Cenni di Narratologia
A scuola non sentii mai parlare della narrativa moderna. In compenso, mi furono insegnati i rudimenti di romanzologia. La fabula, l’intreccio, la focalizzazione… finanche qualcosa di avanzato come il deus ex machina. Studiai il vecchiume che studiano tutti, con una predilezione per la Commedia di Dante e I Promessi Sposi del Manzoni. Poi, il nulla.
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È interessante notare come nel 21° secolo non si insegni a leggere ciò che produce il 20°-21° secolo. Vi siete mai chiesti perché a scuola non diano gli strumenti per comprendere la produzione letteraria contemporanea, per criticarla o per crearla?
Del resto, essa costituisce il 90% di ciò di cui usufruiamo quotidianamente. Non venitemi a dire che leggete abitualmente testi precedenti al ‘700-800, perché non ci credo. O meglio, posso capire che questi occupino uno spazio minoritario tra le vostre letture, a meno che non siate esperti del settore. Per usare un’iperbole, dubito che in tanti leggano la Gerusalemme Liberata per diletto.
Ebbene esiste una disciplina che governa questi benedetti romanzi del 20° e 21° secolo, ed esistono regole e tecniche. Sono elementi che possiamo osservare, in forma embrionale, già nel romanzo Robinson Crusoe, che fa uso di una struttura unificata, sequenze narrative dotate di continuità e coesione, drammatizzazioni e così via.
Parliamo di narratologia e principi della narrativa moderna, ovvero dello studio delle strutture narrative. Fu Tzvetan Todorov a coniare tale termine, nell’alveo della scuola dei formalisti russi (all’avanguardia in fatto di letteratura come l’Impero Russo tutto, URSS inclusa).
Le tecniche di narrativa moderna cominciarono a prendere forma da Gustave Flaubert in poi: egli fece fare un passo avanti al realismo francese, innescò la trasformazione dello stile ottocentesco in quello che siamo abituati, oggi, a leggere.
Gustave Flaubert e la Narrativa Moderna
Flaubert sosteneva che la narrazione dovesse procedere attraverso un susseguirsi di scene e d’immagini dinamiche. Flaubert affermò, in netta controtendenza con l’epoca, che un testo narrativo dovesse avvalersi di dettagli concreti, verbi scelti accuratamente e non un profluvio di termini vaghi o altisonanti.
Egli sancì anche che l’autore di romanzi dovesse limitarsi a raccontare storie e non farle a brandelli con la sua intromissione. Nasce il primo, determinante principio della narrativa moderna: la trasparenza.
«Qualsiasi cosa tu voglia dire, non c’è che un termine per esprimerla, non c’è che un verbo per imprimerle movimento, non c’è che un aggettivo per qualificarla; devi cercare finché non trovi questo sostantivo, questo verbo, questo aggettivo».
Gustave flaubert
Tony Williams ricostruisce la metodologia di scrittura inventata da Flaubert in The Cambridge Companion to Flaubert e scrive che lo stile ricercato da Flaubert fosse «ritmato come un verso, preciso come il linguaggio scientifico, e con le ondulazioni, il mormorio di un violoncello, i pennacchi di fuoco, uno stile che ti entra nella mente come una stoccata, e su cui finalmente i pensieri scivolano come su una superficie liscia…».
Alcuni dei succitati tratti sono riscontrabili in Madame Bovary: un’intromissione minima da parte dell’autore; una limitazione dei discorsi all’interno dei dialoghi (da tradizione, spesso esageratamente lunghi); una più spinta e allusiva presentazione della componente sessuale, ancora indiretta ma maggiormente efficace e passionale rispetto alla produzione coeva.
Va comunque detto che, come tutti, Flaubert fu figlio del suo tempo, e come tale vittima del modus scrivendi allora in voga (sebbene in misura minore di tanti suoi contemporanei): monologhi continui e fastidiosi dei personaggi, prosa poco impattante e consona alle signore per bene, tempi morti e una scarsa tensione drammatica.
