
Genere: Distopia, Fantapolitica, Fantascienza, Ucronia
Editore: Bobbs-Merrill, Urania il 4 Gennaio 1976
Pagine: 245
Punteggio: 2.5/5
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Descrizione:
Shadrach nella fornace (un romanzo del 1976) fa parte dei classici pubblicati dal Silverberg maturo tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta. È la storia allucinante ma realistica di un mondo futuro colpito da una doppia maledizione: sul piano politico, la tirannia; su quello biologico, la spaventosa minaccia nota come "degenerazione organica". Qualcuno ha voluto vedere nel dittatore di questo romanzo un ritratto fedele di personaggi a noi più vicini, in primo luogo Mao Tze-tung, ma nessun parallelismo può togliere a Shadrach il suo personalissimo, futuristico odore di zolfo.
Il Canto del Cigno?
Shadrach nella Fornace fu pubblicato nel 1976 e sarebbe dovuto essere l’ultimo romanzo del suo autore. Robert Silverberg annunciò, infatti, il suo ritiro dalle scene appena un anno prima. Per fortuna, però, la pausa non durò e l’autore tornò quattro anni dopo con Il Castello di Lord Valentine, che gli fruttò bei quattrini e lo convinse a scrivere dei sequel: è il famoso ciclo di Majipoor.
In ogni caso, Shadrach nella Fornace ebbe un discreto successo. Il romanzo fu nominato al premio Nebula del ’76 e a quello Hugo del ’77. Lo si potrebbe collocare all’esatto termine della seconda fase dell’autore; quella, per intenderci, che inizia nel ’67 e comprende opere come Vacanze nel Deserto, Morire Dentro e L’Uomo Stocastico.
È il periodo più libero e sfrenato dal punto di vista letterario, per Silverberg. Frederik Pohl gli aveva concesso grande libertà e il nostro non fece tanti complimenti. Del resto, Silverberg aveva già sofferto tante volte della ristrettezza di mentalità e mercato in cui versava la fantascienza americana.
I lettori, abituati a opere più commerciali, tendevano a non attribuirgli l’importanza che meritava.
Silverberg aveva, insomma, importanti velleità letterarie, che riuscì senz’altro a concretizzare (per poi superarle, a mio avviso, nella terza fase). Shadrach nella Fornace si configura, dunque, come l’ultima opportunità nella mente dell’autore stesso, sebbene questi ci abbia ripensato in seguito.
Robert Silverberg non poteva non osare, in quest’opera. Non poteva non dare il massimo. E così fece, nel bene e nel male. Vediamo insieme in che senso.
Silverberg nella Fornace
L’anno è il 2012. Il mondo giace devastato dalle Guerre Virali, la sua popolazione decimata dalla malattia geneticamente trasmissibile chiamata “degenerazione degli organi”. A presidio delle rovine si erge, nella capitale mongola di Ulan Bator, un tiranno novantatreenne, preservato dall’età da una serie di trapianti d’organi: Genis II Mao IV.

Shadrach Mordecai, il fidato medico personale del dittatore, è un ingranaggio vitale della grande macchina votata alla sopravvivenza del sovrano: collegato ad esso tramite un network di impianti elettronici, Shadrach è in grado di localizzare e diagnosticare ogni malfunzionamento del suo signore e padrone.
Questa la trama, per sommi capi. Premessa interessante e originale, vero? E il romanzo si è confermato tale al sottoscritto.
Shadrach nella Fornace è una lettura stimolante, ricca di punti di forza e da cui emana con prepotenza il talento dell’autore. In questo romanzo più che in moltissimi altri, oserei dire, Silverberg dimostra di essere un genio e non meramente al di sopra della media.
Chi mi legge sa che non uso quel termine con leggerezza. Eppure, Shadrach nella Fornace non è un buon romanzo. Sembra un controsenso, ma è indubbio che tra il libro e l’autore sia quest’ultimo a far bella figura, a lettura terminata.
