«Non dire che la vecchia signora gridò. Mandala in scena e lasciala urlare».
Mark Twain.
Ho già parlato, nel precedente articolo, della nascita e dello sviluppo della narrativa contemporanea. Il cardine intorno al quale ruota questa concezione di scrittura è la classica regoletta “Show, don’t tell“, ovvero “Mostra, non raccontare”.
Per comprendere appieno tale tecnica bisogna rifarsi ai principi della narrativa, ovvero:
- Narrare una storia.
- Emozionare il lettore.
- Coinvolgere il lettore in modo tale che non chiuda il libro e che prosegua la lettura fino in fondo.
- Calarlo nel personaggio.
- Fargli vivere gli eventi come fossero reali.
Se questa non è la vostra idea di narrativa, non consiglio l’impiego dello Show don’t tell. Anzi, consiglio di cambiare genere e di scrivere Literary Fiction o addirittura saggi, che probabilmente si accorderanno meglio alle vostre aspirazioni.
H.G. Wells, infatti, dopo un iniziale periodo di estro letterario (le prime opere di scientific romance, tanto amate dai suoi contemporanei e dalla critica, nonché gli unici suoi lavori ancora venduti e ricordati oggigiorno), decise di cambiare principi e iniziò a scrivere opere didascaliche, politicheggianti. Egli divenne, per sua stessa ammissione, poco interessato a narrare storie e a emozionare i lettori.
Wells intese la scrittura come un mezzo attraverso cui diffondere le sue idee, perché si sentiva un giornalista piuttosto che un romanziere. Beh, in tal caso scrivete articoli, no?
Tornando a noi, Show don’t tell significa che non bisogna raccontare al lettore ciò che accade, ma che occorre fargli vivere gli eventi direttamente, istante per istante (o azione per azione). Mostrare qualcosa significa mettere una persona di fronte al fatto, alla realtà, e non farne una cronaca.
La superiorità di questa tecnica, in fatto di coinvolgimento e resa emotiva sul lettore, è autoevidente. Vedere un uomo che muore o sentirlo al telegiornale è per voi la stessa cosa? Guardare una partita o ascoltarne il riassunto, fa differenza?
Facciamo un semplice esempio.
Raccontato — Incontrai Marcello e lo riempii di botte.
Mostrato (Show don’t tell) — Marcello mi si parò davanti e mi spinse contro il muro. Gli mollai una testata in quella bocca bavosa, gli colpii la fronte con una gomitata e gli aprii uno squarcio da un orecchio all’altro. Lui barcollò, si coprì la faccia grondante di sangue. «Fevmo!», biascicò tra i denti rotti. «Mi avvendo!».
Gli piantai un calcio in petto e lo scagliai sull’asfalto. Il grugno pelato sbatté sul selciato, lo sguardo si spense.
«Addio, Marcello. Salutami quella puttanazza di tua madre».
Ok, ho esagerato, ma era per rendere l’idea. Lo so che il taglio causato del gomito è degno di Ichi the Killer, ma si tratta di un esempio. Come avrete intuito, il risultato è estremamente diverso in termini di drammatizzazione. Lo Show don’t tell implica una descrizione dettagliata di ciò che accade, a differenza del succinto raccontato. Ma ci sono altre finezze da cogliere.
Raccontato — Margaret era bellissima, alta e sfavillante come il sole che le gonfiava la dolce chioma.
Mostrato (Show don’t tell) — Margherita balzò in piedi. Urtò il soffitto con la testa. «Ow! Che male!», si massaggiò la parte dolente. Abbassò gli occhi, notò che la stavo guardando e sfoggiò un sorriso a trentasei denti. Venne verso di me; la chioma bionda grattò il parquet e lasciò una scia nitida tra i banchi di polvere.
In un esempio ho dovuto mostrare l’altezza di Margherita e la lunghezza dei suoi capelli. Nell’altro l’ho semplicemente detto.
Complica la vita? È più difficile e dispendioso di tempo e fatica? Certo, ovvio, ma i risultati sono di gran lunga superiori!
Al raccontato si associa il discorso indiretto, mentre allo Show don’t tell va associato il discorso diretto. I dialoghi giocano un ruolo importante nella narrativa, o scrittura immersiva.

Mostra ogni cosa ai lettori, non dir loro nulla — Ernest Hemingway
Raccontato — Jennifer disse a Jacqueline che poteva venire con lei alla fattoria.
Mostrato (Show don’t tell) — Gennarina si staccò un pezzo di pollo dagli incisivi sporchi di rossetto. «Allò? Vieni cu me add”o purcaro?».
Gioacchina annuì. «Muvimmoce chiattò!».
Molto più realistico, verosimigliante, interessante… ecc ecc.