Ciononostante, Flaubert era già anni luce avanti al nostro Manzoni in quanto a tecnica (come anche Edgar Allan Poe), poiché limitato nel bisogno di fare saggistica all’interno delle sue storie. Questa era, invero, una pratica consueta nell’Ottocento, giacché alle lettrici (che restavano a casa) piaceva istruirsi sugli argomenti più disparati e Internet e la televisione non esistevano.
I Precursori
«Non dirmi che la luna splende; mostrami il riflesso sul vetro infranto».
anton cechov
Cechov fece ulteriori passi verso la narrativa moderna: a lui si deve il popolare motto Show, don’t tell, ovvero “Mostra, non raccontare“.
Si tratta di una delle tecniche fondamentali della narrativa moderna. Potete leggerne di più in questo articolo.
Henry James arrivò a simili conclusioni. «Drammatizza. Drammatizza. Drammatizza» fu l’invito dell’autore a narrare con elementi vividi, netti, utili a catturare il lettore e a emozionarlo. Da qui parte un altro principio basilare: raccontare per emozionare.
Fu Ford Madox Ford a raccogliere il consiglio e a traghettare il realismo didascalico di fine ‘800 al realismo di oggi, fatto di sangue, di carne e di sesso.
Da Charles Dickens, che narrava della povertà e dei bassifondi ma si vantava di non far «arrossire le gote dell’innocenza», a una narrativa che dovesse coinvolgere l’uomo e non più l’idea di uomo. Ford Madox Ford concepì il punto di vista, o POV, circoscritto al protagonista e filtrato dal protagonista stesso. Ciò costrinse il lettore a calarsi nei panni dell’eroe, a vivere le sue avventure in prima persona, a vedere coi suoi occhi e a discernere con i suoi sensi. La distanza tra romanzo e lettore venne abbattuta.
Prima di Ford, tuttavia, ci fu un autore capace di scuotere nelle fondamenta la narrativa americana e di influenzare, ancora oggi, migliaia di scrittori. Immaginario truculento, idee strampalate e inquietanti, prosa violenta e raffinata: tutto ciò fu anticipato da Ambrose Bierce, che diede una forte spinta al processo di mascolinizzazione della letteratura.
I Giganti della Narrativa Moderna
Lo scrittore soldato avrebbe ispirato, coi suoi racconti, la futura corrente weird di H.P. Lovecraft (inventò, tra le altre cose, Carcosa), nonché l’avanguardia della narrativa moderna impersonata da Ernest Hemingway. I suoi racconti di guerra, in particolare, furono tra i più audaci dell’intero 19° secolo.
Tutt’oggi sono in tanti a risultare più datati del Bitter Bierce. Egli fu di idee talmente originali da precedere le Edisonate e lo steampunk; da scrivere di un robot prima che la parola fosse inventata (nel bel racconto Moxon’s Master). Fu anticipatore dell’horror insieme a Poe. Ma soprattutto, scrittore di una prosa così sensoriale da far strappare i capelli ai suoi contemporanei.
An Occurrence at Owl Creek’s Bridge è forse il racconto di letteratura americana più famoso al mondo. Ma non è l’unico: altro capolavoro è Chickamauga, seguito da Killed at Resaca e George Thurston.
A un tratto udì una forte detonazione e qualcosa colpì l’acqua a pochi centimetri dalla sua testa, schizzandogli il viso. Dopo una seconda detonazione vide una delle sentinelle con il fucile puntato, mentre una lieve nuvola di fumo azzurro fuoriusciva dall’imboccatura. L’uomo in acqua vide l’occhio dell’uomo sul ponte fissare il suo attraverso il mirino del fucile. Notò che era grigio e si ricordò di aver letto che gli occhi grigi erano quelli dalla vista più acuta, e che tutti i tiratori scelti più famosi avevano gli occhi di quel colore. Ciononostante, questo l’aveva mancato.