Lasciate che mi spieghi.
C’è un motivo per cui leggo Robert Silverberg. Come di norma nelle opere dell’autore, Shadrach nella Fornace presenta temi importanti e tantissimi spunti. Si parla di morte, d’amore, di potere, storia, identità e chi più ne ha più ne metta. Ma non in termini banali o riduttivi, badate.
Al solito, l’introspezione di Silverberg è di alto livello e ci permette di vedere il mondo dagli occhi di Shadrach Mordecai, medico afroamericano del dittatore tataro Gengis II Mao IV. L’autore ha fatto bene i compiti e la mole di informazioni relative alla professione di Shadrach è… impressionante. Anche troppo.
Le riflessioni in ambito accademico, le operazioni chirurgiche, i check-up futuristici operati dall’eroe sono spiegati con dovizia di particolari e un linguaggio specialistico degno della sua posizione. In altri termini, sembra che Silverberg medesimo sia un dottore di grande esperienza.

Ma non solo. Ricordate che parliamo della crème de la crème: Shadrach Mordecai, dopo essersi specializzato in gerontologia ad Harvard, è riuscito a ottenere la posizione più prestigiosa del pianeta. Dunque, il nostro ha una formazione profonda e completa.
Discetta di classici, storia, filosofia, tecnologia fantascientifica e quant’altro. Proprio come l’autore; del resto, egli farcisce ogni sua opera di riferimenti alla classicità. Qui, però, è a briglia sciolta, e i pensieri di Shadrach Mordecai sono un fiume in piena di cultura.
Aggirando il Vettore di Comitato Uno, Shadrach (…) segue la via più lunga per arrivare al proprio studio, passando per lo studio vuoto di Gengis Mao e per la maestosa sala da pranzo del Khan. Come sempre, è rassicurante per lui ritrovarsi circondato dalla familiarità dei suoi talismani, i suoi libri, la sua collezione di strumenti medici. Vaga da una bacheca all’altra, sentendosi già meglio. Prende in mano il suo divaricatore, un sinistro forcipe a gomiti divergenti usato per curiosare nelle ferite aperte. Pensa a Mangu, spiaccicato contro la pavimentazione dello spiazzo; scaccia il pensiero. Esamina la sega a denti sottili che qualche chirurgo del diciottesimo secolo usava per portare a termine operazioni. Pensa a Gengis Mao, livido, gli occhi vitrei, intento a ordinare arresti di massa. Decapitateli tutti! Potrebbe essere quello il prossimo passo; perché no? Mordecai raccoglie una bambola anatomica proveniente dalla Bologna del quindicesimo secolo, un elegante homunculus femmina in avorio… qual è il femminile di homunculus, si chiede? Homuncula? Foeminacula? La pancia e il seno si sollevano alla pressione di un polpastrello, rivelando cuore, polmoni, organi addominali, perfino un feto, accoccolato nell’utero come un canguro nel marsupio. E i libri, oh, sì, i preziosi libri polverosi, precedentemente posseduti da grandi medici di Vienna, Montreal, Savannah, New Orleans. Il Philonium Pharmaceuticum et Cheirurgicum di Valesco de Taranta, 1599! La Gynaecologia Historico-Medica di Martin Schurig, 1730, ricca di dettagli di deflorazione, lussuria, penis captivus e altre cose mirabolanti! E questo è il vecchio Die Cellularpathologie di Rudolf Virchow, del 1852, che proclama come ogni organismo vivente sia “uno stato di cellule in cui ogni cellula è un cittadino”, come una malattia sia “un conflitto tra i cittadini di questo stato, originato dall’azione di forze esterne”. Aux armes, citoyens! Cosa avrebbe detto Virchow di fegati trapiantati, polmoni presi a prestito? Li avrebbe chiamati mercenari assoldati, non c’è dubbio: i soldati di ventura della metafora medica. Almeno si combatte lealmente, nelle guerre cellulari: senza defenestrazioni furtive, senza cecchini sul cavalcavia. E questo libro enorme: Grootdoorn, Iconographia Medicalis, seducenti incisioni antiche. Ecco, qui, San Cosma e San Damiano in questo ritratto del sedicesimo secolo, rappresentati nell’atto di attaccare la gamba del moro ucciso al moncherino della vittima di un tumore. Profetico. Chirurgia del trapianto versione ‘500 dopo Cristo, eseguita postuma, niente di meno, dai sacri chirurghi. Semmai troverò l’originale di quella stampa, pensa Shadrach, lo regalerò a Warhaftig per Hannukkà.