Attenzione, però. Show don’t tell significa comunicare per scene e per immagini, ma non descrivere immagini statiche. Queste sono preferibili al raccontato, ma sono una forma piatta e scialba di mostrato.
Raccontato — Prendo la mutanda. È bianca, con un grosso buco nel mezzo da cui far uscire il pistolino.
Mostrato (Show don’t tell) — Indosso le mutande. Il pisello spunta dal buco centrale e si affloscia sulla stoffa bianca.
Qual è la differenza? Abbiamo descritto attraverso un’azione e non una descrizione. Dinamico > statico, sempre. Una buona scrittura mostrata presenta un gran numero di verbi d’azione e una minoranza di passivi, verbi essere o avere, che spesso danno vita a immagini concrete ma immobili.
A proposito di immagini concrete: Show don’t tell implica l’uso di termini precisi, possibilmente vividi, al contrario della vaghezza che contraddistingue il raccontato.
Scrivere mostrando significa abolire le parole inutili, quelle che non aggiungono nulla alla scena, e soprattutto i termini aulici o altisonanti. Secondo il principio immersivo della narrativa, tutto ciò che distrae dalla scena e dalla narrazione è considerato errore, poiché spezza la magia dell’immedesimazione del lettore negli eventi e nel personaggio. Inoltre, aggiungere fumo diminuisce l’efficienza e l’eleganza del testo, oltre a rallentare il ritmo. Per non parlare del principio di trasparenza, per cui il lettore deve capire al volo e non dubitare. Per questi motivi scrivere belle parole per il gusto di farlo invece che scrivere in modo concreto è una pessima forma di raccontato, e un errore comune nei neofiti (come l’intrusione dell’autore nel testo o il POV vacillante).
Raccontato — Mi gettai in acqua. Nuotai nel brodo primordiale che un tempo mi diede alla luce. L’acqua nera si tramutò in spazio siderale, coralli come stelle del firmamento. Fluttai tra i pianeti, novello astronauta di un mondo perduto.
Bellissimo, fantastico, bravò! Ma che significa ‘sta merda? Tanto vale scrivere un poema, piuttosto che un’opera di narrativa. Qui si può notare la classica brodaglia che non aggiunge nulla alla narrazione e che, anzi, la ostacola. Già il fatto che il lettore possa fermarsi per dire “ah, che bella frase” è uno svantaggio, in quanto spezza il ritmo e l’immersione nella storia. Coinvolgimento e tensione diminuiscono in un istante.
Mostrato (Show don’t tell) — Mi gettai in acqua.
Regola avanzata: in certi casi, il raccontato non è considerato tale. Parliamo di certi giudizi qualitativi espressi dai personaggi, in forma di dialogo o di pensieri. Questi possono andar bene soprattutto se aggiungono qualcosa all’identità di chi li esprime, o la ribadiscono.
Raccontato — Prendo la foto. È bellissima.
Non dice niente sul personaggio (che coincide con la voce narrante, POV in prima persona con filtro totale).
Mostrato (Show don’t tell) — Prendo la foto. Bella come una prigione che brucia, falsa come una birra analcolica.
In questo caso il giudizio del personaggio ci suggerisce che si tratti di un ex-galeotto, o un uomo che odia lo stato, o una persona poco raccomandabile. In ogni caso ci dice qualcosa su di lui e ci aiuta a entrare nel personaggio. Il lettore, però, non vede la bellezza della donna in prima persona. Pertanto la versione migliore sarebbe:
Mostrato (Show don’t tell) — Prendo la foto. Scorro il dito sulle labbra siliconate, seguo il profilo del nasino e accarezzo le iridi azzurre dei suoi occhi a mandorla. Bella come una prigione che brucia, falsa come una birra analcolica.
Raccontato — È brutto e avido. Indietreggio e cambio strada.
Mostrato (Show don’t tell) — È un rabbinaccio col nasone. Indietreggio e cambio strada.
Nella seconda il giudizio ci da un’idea migliore del POV, che evidentemente ha dei pregiudizi contro gli ebrei.
Altra regola avanzata: le similitudini. Metafore, analogie e similitudini sono armi a doppio taglio: non debbono mai essere banali o già viste, a meno che non calzino perfettamente. Inoltre rischiano di distrarre il lettore dalla narrazione, se usate troppo spesso o se vaghe, poetiche o poco calzanti. Al contrario, un uso moderato e preciso di analogie ha un fortissimo valore persuasivo, in termini retorici. Del resto nella vita reale ricorriamo spesso a similitudini quando vogliamo far capire qualcosa a qualcuno.
Raccontato — Era bella come il sole.
Raccontato — Mi scruta col suo sguardo da predatore. Spalanca le fauci leonine e balza su di me come un gatto di montagna. (troppe!)