Jack London, l’autore americano più tradotto e letto al mondo, potenziò ulteriormente quella prosa e, al contempo, la semplificò. Egli scriveva con uno stile lineare, ma crudo e obiettivo. Naturalista, a tratti, ma percorso da esplosioni di emozioni e introspezioni degne delle future odissee interiori della narrativa contemporanea.
Hemingway affinò la tecnica con la teoria dell’iceberg: conoscere ogni elemento descrittivo e ambientale della storia permette di scegliere pochi dettagli per una resa migliore. Sono quei dettagli, infatti, a costruire nella mente del lettore l’interezza dell’immagine (o della scena). Maggiore è la precisione nel descrivere, più nitido è il risultato. La punta dell’iceberg, dunque, implica ciò che le sottostà. Da Il vecchio e il mare (1952):
«Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde sulla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale. Le chiazze scendevano lungo i due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti. Erano tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci.
Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti».
E a proposito di nitidezza, sentiamo cosa pensava George Orwell in merito.
«1 — Non usare mai una metafora, similitudine, o altra figura retorica che sei abituato a leggere su carta stampata.
2 — Non usare mai una parola lunga ove puoi usarne una corta.
3 — Se ti è possibile tagliare una parola, tagliala sempre.
4 — Non usare mai i passivi ove puoi usare gli attivi
5 — Non usare mai una frase straniera, un termine scientifico o una parola incomprensibile se ti viene in mente un termine inglese equivalente e di uso comune
6 — Infrangi una di queste regole prima di dire qualcosa di assolutamente incivile».
Orwell è sempre stato per la trasparenza, anche in virtù del suo mestiere di giornalista (come Hemingway, del resto). Ciò detto, neanche lui seguiva pedissequamente le sue stesse regole, come dimostrato dall’ultimo punto (che, in altri termini, raccomanda di usare il buon senso prima di tutto). Il segreto è sforzarsi; la perfezione non esiste.
Lo stesso Ezra Pound, sommo poeta americano, avrà a dire sulla poesia (nel pezzo A Few Don’ts, che consiglio):
«(…)
2 — Non usare termini superflui, nessun aggettivo che non riveli qualcosa.
3 — Non usare un’espressione come “fievoli terre di pace”. Sbiadisce l’immagine. Mischia un’astrazione col concreto. Deriva dalla mancata realizzazione, da parte dello scrittore, che l’oggetto è sempre il simbolo adeguato.
4 — Abbi paura delle astrazioni. Non riscrivere in versi mediocri ciò che è già stato narrato con una buona prosa. (…)
7 — Utilizza un buon abbellimento o nessun abbellimento».
Ciò vale a maggior ragione per la narrativa, che dà minore importanza alla fonetica. Allo stesso modo la pensava T.S. Elliot, amico di Pound e progenitore della corrente critico-poetica del New Criticism.
La Retorica della Narrativa
Dai New Critics si passò alla scuola di Chicago, lo stato dell’arte per quanto concerneva la critica letteraria e la narratologia. Wayne Clayson Booth ne divenne il principale esponente, nel ’61, con la pubblicazione di Rhetoric of Fiction. La critica letteraria morì e rinacque: per Booth, la narrativa moderna è retorica, e come tale segue i principi e le regole dell’arte retorica.
Un filo conduttore, quello di Booth, che si lega al concetto in divenire della letteratura post-Flaubert. La narrativa moderna, essendo retorica, è persuasione: autore e lettore sanno che si tratta di fantasia, ma il primo deve convincere il secondo a credere nella storia, a fingere che sia realtà (similmente a quella che oggi chiamiamo, nel fantasy, la sospensione dell’incredulità).

Per approfondire: Retorica della narrativa, di Wayne C. Booth, Dino Audino editore.