(Shadrach nella Fornace, pag. 103-104)
Ma il lavoro di Silverberg non si ferma qui. Il world-building è ricco almeno quanto il protagonista: parliamo di un’ucronia distopica condita di fantapolitica e tanti elementi di science fiction, alcuni dei quali sconfinano nella hard sci-fi.
Il mondo immaginato da Silverberg è un inferno, sì, ma non senza i suoi divertissement. Tra i piaceri a cui si dedicano le persone che possono permetterseli, in tempi tanto amari, ci sono nuove sette pseudo-religiose o svaghi spirituali, come il transtemporalismo, il sogno di morte e la Carpenteria.
Il primo è un vero e proprio viaggio nel tempo ottenuto grazie a un mix di droghe e chissà cos’altro. Si tratta di un’illusione, ovviamente, un’allucinazione… ma tanto realistica da sembrare vera. E il viaggio conduce dove si desidera: ai tempi di Cristo e al suo cospetto (con gli infiniti, inevitabili riferimenti biblici), all’eruzione del Cotopaxi che ha causato le Guerre Virali, all’era di Gengis Khan ecc.
La Carpenteria, però, è ancora più interessante. Si entra nelle cappelle preposte, si prendono in prestito degli attrezzi e si fa qualche opera di falegnameria entrando in uno stato di meditazione e rilassamento. Una volta completato il progetto, si restituiscono gli attrezzi e si brucia il resto.
Un’idea intelligente e sfiziosa, sebbene non la trovi pienamente integrata nel contesto. La società distopica di Shadrach nella Fornace, infatti, vede la stragrande maggioranza della popolazione occupata a decomporsi e campare alla bene e meglio, non assuefatta alle macchine o persa in un mondo virtuale.
Detto ciò, quelli di cui sopra sono degli esempi degli spunti intessuti da Silverberg. Potrei parlare del rapporto assolutamente unico (“singola unità di trattamento dell’informazione”, lo chiama l’amante di Shadrach) che intercorre tra il dottore e il tiranno. O della falsa autobiografia di Gengis Maio immaginata da Shadrach stesso.
Sì, avete capito bene: il medico inizia a fantasticare su un diario inesistente del dittatore. Nessuno sa nulla, infatti, del passato di quest’ultimo, a eccezione del mito rivoluzionario con le relative tappe storiche. A Shadrach piacerebbe scrivere la prima, vera biografia di Gengis Mao, ma neanche lui è a conoscenza di tali segreti.

E allora fantastica. Da un certo punto in poi, la narrazione viene spezzata dalle confessioni di Gengis Mao relative a quel passato dimenticato. E inventato, ovviamente, perché è Shadrach a raccontare con la voce del suo paziente. Non è una trovata brillante?
E che dire dei viaggi di Shadrach a Nairobi, Gerusalemme, Roma ecc.? Uno spioncino sul mondo inventato da Silverberg, certo, ma anche un’occasione imperdibile per gettare luce sui richiami ancestrali delle origini africane di Shadrach; sulla storia tutta particolare della Città santa, sull’identità ebraica e così via.