Raccontato — Corse via con la foga di un uomo orgoglioso, ma indispettito dallo svolgersi degli eventi. (Eh? Cosa dovrei visualizzare, esattamente?)
Mostrato (Show don’t tell) — Maurigno cadde a terra come un sacco di patate (rende l’idea ma è inutile specificarlo ed è una similitudine banale)
Mostrato (Show don’t tell) — Maurigno cadde di pancia. Una scarica di saliva gli eruppe dalla gola e si abbatté sul marmo. Lui si rotolò nella pozza e strisciò verso di me sulla sua stessa bava. Sbatté la testa contro il mio ginocchio; i capelli impiastricciarono i jeans di liquidi corporei. Lui ragliò, sbatté la testa due, tre, quattro volte, come una falena che continua a schiantarsi sul vetro.
(In questo caso la similitudine rende l’idea e serve a dare un senso di disgusto al lettore, che sarà ripugnato dalla scena formataglisi nella mente).
Il segreto della scrittura immersiva e dello Show don’t tell è scrivere in modo evocativo, mai banale. Termini forti, netti, vividi, coloriti. Non dovete edulcorare, non dovete usare inutili mitigators come quasi, piuttosto, abbastanza ecc. Più netti siete, più evocate. Più concreti e precisi siete, più evocate. Ricordate la citazione di Ezra Pound nell’articolo sulla narratologia? L’oggetto è sempre il simbolo adeguato.
La precisione è estremamente importante, soprattutto quando si parla di verbi: bisogna usare quello giusto, sempre, in modo da non doverlo correggere con ulteriori aggettivi. Pensateci: meglio tagliare di netto le dita con una mannaia o tranciarle? Meglio leggere un libro tutto d’un fiato o divorarlo? Meglio farsi rossi in faccia o arrossire? Meglio mangiare con una grande foga o ingozzarsi?
L’uso di verbi appropriati separa una scrittura generica da una evocativa.
Il secondo segreto dello Show don’t tell è capire che non si devono descrivere immagini al lettore, ma che bisogna creare immagini nella mente del lettore. Questa è una differenza fondamentale. Pensare in tali termini vi aiuterà a creare una prosa dinamica, attiva, immaginifica.
2 — Show don’t tell: pro e contro
Sebbene Show don’t tell sia una regoletta ormai largamente accettata e un valore fondamentale per i critici letterari, non tutti sono d’accordo con ciò che rappresenta. C’è chi dice che il raccontato sia importante tanto o più del mostrato, da cui StoryTelling e non StoryShowing. C’è chi dice che si debba raccontare per passare da una scena all’altra, o per impostare l’atmosfera, o per allargare il respiro temporale della narrazione.
Orson Scott Card (autore del Ciclo di Ender) in Characters & Viewpoint afferma, in merito allo Show don’t tell, che «in alcune circostanze è un buon consiglio; in altre, è esattamente errato. Chi racconta storie deve costantemente scegliere tra il mostrare, il raccontare e l’ignorare. Mostrare è ciò che si fa meno spesso». Insomma i romanzi non sono film e non si può mostrare tutto, poiché «mostrare è terribilmente dispendioso di tempo». Per cui, secondo Scott Card, bisognerebbe limitarsi a mostrare le scene drammatiche in modo da renderle importanti. Lo Show don’t tell, infatti, servirebbe a dare enfasi, e non si può enfatizzare tutto altrimenti il testo diventa noioso.
In un commento Scott Card reitera dicendo che «Show don’t tell è una pessima idea, eccetto nelle scene che scegli di mostrare perché sono le scene chiave che creano dramma».

Characters & Viewpoint, di Orson Scott Card. Questo manuale parla dei personaggi e del POV, o punto di vista. Non è eccezionale ma non è per niente male; va letto, però, con una certa accortezza. Potete acquistarlo a quest’indirizzo
Personalmente ritengo che queste opinioni derivino da una mancanza di esperienza e da una parziale ignoranza dei principi da cui scaturisce lo Show don’t tell, e questo le rende facilmente attaccabili.
Per prima cosa, lo Show don’t tell va impostato in un contesto di narrazione qui-e-ora, in cui la storia scorre azione per azione e scena per scena. Per compiere dei salti temporali è sufficiente tagliare il capitolo e iniziarne un altro a salto avvenuto, oppure aggiungere i tre asterischi col medesimo effetto.
Mettiamo che, per esempio, Marcovaldo debba andare a casa della nonna ma non c’interessi mostrare il viaggio in macchina. Non c’è bisogno di raccontarlo: essendo inutile ai fini della trama, basta tagliare la scena interrompendo il capitolo e facendo iniziare il prossimo con Marcovaldo che entra a casa della nonna.