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Il lettore diventa, dunque, il protagonista e vive il romanzo di persona. Ecco perché la narrativa moderna deve essere verosimile e il mondo fittizio deve risultare credibile agli occhi del lettore.
Vi chiedete mai il perché della dicitura “tratto da una storia vera” che precede molti film e romanzi? Perché funziona: il fruitore si sente più coinvolto, cessa di considerare la storia come frutto dell’immaginazione e mero intrattenimento.
Il libro/film appare sotto una nuova luce: realtà. Fatti, per quanto brutali ed emozionanti, che sono accaduti davvero. «Oh mio Dio, non posso credere che sia successo!». «Devo saperne di più, il suo passato è sconvolgente». La storia va oltre la storia, in un interessante espediente meta-narrativo.
Certo, si tratta di un semplice trucco. Una truffa, spesso, in quanto gli eventi potrebbero essere ben diversi dal modo in cui sono narrati. Ma il risultato è il medesimo, e il meccanismo è simile a quello della narrativa moderna. L’azione parla più delle parole.
Va detto che i neo-aristotelici della scuola di Chicago diedero grande importanza alla struttura e all’impianto narrativo piuttosto che alla prosa, campo prediletto dai New Critics. Ed è anche sulla struttura (elemento, per altro, valutabile oggettivamente) che si deve puntare, se si vuole abbattere la distanza tra la storia e il fruitore.
Ma che c’entra Aristotele in tutta questa storia?
L’Eredità di Aristotele
Ebbene, la Poetica di Aristotele ha influenzato, dall’antichità ai giorni nostri, il modo in cui raccontiamo le storie. Parlo della struttura restaurativa in tre atti, utilizzata massicciamente nella stesura delle sceneggiature, e della struttura narrativa in tre atti, presente in tanti romanzi. Scendendo nei particolari, la nozione aristotelica specifica che i drammi hanno un inizio, uno svolgimento e una fine, e che tali parti devono essere tra loro proporzionate.
Più specificamente, Aristotele distingue tra poemi epici e tragedie, ma l’aspetto narrativo accomuna entrambe le forme d’arte. Il filosofo si concentra, nella sua disamina, su quegli elementi che prescindono dallo stile; come egli stesso afferma, infatti, una buona tragedia deve riuscire a trasmettere emozioni e intenti anche con una lettura, senza che venga messa in scena.
Più precisamente, l’arte del racconto è imitazione, cioè mimesi, e «Mimesi dell’azione è la favola: e qui appunto io intendo per favola la composizione di una serie di atti o fatti». A tal proposito, «(…) la tragedia è mimesi di un’azione perfettamente compiuta in sé stessa, tale cioè da costituire un tutto di una certa grandezza, perché ci può essere un tutto anche senza grandezza. Un tutto è ciò che ha principio e mezzo e fine».
La mimesi riguarda, allo stesso modo, i poemi epici, di cui Aristotele sottolinea, ancora, l’aspetto narrativo a discapito di quello stilistico: «D’onde si conclude chiaramente che il poeta ha da esser poeta di favole anziché di versi, in quanto egli è poeta solo in virtù della sua capacità mimetica, e sono le azioni che egli imita (…)».
Nella Poetica, Aristotele parla di verosimiglianza, pietà e terrore, di voce narrante, caratteri e pensieri, nodo e scioglimento… tutti elementi di fondamentale importanza nell’arte del racconto e, incredibilmente, ancora attuali, poiché senza tempo. Invero, il filosofo si dimostra più all’avanguardia di tantissimi addetti ai lavori di oggi, duemilatrecento anni dopo!

La struttura narrativa in tre atti ricalca il ciclo vitale e, secondo alcuni, perfino l‘atto sessuale. Parliamo della parte introduttiva, o preliminare, seguita dalla risoluzione del conflitto posto in essere e del susseguente climax. In altre parole, del primo atto, secondo atto e terzo atto, il cui rapporto in lunghezza dovrebbe attestarsi intorno all’1:2:1, o 25/50/25%.