Ora, forse, comprenderete come Shadrach nella Fornace sia stato nominato al Premio Nebula e al Premio Hugo. E capirete perché parlavo di genio: Silverberg riesce in ciò in cui sogno di riuscire, un giorno. Non credo, infatti, che il nostro avesse davvero esperienza di ciò di cui narra, eppure pare il contrario.
È l’imbroglio perfetto. Ciò a cui anela ogni scrittore: inventare di sana pianta qualcosa e convincere il lettore di esserne autorità competente. Ciò è ottenibile soltanto con un lavoro tremendo di preparazione, lettura, ricerca… e con una capacità di immedesimazione che sfugge alla maggioranza degli scrittori.
Resta solo un interrogativo, che cresce in me man mano che scrivo questa recensione e in voi man mano che la consumate. Perché, dunque, Shadrach nella Fornace non sarebbe un buon romanzo? E, soprattutto, com’è la storia? Non ne abbiamo ancora parlato.
Beh, c’è un motivo.
E la Fornace incenerì Shadrach

Non giriamoci intorno: la storia di Shadrach nella Fornace, a dispetto delle immense potenzialità, è deludente e costellata di errori. Tanta informazione, del resto, ha un costo. Il ritmo della storia è infatti assai lento, altalenante nei momenti migliori, ma questo è solo uno dei difetti.
Spezzare continuamente il flusso della storia con biografie inventate, viaggi e introspezioni sarebbe disdicevole ma, tutto sommato, accettabile, se ci fosse un flusso della storia. Il problema, in Shadrach nella Fornace, è la narrazione tout court.
Il romanzo parte con descrizioni strabordanti e poco efficaci degli apparati fantascientifici immaginati dall’autore, e procede di questo passo finché l’ambientazione e i personaggi non sono stati, finalmente, sviscerati a dovere. Qualunque editor, già a questo punto, avrebbe dovuto tagliare un bel po’ di pezzi. Ma è solo l’inizio.
Si dice spesso che ciò che non fa procedere la trama di una storia andrebbe eliminato. Concordo, ma non del tutto: dei compromessi sono passabili, opportuni perfino, quando si tratta dell’empatia del protagonista, del Tema e di altri elementi essenziali alla qualità di una storia (ma non alla trama).
Ebbene, qui si passa all’estremo: si dovrebbe tagliare l’80% del romanzo, a essere buoni, se si dovesse seguire il consiglio di poc’anzi. L’innesco ha luogo soltanto a circa 1/3 della lunghezza del libro, e il richiamo all’azione vero e proprio perfino dopo. In altri termini, Silverberg medesimo non sa quale storia debba raccontare.

È un grossissimo errore, che si ripresenta nella scelta di inserire determinate sequenze che dire superflue è dire poco. Parlo della biografia, sì, dei viaggi, come di tante riflessioni, di incontri con personaggi secondari e molto altro. Se una narrazione elegante fosse una linea retta, Shadrach nella Fornace sarebbe un punto da cui si dipartono spirali.
Sì perché alla fine dei conti la vicenda in sé stessa è brevissima, semplicissima. E non scadente, badate, anzi. L’idea è brillante fino in fondo. Ma rimane un’idea infiocchettata, celebrata… non sviluppata e vittima, in aggiunta, di varie ingenuità, che riporto nello spoiler di seguito.
Dopo tante spiegazioni di sistema di sicurezza infallibili, spie onnipresenti ecc., il segretissimo donatore del progetto Avatar trapela non una, ma ben due volte.
E vogliamo parlare di Gengis Mao, che non si accorge mai di nulla nonostante la proverbiale scaltrezza? O di Buckmaster che sopravvive come nulla fosse; dei collaboratori segretamente schierati, di punto in bianco, contro il dittatore; del problema di citpol e occhi-spia ubiqui, così pervasivo all’inizio, che si tramuta in una bolla di sapone all’occorrenza… tutto troppo comodo, insomma, come nelle peggiori narrazioni hollywoodiane.