Se invece volete includere il viaggio per qualche ragione, basta mostrare pochi dettagli per liquidarlo. È facile dimenticare che Show don’t tell non significa necessariamente mettere in risalto qualcosa o essere prolissi. Anzi, come insegna la teoria dell’Iceberg di Hemingway, sono sufficienti pochi, precisi, perfetti dettagli per far immaginare tutto il resto (come anche provato tempo addietro da Cechov). L’arte della scrittura immersiva è tanto più elegante quanto più coincisa, come tutte le arti in generale. Ma raggiungere questo livello di tecnica, ovvero di precisione e concretezza in poche parole, è assai difficile.
In ogni caso, se volessimo mostrare il viaggio di Marcovaldo senza dilungarci (e con una ragione ai fini della storia, altrimenti va tagliato) agiremmo, per esempio, così:
Marcovaldo montò sulla Cresta, accese i fari e partì. Girò per la tangenziale, il contachilometri toccò i duecento all’ora. «Ah, la mia Cresta! La mia splendida Cresta!».
Imboccò l’uscita per Via dei Nonni. La casa della nonna spuntò sul fondo della strada.
… e stop! Ci siamo: basta che parcheggi ed entri. Oppure, se volessimo aggiungere dei dettagli ulteriori:
(…) Imboccò l’uscita per Via dei Nonni. Le insegne dei negozi pulsavano nel buio: gomitoli stroboscopici, dentiere al neon, bare lampeggianti. Un cartellone pubblicitario giganteggiava sulla casa della nonna. Sacchettoni! I sacchetti per chi fa i cacchettoni! Le gengive del testimonial risplendevano alla luce dei riflettori.
Per farla breve: non è tanto lo stile a condizionare l’importanza del testo, ma il contenuto. Lo Show don’t tell si limita a trasmettere al lettore quest’ultimo con la massima trasparenza. Il coinvolgimento viene da sé, e solo se il contenuto è effettivamente coinvolgente.
Un punto di Scott Card che mi sento di condividere in piccola parte, però, riguarda il tempo. Lo Show don’t tell richiede tempo e fatica, specie all’inizio. A maggior ragione se le scene non sono già definite nella mente di chi scrive.
Provare per credere. Scrivere come capita è assai più semplice e rapido.
In linea teorica direi che questa non è una giustificazione; non è un segreto che per fare un buon lavoro si debba buttare il sangue, in qualsiasi disciplina. Però è altrettanto vero che, se doveste scrivere un’epopea bestiale da tremila pagine, mostrare il più possibile potrebbe costarvi la vita (ammesso e non concesso che quelle 3000 pagine siano necessarie, ma stiamo ipotizzando).
Una volta fatto il callo, lo Show don’t tell diventa una seconda natura e i tempi di scrittura si accorciano notevolmente. Ma è anche facile lasciarsi prendere la mano e riscrivere più e più volte porzioni di testo per renderle più vivide.
Parlando di opere di altissimo livello, ovvero in casi che non riguardano né me né la quasi totalità di quelli che mi leggeranno, trovo comprensibile fare un compromesso tra valore artistico e impegno profuso. Credo che a pochi interessi creare l’opera stilisticamente perfetta (col contenuto ovviamente non all’altezza, come spesso è il caso. E viceversa) buttandoci dietro l’intera propria esistenza. Bisogna accontentarsi: un romanzo è lungo e si può sempre, o quasi, migliorare qualcosa in termini artistici. La mia modesta opinione è che si debba semplicemente cercare di dare il massimo in base alle proprie possibilità e ai propri bisogni, a 360°. Il che significa imparare a scrivere e documentarsi, oltre che scrivere. Fatto questo, la soddisfazione personale è più importante di qualsiasi valutazione artistica. Chi sogna di vivere di scrittura, poi, non può lasciarsi rallentare dalle ideologie.
E voi che ne pensate di questa tecnica? Se avete esempi da proporre o domande da porre, scriveteli pure nei commenti!
Il Palombaro
Seguo, nel 2016, il corso "Lavorare in Editoria" dell'agenzia letteraria Herzog, e collaboro per alcuni mesi con la casa editrice Tullio Pironti di Napoli. Nel frattempo, scrivo un gran numero di racconti (buona parte inviati a concorsi letterari) e un nuovo romanzo, Cuore di Tufo, in uscita per Dark Zone edizioni.
Perché il Palombaro? Perché esplora nuovi mondi, come l'astronauta, e allo stesso modo indossa uno scafandro che ne annulla la personalità. Il Palombaro diventa un simbolo di mistero e di scoperta, ma nel nostro stesso mondo. L'immersione equivale alla totale immedesimazione nelle nostre azioni e all'esclusione di tutto il resto. E poi, adoro il mare!