Il modello in questione è riscontrabile, come detto, nella drammaturgia, nelle sceneggiature, nella narrativa e perfino nelle produzioni orali che i popoli si sono tramandati per millenni. Da esso attinge e su di esso si basa il Monomito di Joseph Campbell, o Viaggio dell’Eroe, di cui parlo in questo articolo. Tale elaborazione della struttura narrativa aristotelica è, al contempo, compatibile con l’Arco di trasformazione del personaggio di Dara Marks, di cui parlo in quest’altro articolo.
Non a caso, secondo John Yorke «la struttura drammaturgica non è un costrutto, ma un prodotto della psicologia, della biologia e della fisica umane». E, come afferma David Mamet, «La struttura drammaturgica non è un’invenzione arbitraria, non è nemmeno un’invenzione conscia. È una codificazione organica del meccanismo umano di sistemazione delle informazioni. Avvenimento, elaborazione, scioglimento del plot; tesi, antitesi, sintesi; ragazzo incontra ragazza, ragazzo perde ragazza, ragazzo conquista ragazza; atto primo, secondo, terzo».
Di questo parlo nei miei articoli su come Scrivere una Storia. Monomito, Arco di trasformazione del personaggio, Premessa narrativa, What-if, Archetipi, Storie a tre, quattro e cinque atti… trovate tutto nella succitata rubrica!
Ciò detto, la ri-scoperta della struttura narrativa aristotelica è una faccenda recente. Come saprete, la Poetica andò perduta e rimase tale, in “Occidente”, fino agli inizi del Rinascimento, quando fu tradotta in latino dalla versione araba scritta da Averroè.
Pertanto, lo studio dell’arte del racconto prese, nei secoli, altre direzioni. Nel primo secolo a.C. Orazio, nel suo Ars Poetica, decreta l’inizio di un altro modello drammaturgico di enorme successo: quello dei cinque atti, utilizzato per la prima volta da Terenzio. Durante il Rinascimento, il recupero dei classici trasformerà la struttura in cinque atti nello standard dei drammaturghi francesi ed elisabettiani.

Molte delle opere di Shakespeare rispettavano la suddivisione dei cinque atti. Non ci è dato sapere se il più grande drammaturgo (e narratore) di tutti i tempi abbia applicato tali nozioni volontariamente, ma il risultato è il medesimo e si riallaccia all’idea di uno schema naturale insito in tale modello. Quella in cinque atti è, infatti, la stessa struttura narrativa aristotelica, ma più in “dettaglio“.
Il primo a codificare la struttura narrativa in cinque atti è stato lo scrittore tedesco Gustav Freytag. Nel suo Technique of the Drama, del 1863, egli presenta la cosiddetta “piramide di Freytag“, una rappresentazione triangolare della forma invariante della narrazione.
Se il primo atto è quello introduttivo (protasi), come per la struttura narrativa aristotelica, il secondo è quello del conflitto (epitasi), ovvero la fase a cui corrisponde un incrementale aumento dell’azione. Questa ascenderà fino al climax, posto al terzo atto (catastasi).
Il quarto atto (catastrofe) presenta una diminuzione della tensione, all’opposto del secondo atto. La storia si avvia verso la sua risoluzione: il quinto atto, o denouement (scioglimento). A tal proposito, René Le Bossu, critico francese del diciassettesimo secolo, distingueva tra denouement e achievement, o realizzazione, risultante dall’ultimo scioglimento.
La struttura narrativa in cinque atti verrà progressivamente soppiantata, a partire dall’Ottocento, da quella in tre. Paradossalmente, mentre Freytag era impegnato nella stesura del suo libro, il mondo del teatro stava già cambiando.
