Dopo l’articolo sulla Bella ‘Mbriana, continuiamo la nostra avventura nel mondo del folklore italiano. Oggi tocca al lupo mannaro, altra celebre figura presente nella raccolta Bestie d’Italia – volume 1, antologia di racconti fantasy basati sugli “animali fantastici” delle leggende nostrane.
Se t’interessa l’argomento, fai un salto sulla rubrica Folklore Italiano tra Media e Realtà!
Hai Paura del Lupo Mannaro?

Chi legge narrativa speculativa non potrà non sorridere al pensiero dei lupi mannari (dal latino lupus hominarius, cioè “lupo umano” o “lupo mangiatore di uomini”). Li ritroviamo nel fantasy classico come razza malvagia o selvaggia dalla forza sovrumana; nell’horror come creature mostruose e assassine; nei romanzi gotici sottoforma di individui maledetti e condannati a massacrare coloro che amano; nel paranormal romance nelle vesti di palestrati “belli e dannati” da ammansire; nel dark fantasy alla The Witcher eccetera eccetera.
Ma fermarsi ai soli lettori sarebbe riduttivo. Chiunque abbia consumato una qualsiasi forma di intrattenimento, oggi, non può non averli incontrati. I lupi mannari si annidano nei giochi di ruolo e nei loro corrispettivi videoludici, da D&D a The Elder Scrolls, o in videogiochi completamente diversi come Castlevania, Bloody Roar o The Wolf Among Us.

Nei film cult come Un Lupo Mannaro Americano a Londra, nelle dozzinali pellicole orrorifiche che escono a ripetizione, nei B-movie, nelle saghe per ragazzine alla Twilight, in quelle alla Harry Potter e così via. Negli anime toccanti alla Wolf Children o, al contrario, nelle produzioni d’azione come Hellsing. Nei manga, dunque, come nei comics americani.
Se allargassimo la definizione alle storie di shapeshifting in generale, l’elenco sarebbe interminabile. E non del tutto improprio, visto che le figure assimilabili all’archetipo “mannaro” sono davvero tantissime. Mi riferisco, per esempio, a Man-Bat, il supercriminale nemico di Batman; alla Bestia de La Bella e la Bestia; a Naruto dell’omonima serie animata.

I lupi mannari, come i vampiri, sono letteralmente dappertutto. Sebbene fossero celebri già nell’800, però, essi furono protagonisti di un boom di popolarità solo nel ventesimo secolo. E nel ventunesimo, s’intende. Sembra, in effetti, che il fascino dei licantropi non accenni a diminuire, anzi.
È interessante notare quanto, col tempo, il modo di rappresentare queste creature sia cambiato. A eccezione dei prodotti dal sapore rétro, i media ci mostrano, oggi, licantropi ben più umani che in passato.
Come l’Uomo lupo della Universal e il protagonista del classico letterario The Werewolf of Paris, il lupo mannaro continua ad alimentare tragedie contemporanee o ad ambientazione storica. Tuttavia lo ritroviamo, alle volte, nella veste del “buono” o deprivato della sua animalità, pericolosità, frenesia (soprattutto negli urban fantasy).
Certo non siamo al livello dei vampiri, ormai riabilitati al punto da non far più paura a nessuno, ma personaggi come Scott Howard (Teen Wolf), Oz (Buffy) o Jacob Black (Twilight) si possono davvero considerare “mannari”?

Breve Storia della Licantropia
Ciò detto, quando si pensa ai lupi mannari la mente vola a delle aree precise del globo: ai paesi norreni, coi loro miti; alla vecchia Inghilterra o, addirittura, al Nord America. Perché? Beh, gran parte di ciò che assorbiamo attraverso i media è anglocentrico e tale immaginario deriva quasi esclusivamente dal folklore norreno. Da Fenrir, prototipo del mannaro, ai veri e propri licantropi dell’epica vichinga.
La tradizione del werewolf (o werwolf, in tedesco) è, in effetti, ben radicata in Nord Europa. E non mi riferisco alla sola rappresentazione demonica dei lupi mannari, esplosa durante il Medioevo, ma all’oggetto stesso di tali rimaneggiamenti: gli uomini-lupo del paganesimo germanico, i berserker o, più specificamente, gli Úlfhéðnar (guerrieri lupo).