*L'immagine dell'avatar appartiene a http://danstender.deviantart.com/ *
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31 marzo 2017 at 12:51
Premetto che non scrivo, per cui parlo solo da lettrice. Devo dire che sta regola dello show don’t tell mi ha un po’ scocciato. Capisco il senso ma mi sembra ci si marci un po’ troppo.
Quando leggo i vari esempi di frasi a confronto, mi piace quasi sempre di più la frase del “tell”, sarò strana io. La frase dello “show” mi sembra sempre troppo carica, con un sacco di dettagli eccessivi e che spesso rallentano anche l’azione.
Inoltre mi pare che il seguire troppo questa regola porti a un modo di scrivere che sembra più una sceneggiatura (o qualcosa di pronto per essere sceneggiato) che un libro.
31 marzo 2017 at 14:37
Ciao Kukuviza, benvenuta nel blog!
Ammetto di aver caricato un po’ troppo gli esempi, ma l’ho fatto per renderli più divertenti/interessanti. Come hai visto nell’esempio di Marcovaldo, si può benissimo mostrare una scena senza dilungarsi in “dettagli eccessivi” e sbrodolamenti. Il fatto che si calchi la mano su certe scene, dipende piuttosto da un problema di costruzione della storia.
Proprio in questo periodo sto leggendo un romanzo (o meglio una trilogia) che presenta uno stile misto, a tratti cinematografico e a tratti raccontato. Mi sto ritrovando spesso a leggere svogliatamente varie scene descritte anche bene e, per l’appunto, piene d’azione, ma che sono superflue ai fini della narrazione. Troppe, troppe scene inutili! Quelle che invece aggiungono qualcosa alla storia risultano sempre interessanti, perché alla fine è quello che conta.
Per quanto riguarda la sceneggiatura, è in parte vero. Dipende soprattutto dal punto di vista, però. Se parliamo di un punto di vista in prima persona con filtro totale (narratore = protagonista), il risultato sarà assai distante da una sceneggiatura. Esiste invece il punto di vista della terza persona oggettiva, detto proprio ” POV cinematografico”, che sicuramente porta a una narrazione simile a una sceneggiatura.
31 marzo 2017 at 18:07
Ciao Palombaro, grazie per il benvenuto!
Non mi riferisco specificatamente ai tuoi esempi; mi ricordo che anche quando ho letto quelli dei manuali (interessanti peraltro) della Gamberetta, nella parte dell’S&T non mi aveva convinta.
Mi ricordo ancora l’esempio del “C’era un vecchio mago” in cui lei diceva che invece di dire vecchio bisognava mostrare delle azioni che lui faceva e da lì sarebbe risultato più efficace ed evidente che il mago era vecchio. A me l’aggettivo “vecchio” serve perchè così mentalmente so subito se devo immaginare qualcuno tipo Harry Potter o invece il mago Merlino. Perchè bisogna che il mago faccia tutta una serie di cose aggiuntive solo per far vedere che è vecchio? Al limite, farà quelle cose nel corso della storia, se le deve fare.
Oppure anche l’esempio di uno che uccide un altro (simile al tuo dei due che se le danno). A me sinceramente la versione più “splatter” non piace per niente, ma sarà perché preferisco il tenente Colombo a Criminal Minds :-D!
Invece mi piacciono tutte le versioni di Marcovaldo! Hanno sfumature diverse e possono andare bene in diverse situazioni.
Non so, forse gli esempi sono caricati per far capire un concetto ma allora mi piacerebbe vedere dei brani tratti da un vero romanzo e da lì capire come è stato applicato il principio dell’ S&T. Che ne pensi? Ha senso o sono strana io?
31 marzo 2017 at 19:03
Capisco cosa intendi, ma lo Show don’t tell serve proprio a rendere vivide le scene.
— C’era una volta un vecchio mago…
— L’uomo strinse il pomello con le sue dita incartapecorite, piantò il bastone sul pavimento e si alzò. «Issa!». Il parquet e la schiena scricchiolarono all’unisono.
L’uomo ansimò per lo sforzo, separò la coltre di capelli bianchi che gli coprivano il volto. Sfogliò il tomo. «Hocus Pocus!».
Un geyser di energia astrale esplose dalle pagine ingiallite e… boh
Quale ti rimane più impresso? Non trovi che mostrare gli attributi del personaggio sia “più efficace ed evidente”, come hai detto tu stessa?
Per quanto riguarda l’esempio di uno che uccide un altro, è questione di gusti. A me piace la violenza “grafica”, ma lo Show don’t tell non ti costringe a descrivere l’atto con particolari truculenti.
Siamo tutti diversi: c’è chi userebbe dettagli grafici come il sottoscritto e chi ne userebbe di più sobri come forse faresti tu. La scelta di cosa mostrare differenzia lo stile degli autori. Per es. potresti semplicemente scrivere:
— Mariotto estrasse la pistola e gli sparò tre colpi in piena fronte. L’uomo cadde da fermo, come se gli avessero staccato la spina.