Il mondo del cinema ereditò la struttura restaurativa in tre atti dal teatro. Tuttavia, non era ancora disponibile una “mappa” di tale struttura: fu Christopher Vogler con Il Viaggio dell’Eroe a elaborare, per primo, una vera e propria guida strutturale per sceneggiatori, a partire dagli studi di Joseph Campbell sul Monomito. George Lucas usò tali studi per realizzare Star Wars; da allora, i cineasti americani iniziarono a impiegare sempre più frequentemente schemi strutturali come il suddetto.
La Narrativa Contemporanea
Tornando alla narrativa, di particolare rilevanza e interesse è la narrazione here-and-now (qui-e-ora) e scene by scene (scena per scena) di Jack Bickham, identificata come la forma letteraria che contraddistingue il nostro periodo storico e alla quale siamo abituati. Bickham, in Scene & Structure, scrive:
«(…) Almeno il 95% dei romanzi popolari pubblicati oggi — qualunque sia la forma — dipendono dalla struttura della scena perché funzionino.
Per metterla in modo leggermente diverso: la maggior parte della narrativa di successo, oggi, si basa su una struttura che usa una serie di scene, le quali si collegano in modo chiaro per formare una narrazione lunga con sviluppo lineare (…)».

Per approfondire: Scene & Structure, di Jack Bickham.
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L’affermazione di Bickham sembrerà banale, ma è di cruciale importanza ai fini di questa trattazione. Come abbiamo potuto constatare, l’evoluzione della scrittura, da un punto di vista stilistico e strutturale, non ha nulla a che vedere con l’avvento del cinema, ma condivide con esso l’affermazione di un’idea precisa di storytelling; idea che si ricollega, paradossalmente, a un passato a dir poco remoto.
La forma della scena, di cui si compone la stragrande maggioranza della produzione letteraria odierna, non è altro che l’applicazione di tale concetto. Aristotele parlava, come detto, di mimesi, cioè imitazione o rappresentazione della realtà. È questa l’essenza della narrativa moderna e contemporanea.
Realismo. Realismo. Realismo.
L’arte del racconto, oggi come allora, serve questo preciso scopo, non diversamente dal teatro e dai poemi epici. La narrazione, oggi più che allora, si articola attraverso una serie di scene che, come nell’accezione originale del termine, fungono da palchi in cui recitano gli attori e la vicenda prende vita.
Le regole affermate, riaffermate e decantate dai famosi scrittori che ho citato; dagli insegnanti di scrittura creativa che affollano il globo terracqueo; che emanano naturalmente dalle produzioni narrative di successo e così via, non sono altro che il risultato di tale visione delle storie. È, in altre parole, una questione di princìpi: se li abbracciate, quelle regole sono inevitabili. Se non li abbracciate, perdono di senso.
Ricordate, per esempio, la trasparenza tanto celebrata da alcuni dei giganti di poc’anzi? Se narrare significa imitare o rappresentare la realtà, la miglior narrazione possibile sarà una simulazione perfetta e l’autore farà di tutto per non offuscarla. Sarà la realtà stessa (cioè la storia) a parlare, poiché l’oggetto è sempre il simbolo adeguato (ricordate le parole di Pound).
Ciò si ricollega, dunque, ad alcuni adagi tanto vituperati e travisati, come il famigerato Show don’t tell (Mostra, non raccontare), il cui senso è tautologico una volta compresa l’interpretazione della storia da cui fiorisce.
Da qui si parte per procedere verso nuovi lidi: la sommersione dell’Io (submerging the “I”), ricalcata da Chuck Palahniuk con l’abolizione dei verbi sensoriali e di pensiero nel POV, ne è un esempio. Perfino la tecnologia ci mette lo zampino: le neuroscienze offrono nuovi spunti e punti di vista, quando applicate alla narrativa contemporanea.
E voi cosa ne pensate? Siete più attaccati alla produzione letteraria “antica” di cui avete letto a scuola, o preferite la narrativa moderna?
Se avete apprezzato l’articolo, non dimenticate di leggere gli altri della rubrica Tecniche Narrative!