Immagini dei tierkrieger (guerrieri animali) risalgono, addirittura, a fonti pre-indoeuropee dell’età del ferro. Secondo Mircea Eliade (da Initiation, rites, sociétés secrètes) «la trasformazione in lupo – cioè il rivestimento rituale con una pelle di lupo – costituiva un momento essenziale dell’iniziazione nel mannerbund (società segreta di uomini). Indossando la sua pelle, il richiedente introiettava il comportamento del lupo; detto in altre parole egli diventava un guerriero feroce, irresistibile e invulnerabile: il soprannome dei membri delle fratrie militari indo-europee era lupo».
Del resto, il pensiero teriomorfo si ritrova finanche nel Paleolitico. Il lupo, dal canto suo, è stato sempre considerato come un animale psicopompo, cioè in grado di guidare le anime dei morti all’altro mondo. Ecco perché nelle culture sciamaniche, tipiche delle popolazioni preistoriche di nomadi e cacciatori come quella indoeuropea, esso (insieme ad altri animali) incarnava il superamento, un motivo di estasi, una tecnica sciamanica per il passaggio “tra i mondi”.

Ce ne parla Mircea Eliade ne Lo Sciamanesimo e le Tecniche dell’Estasi. È il totemismo, la sovrapposizione mitica o rituale di uomo e animale (lupo, in questo caso). È da qui che gli antropologi fanno derivare la licantropia, che rivediamo nei Daci, discendenti del lupo; nei Celti, anch’essi figli del lupo; negli Ircani della Terra dei Lupi (Ircania) e così via.
Nell’area mediterranea, invece, le prime fonti a parlare dei lupi mannari sono le Histories di Erodoto (440 A.C.) e, in seguito, la storia di Licaone narrata da Pausania (due secoli prima di Cristo). È proprio dal personaggio di Licaone che si origina il termine “licantropia”. Successivamente, la creatura viene citata da vari autori romani come Ovidio, Virgilio e Plinio il Vecchio.

I Romani, comunque, non erano nuovi a tale concezione. Basti pensare alla lupa capitolina, che allattò Romolo e Remo (rendendoli, in senso lato, uomini-lupo); ai signifer, i sotto-ufficiali dell’esercito romano che portavano i vessilli e, sul capo, pelli di animali (tra cui lupi); al Dio Luperco e ai Lupercalia.
I lupi mannari erano chiamati, dai Romani, versipellis, poiché si riteneva che tali figuri nascondessero il manto lupino all’interno del corpo. Pelliccia che si sarebbe rivoltata durante la trasformazione, come narra Petronio in una novella del Satyricon.
Nel terzo secolo, il medico Galeno giunge perfino a descrivere la licantropia come una patologia, in netto anticipo coi tempi. Qui la descrizione che l’autore dà del mannarismo nella sua Ars Medica:
«Coloro che vengono colti dal morbo chiamato lupino o canino, escono di casa di notte nel mese di febbraio e imitano in tutto i lupi o i cani; fino al sorgere del giorno di preferenza aprono le tombe. Tuttavia si possono riconoscere da questi sintomi. Sono pallidi e malaticci d’aspetto, hanno gli occhi secchi e non lacrimano. Hanno anche gli occhi incavati e la lingua arida, e non secernono saliva per nulla. Sono anche assetati e hanno le tibie piagate in modo inguaribile a causa delle continue cadute e dei morsi dei cani; e tali sono i sintomi. È opportuno invero sapere che questo morbo è della specie della melanconia: che si potrà curare, se si inciderà la vena nel periodo dell’accesso e si farà evacuare il sangue fino alla perdita dei sensi, e si nutrirà l’infermo con cibi molto succosi. Ci si può avvalere d’altra parte di bagni d’acqua dolce: quindi il siero di latte per un periodo di tre giorni, parimenti si purgherà con la colloquinta di Rufo o di Archigene o di Giusto, presa ripetutamente ad intervalli. Dopo le purgazioni si può anche usare la teriaca estratta dalle vipere e le altre cose da applicare nella melanconia già in precedenza ricordate».
Romani a parte, la nostra antichità pullula di riferimenti licantropici. I sacerdoti di Soranus, divinità italica, erano chiamati Hirpi Soranus (Lupi di Sorano), per esempio. Il Dio etrusco Aita (o Eita), assimilabile ad Ade o a Plutone, indossava una pelle di lupo a mo’ di mantello, con tanto di cappuccio lupesco. E nella saga semi-leggendaria dei Fanes si parla dei Caiutes (o Cajutes, letteralmente “lupi”), abitanti della Marmolada.