Questo è mostrare, eppure non ci sono dettagli cruenti. Io potrei scrivere:
— Mariotto estrasse la pistola e gli sparò tre colpi. Due crateri si aprirono nella fronte dell’uomo; il terzo proiettile scivolò sotto i capelli e si portò via una striscia di scalpo.
Tra l’altro, io amo il tenente Colombo!
Nell’articolo sulla narrativa contemporanea citai un pezzettino da Il Vecchio e il Mare di Hemingway. Comunque hai ragione, mi sa che più avanti farò un articolo di soli esempi tratti da altri libri. Io improvviso con gli esempi, quindi potrebbero suonare strani.
31 marzo 2017 at 20:28
Mi sa che alla fine è anche un discorso di gusto personale.
A me “il vecchio mago” piace perché dice e non dice, non usa troppe parole e probabilmente parte subito all’azione. Ma in definitiva anche la seconda versione può essere piacevole; l’effetto è diverso ma entrambe hanno una loro funzionalità. Mi accorgo che se una cosa è scritta bene (o che mi piace), può essere lunga, corta, avere 1000 parole o una..non importa, purchè la lettura mi piaccia. Gamberetta mi ricordo che diceva che non ci dovrebbe essere uno stile perchè questo si frappone tra il lettore e la storia; io invece non la penso così, una bella scrittura mi rende piacevole ogni parola e racconta (o mostra, narra, espone ecc.) bene una storia. Credo proprio che sia questione di gusti.
31 marzo 2017 at 20:40
Per i miei gusti il vecchio mago è patetico, asettico, e potrebbe scriverlo un bambino di cinque anni. Però se a te piace, ben venga!
Non so cosa dicesse gamberetta in merito, ma io non la penso così. A parte che è inevitabile che ci sia uno stile, non siamo robot, quindi il discorso non ha senso a prescindere.
In definitiva, credo anch’io sia questione di gusti in certi casi, ma non sempre. Credo che la maggior parte della gente, oggi, preferirebbe una scrittura coinvolgente piuttosto che “c’era un vecchio mago”, ma in fondo chi può dirlo!
1 aprile 2017 at 8:00
Sono di gusti semplici :-D
15 aprile 2017 at 16:13
Credo tu abbia ragione. Lo show don’t tell è una regola giusta, ma è inutile mostrare se prima non si sa raccontare. E credo che buona usanza sia usare entrambe le forme. Se un personaggio è vecchio è vecchio, e credo sia buona regola renderlo evidente da subito senza perdere tempo, poi si può descrivere il “come” sia vecchio attraverso la descrizione e i dialoghi.
Ricordo che in Harry Potter una delle rpime descrizioni di Hermione è “una ragazza bruna con i capelli ricci ricci”. Semplice e diretto, senza perdere tempo a mostrare i capelli cespugliosi (cosa su cui ritorna durante il libro, e più volte durante tutta la saga). Poi tramite i dialoghi la identifica come una so-tutto-io.
15 aprile 2017 at 19:08
Sono d’accordo che non si debba perdere tempo a sciorinare dettagli quando non ce n’è bisogno. Dipende dalla circostanza e dal personaggio. Se il protagonista della mia storia uscisse dal supermercato e buttasse per aria un vecchio di cui non serve sapere nulla, scriverei: “Alvaro si precipitò fuori dal supermercato, buttò per aria un vecchio con una spallata e corse alla macchina”.
L’incomprensione di fondo è che non si tratta di raccontato ma di mostrato. È una prosa concisa ma definita, concreta, visuale. Lo stesso dicasi per il “è una ragazza bruna con i capelli ricci ricci”. Dettagli visuali, concreti: capelli ricci e bruni. Poi che non ci si soffermi di più sul suo aspetto per farla emergere meglio in quell’occasione è una scelta dell’autore.
Raccontare significa riassumere, non seguire una linea temporale momento per momento e non tratteggiare i dettagli delle scene. “C’era un vecchio mago” oppure “si picchiarono” rendono l’idea.
15 aprile 2017 at 19:41
Hai ragione, però troppo spesso quel “non seguire una linea temporale momento per momento” si traduce in tante belle fotografie statiche, collegate solamente tramite un salto narrativo.
A me piace quando lo scrittore mi fa sentire il tempo che passa, descrivendo in una pagina anche giorni o mesi. Accellerando la narrazione, e poi decellerando e zoomando là dove succede qualcosa di succoso.
Ecco questo per me è show…quando invece si passa pagine intere a descrivere minuziosamente una singola scena, e poi si fa lo stacchetto tattico con lo spazio bianco tra paragrafi, quello è tell.