Dunque non solo la trama è quel che è, ma fa pure acqua. Un po’ di tensione c’è, grazie a una certa minaccia che incombe sul protagonista. Ma il coinvolgimento? Zero. Emozioni? Zero. Se Silverberg non fosse un maestro delle parole, oltre che dei contenuti, sarebbe stato anche difficile da leggere.
Lo ammetto, nonostante questi difetti devastanti non mi è stato difficile terminare la lettura. Il merito è per lo più dell’autore, come detto, e non della storia in sé. E poi, alla fine della fiera, sono rimasto con l’amaro in bocca, come se non ne fosse valsa la pena.
Del resto, se cercassi solo informazioni interessanti e spunti, tanto varrebbe leggere un saggio. Ma da una storia pretendo altro: mi aspetto di viverle, quelle informazioni, non di assorbirle passivamente. E così le ho già dimenticate.
Perfino l’eroe stesso ne esce sconfitto. Dopo tutto il lavoro di introspezione, si penserebbe che almeno quello debba restare impresso nella memoria, ma così non è. Il motivo è semplice: le azioni valgono più delle parole.
Nella narrazione, a conti fatti, il buon Shadrach è immobile, passivo. Non prende mai alcuna decisione, se non quella che determina il finale. Anche lì, in realtà, la sua è una scelta comoda e priva di reale conflitto, interiore quanto esteriore. Il tutto per un’allegoria alquanto scontata e moraleggiante, che riporto di seguito.
Il passato di schiavismo della “gente” di Shadrach viene citato a più riprese nella narrazione, finché l’autore non tratteggia direttamente dei parallelismi con gli ebrei schiacciati dalle numerose dominazioni. Il collegamento nero-schiavo ed ebreo-vittima viene riportato papale papale durante la gita di Shadrach a Gerusalemme.
Come il vero Shadrach biblico, dunque, l’eroe si ritrova a essere messo sui carboni ardenti dal suo malvagio padrone straniero (il barbaro tataro Gengis Mao, allegoria del barbaro babilonese Nabucodonosor), per poi scampare al fuoco.
E il rapporto tra Shadrach e Gengis Mao? E Gengis Mao? Idem. Tante potenzialità, nessun reale risvolto. Le relazioni in toto, in Shadrach nella Fornace, sono così: espedienti privi di reale sostanza. Il protagonista, ai fini della trama, è più solo che mai.

Questo è il Silverberg maturo, eppure sembra che abbia dimenticato il mestiere che il sé più giovane esercitava con maggiore maestria. D’altro canto, il posteriore Gilgamesh incorpora entrambi i mondi: una sapienza assoluta nella narrazione e nei contenuti.
La mia teoria è che Silverberg si sia lasciato andare, in Shadrach nella Fornace. Non nello sforzo, quanto nell’autocontrollo. Conosco l’autore e riconosco la sua presenza, poiché stenta a farsi completamente da parte; ebbene, qui lui è dappertutto. In ogni pensiero, a compiacersi delle sue elucubrazioni e a compiacere.
Sembra quasi che Silverberg volesse a tutti i costi imprimere una certa “dignità letteraria” alla sua opera, e non che fosse intenzionato a scrivere una storia. Sarà così?
Conclusione: sconsigliato
Contro:
- Descrizioni eccessive e poco efficaci.
- Ritmo lento, altalenante nei momenti migliori.
- Narrazione non focalizzata, ricca di sequenze inutili.
- Vicenda in sé brevissima e forzata.
- Conflitti al minimo. Struggimento al minimo. Emozioni al minimo.
- Eroe passivo, che non compie vere scelte.
- L’autore si sbrodola in troppe citazioni, riflessioni e via dicendo.
Pro:
- Prosa scorrevole.
- Tanti spunti e temi.
- Ottima introspezione.
- Premessa originale.
- Un lavoro certosino di ricerca da parte dell’autore.
- Un minimo di tensione.
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