spazzano via qualunque tensione. Nonostante la forzatura da parte dell’autore, l’introspezione è adeguata a quella di una (pessima) favola per bambini.
Come se non bastasse, L’Anello di Salomone si dimostra inferiore, rispetto al volume pubblicato cinque anni prima, anche nella prosa. La narrazione straborda di aggettivi, avverbi e passaggi in grado di annacquare qualsiasi scena. Ma il colpo fatale è inferto dall’ambientazione.
Devo ammetterlo: credo che quella de L’Anello di Salomone sia la peggior ambientazione che abbia mai letto in un romanzo.
La Gerusalemme di Stroud è l’incarnazione di tutti gli errori che potrebbe commettere uno scrittore alle prime armi. Il livello di ricerca e dettagli è pari a zero: è letteralmente impossibile immaginare l’ambientazione pensata dall’autore, poiché non ce la mostra. La narrazione procede, infatti, attraverso un infinito numero di dialoghi e alcune azioni.
Gli scorci di ambientazione sono pochissimi, fugaci ed estremamente vaghi. Ma Stroud non si limita a questo, no. A parte bere birra d’orzo, i personaggi non ci mostrano alcun dettaglio interessante dell’epoca a cui appartengono. Pensano e si comportano tutti nello stesso, generico modo, senza che differenze culturali e perfino religiose (!) emergano nella narrazione.
L’ambientazione de L’Anello di Salomone è il Vuoto con una skin da Vicino Oriente antico e abitato da occidentali del XXI secolo.
Questo romanzo è senza ombra di dubbio il peggiore della saga. È evidente che Stroud non ci abbia lavorato per vari anni, non l’abbia affinato o fatto maturare e lo conferma il fatto che non ci siano elementi nuovi. (Sul sito ufficiale trovate il resoconto dell’autore sulla genesi del libro).
In ogni volume de La Trilogia di Bartimeus, infatti, Stroud espande e definisce il sistema magico (che, ripeto, è comunque fumoso); aggiunge creature, premesse fantastiche e così via. Nel romanzo in esame, invece, a eccezione dell’anello, non c’è nulla di nuovo.
E anche il suddetto manufatto magico non modifica in modo sostanziale ciò che era stato introdotto nella Trilogia (si pensi all’amuleto di Samarcanda, per esempio).
Conclusione: consigliato a tutti!
Contro:
- Il quarto volume, L’Anello di Salomone. Per fortuna, si tratta di un prequel e non di una continuazione.
- Il sistema magico ideato da Stroud è poco definito, soprattutto all’inizio, e pieno di punti oscuri. Ciò provoca dubbi e potenziali buchi di trama.
- Le scene d’azione sono vaghe, confusionarie e difficili da visualizzare.
- Il tono è, a tratti, bambinesco e la volontà di non andare “oltre”, anche quando sarebbe necessario, pesa sulla Trilogia.
Pro:
- La crescita e l’introspezione dei personaggi è sorprendente per il genere e il target di riferimento. Difficile non affezionarsi a loro.
- Nonostante i difetti, la premessa fantastica è sviluppata con realismo e risulta originale, interessante, ricca di spunti e implicazioni.
- Il lavoro di world-building operato dall’autore è massivo, permeante e ben studiato. Di gran lunga superiore a tanti fantasy più blasonati.
- Lo stile ha alti e bassi, ma si mantiene accettabile per l’intera Trilogia (e non tetralogia, ovviamente). Il ritmo si attesta su buoni livelli.
- La trama risplende nell’ultimo volume e ci sono tanti, tanti colpi di scena in grado di emozionare grandi e piccini.
- L’idea delle note è inusuale e azzeccata.
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