2 aprile 2017 at 16:54
Da lettrice, preferisco di gran lunga il mostrato al raccontato. Quando leggo un libro, creo nella mia mente tutte le scene che leggo, se non riesco ad immaginare quello che sto leggendo non mi immedesimo nella storia e quindi automaticamente la scena non mi prende a livello emotivo, non mi trasmette nulla e se un romanzo non ti trasmette nulla, non è un bel romanzo. Certo non si deve calcare troppo la mano, questo è ovvio. Come dici anche tu il raccontato non richiede sforzo, per questo un libro che mostra, merita più attenzione perché lo scrittore in questo caso si è impegnato molto di più. I tuoi esempi, hanno confermato che io preferisco il mostrato senza alcun dubbio. Non posso leggere il vecchio mago ed emozionarmi. Articolo molto interessante come al solito, ormai ho capito che i tuoi articoli sono tutti molto validi sia dal punto di vista del lettore, sia come ho già detto dal punto di vista di uno scrittore. Comunque show don’t tell tutta la vita .
5 aprile 2017 at 10:37
Anch’io leggo allo stesso modo, Toradira! Quando apro un libro voglio estraniarmi dal mondo, dimenticare che sto leggendo. Quando il testo spezza l’immersione e ti fa tornare nel mondo reale, leggere diventa uno sforzo poco piacevole. Almeno finché non t’immergi di nuovo.
Grazie per i complimenti!
15 aprile 2017 at 16:15
Ciao il Palombaro, ti ho trovato tramite il Writersdream, bel post e bel blog! :)
15 aprile 2017 at 18:52
Grazie Dike! Benvenuto!
26 aprile 2017 at 18:38
‘Sera.
Non esiste blog letterario senza questo tema, che bello.
Io sono per una via di mezzo, alla “Cent’anni di solitudine” o alla “Stoner”: onnisciente che fa da raccordo alle scene, con sommari che riepilogano cosa ha fatto il personaggio X in tot arco di tempo.
http://www.10righedailibri.it/sites/default/files/primapagine_pdf/faziStoner10rd.pdf
“— C’era una volta un vecchio mago…
— L’uomo strinse il pomello con le sue dita incartapecorite, piantò il bastone sul pavimento e si alzò. «Issa!». Il parquet e la schiena scricchiolarono all’unisono.
L’uomo ansimò per lo sforzo, separò la coltre di capelli bianchi che gli coprivano il volto. Sfogliò il tomo. «Hocus Pocus!».
Un geyser di energia astrale esplose dalle pagine ingiallite e… boh”
Non ricordo chi lo disse (forse Eco), ma la descrizione perfetta non esisterà mai; perfetta nel senso che l’immagine immaginata da lettore non sarà mai uguale a chi l’ha scritta, ergo meglio dare al lettore pochi dettagli per immaginarsi il tutto, senza esagerare però.
E poi boh, sarà che siamo cresciuti con le fiabe, ma mi piace di più “C’era una volta un vecchio mago…” la rapidità tanto amata da Calvino.
26 aprile 2017 at 19:18
Ciao Rewind, benvenuto nel blog!
La descrizione perfetta non esiste, sono d’accordo. Ognuno dipinge a suo modo, e ognuno immagina a suo modo. L’importante è, come ho detto, creare immagini nella mente del lettore. Che siano precisamente le stesse che abbiamo in mente noi oppure no, poco importa. Ma ci vuole l’input, o l’immaginazione non si attiva affatto.
“C’era una volta un vecchio mago”, infatti, non mi fa immaginare un bel niente. Certo, se ci penso su posso inventare qualsiasi figura nella mia mente, ma dovrei smettere di leggere per farlo e rimuginare su quella singola frase. Ma noi vogliamo che i lettori leggano, no? Che ricreino le scene mentre leggono, non a libro chiuso. È un romanzo, mica un gioco di ruolo!
Non so quanti anni tu abbia, Rewind, ma nemmeno gli antichi Greci sono cresciuti con le fiabe. Queste possono tutt’al più svezzare, non certo formare. Comunque, de gustibus!
26 aprile 2017 at 20:18
“Un re s’ammalò. Vennero i medici e gli dissero: “Senta, Maestà, se vuole guarire, bisogna che lei prenda una penna dell’Orco. È un rimedio difficile, perché l’Orco tutti i cristiani che vede se li mangia”.
Il Re lo disse a tutti ma nessuno ci voleva andare. Lo chiese a un suo sottoposto, molto fedele e coraggioso, e questi disse: “Andrò”.
Gli insegnarono la strada: “In cima a un monte, ci sono sette buche: in una delle sette, ci sta l’Orco”.
L’uomo andò e lo prese il buio per la strada. Si fermò in una locanda…”
Martin avrebbe descritto questa scena mostrando magari il Re sputare sangue, i denti cadere uno ad uno, la pelle sfaldarsi, ecc; alla fine quello che conta è l’effetto, e non si può pretendere che tutti gli scrittori abbiano una visione univoca: c’è chi predilige il suono delle parole, c’è chi predilige la totale assenza del narratore, c’è chi predilige l’assenza di certe parti (avverbi?), tutto nella norma.
Quindi credo sia un falso problema: escluso il fantasy (che ha regole un po’ a parte) credo che il tutto debba rientrare nella domanda: che effetto si vuole ottenere?
“Raccontato: Mi gettai in acqua. Nuotai nel brodo primordiale che un tempo mi diede alla luce. L’acqua nera si tramutò in spazio siderale, coralli come stelle del firmamento. Fluttai tra i pianeti, novello astronauta di un mondo perduto.”
Tralasciandone il valore letterario, siamo sicuri che sia da scartare a prescindere? Perché se il protagonista è sotto l’effetto di acidi ci sta come sproloquio. E poi sono esempi, non hanno un contesto attorno che possa far dire “ci sta bene” o “avrei scritto diversamente”.
“Raccontato — Prendo la foto. È bellissima.”
“Mostrato — Prendo la foto. Scorro il dito sulle labbra siliconate, seguo il profilo del nasino e accarezzo le iridi azzurre dei suoi occhi a mandorla. Bella come una prigione che brucia, falsa come una birra analcolica.”
Ripeto: singolarmente ( e potenzialmente) ogni frase può andar bene.
La frase raccontata come incipit è, per me, preferibile alla seconda: più breve, misteriosa, colpisce; magari poi verrà descritta una Fiat Panda del 2002, ma non importa.
La frase mostrata la vedrei bene successivamente.
Poi siamo d’accordo sul fatto che non entrare nei dettagli è frustrante, ma anche perdersi in una matrioska di descrizioni è frustrante.
Mostrare o raccontare?
Dipende: nessun è superiore all’altro, hanno solo effetti diversi: in un racconto umoristico l’onnisciente è preferibile per creare una certa distanza (vedasi Achille Campanile e Pirandello); in un noir o in un fantasy meglio mostrare, magari concentrandosi su un solo personaggio.
Ma niente impedisce di ibridare.
Salud.
26 aprile 2017 at 20:36
Verissimo, Rewind, è semplicemente una questione di princìpi. Se la frase “Prendo la foto. È bellissima.” ti ha intrigato e colpito, allora abbiamo due idee diverse di narrativa.
Permetti una battuta: ma se leggi una frase come “Mangio la mela” provi un orgasmo letterario? :P
26 aprile 2017 at 20:46
Touchè.
2 marzo 2018 at 16:06
Finalmente un articolo sullo show don’t tell che non parla di come questo sia sopravvalutato, da considerarsi un errore della narrativa moderna o di come il tell sia più raffinato e complesso.
Detto da lettore, per me il libro è come un dolce. Il raccontato è un piccolo dolcetto dalla pasta dura e asciutta a cui bastano pochi morsi per averne la nausia, il mostrato invece è un bombolone rimpinzato di crema pasticcera ricoperto da zucchero a velo. Io voglio proprio quest’ultimo, leggere libri che mi inflazionino di zucchero, che mi facciano godere ogni morso spingendomi con voracia al successivo. Da leccarmicisi le dita.
In questo contesto, preferisco finire con un diabete piuttosto che con dei denti rotti.
Sfortunatamente non ne ho trovati molti che seguono questa regola, non sono cose che ti scrivono in copertina. Recentemente ho iniziato a leggere un libro di un mio amico, autopubblicato, di ispirazione tolkeniana. Un mattone. Non solo per la mancanza dello show don’t tell ma anche per le battute più simili a monologhi pseudo-filosofici accompagnati da sguardi rivolti verso il vuoto, irrilevanti per la trama.
Da prassi si tratta di una triologia, pubblicare una storia autoconclusiva è poco tolkeniano, secondo alcuni.
Ignorando questo piccolo sfogo, vado a papparmi qualche articolo su “Costruire una storia”, sia mai che apprenda qualcosa di utile per questo mio hobby, le premesse son buone.
3 marzo 2018 at 17:07
Grazie mille Erre, e benvenuto nel blog! Condivido pienamente le tue considerazioni: anche per me il Tell funge da surrogato nella narrazione. Io voglio vivere! Picchiare, baciare, correre, e voglio guardare, sentire, odorare, non leggere menate o riassunti di realtà.
Per di più, capisco a quale tipo di romanzo ti riferisci quando parli di mattone tolkeniano. I neofiti sono spesso propensi alle chiacchiere poetiche e ad aggiungere piuttosto che a sottrarre; per non parlare dei cliché fantasy, di cui sono, onestamente, saturo…