Oppure, si pensi al ver sacrum, rito praticato da diversi popoli italici. Da Wikipedia:
Questo rituale era diffuso presso i Sabini e, sporadicamente, praticato anche dai Romani; traeva origine da una promessa al dio Mamerte (il dio Marte presso gli Osci) e consisteva nell’offrire, come sacrifici, tutti i primogeniti nati dal 1º marzo al 1º giugno (oppure, nel caso dei Sabini, quelli nati dal 1º marzo al 30 aprile) della seguente primavera.
Gli animali venivano effettivamente sacrificati, mentre i bambini non venivano realmente immolati, crescevano piuttosto come sacrati (cioè protetti dagli dei) per poi, giunti all’età adulta, dover emigrare per fondare nuove comunità (colonie) altrove. In questa maniera nasceva un nuovo popolo. La migrazione era guidata secondo una procedura totemica: si interpretavano i movimenti ed il comportamento di un animale-guida, per trarne auspici e indicazioni sulla direzione del viaggio. Ogni tribù aveva un animale sacro agli dei; per i Sanniti era il toro, per gli Irpini il lupo, per i Piceni il picchio e così via.
Parleremo, non a caso, dei lupi mannari irpini (ricordate il termine hirpus?). E poi c’erano i Lucani, le colonie greche… sì, perché l’uomo lupo compare spesso nell’immaginario ellenico, Licaone a parte. Zeus era talvolta chiamato lukios, cioè “a forma di lupo” e il suo culto in tale forma (Zeus Liceo) si praticava in Arcadia, con tanto di sacrifici umani.
Ma lukios era anche uno degli epiteti di Apollo, anche detto lukogenès (nato da lupo), poiché figlio di Latona che, prima di partorire lui e sua sorella Artemide, si trasformò in lupa. E la terra in cui nacque Apollo era chiamata Licia, la terra dei lupi.
Con l’avvento del Cristianesimo, questo bagaglio si tramuta in un fardello. Ciò che è sovrumano diventa sbagliato: il furore dei berserker, prima temuto e rispettato, diviene diabolico, tribale.
Dal Basso Medioevo esplodono testimonianze, riferimenti e citazioni in forma scritta degli episodi di licantropia. Una delle maggiori fonti in questo senso è la nota Historia de gentibus septentrionalibus di Olaus Magnus, accompagnata da una fiorente produzione poetica e novellistica che vede, tra i tanti esempi, Bisclavret della celebre poetessa Marie De France.
Fino al ‘600, l’Europa assiste a una serie di condanne e roghi nei confronti dei colpevoli di “mannarismo”. I cosiddetti mutaforma sono colpiti da una violenta respressione soprattutto in Francia e Germania, dove la superstizione del volgo è ben radicata e le crisi licantropiche sono più frequenti.
Alcuni dei protagonisti dei succitati episodi sono rimasti negli annali per l’efferatezza dei crimini commessi. Mi riferisco, per esempio, a Peter Stubbe, serial killer che operò nella Germania del XVI secolo. Da Wikipedia:
L’uomo fu accusato di aver ucciso, fra il 1564 e il 1589, due donne incinte e tredici bambini (compresi i suoi figli). Uccideva le sue vittime tagliando o mordendo loro la gola, dopodiché ne portava il cadavere in un posto isolato per poterne bere il sangue e, con l’ausilio di un coltello, estrarre le viscere. In particolare, ammazzò uno dei suoi figli spaccandogli la testa con un’ascia, per poterne estrarre il cervello.
Di notte si aggirava nelle stalle sventrando e mangiando sul posto alcuni capi di bestiame. Fu arrestato nell’ottobre 1589 a seguito di un tentato omicidio, quando un passante lo vide e lo interruppe urlando. Era conosciuto come una persona normale.
Nella sua deposizione, ottenuta mediante la tortura, raccontò di aver ricevuto dal diavolo una cintura magica (mai rintracciata), con la quale poteva trasformarsi in lupo ogni volta che la indossava. Ammise inoltre di aver praticato magia nera sin dai dodici anni, e di aver frequentato assiduamente il diavolo.

Oppure, si pensi al sarto di Châlons, anonimo francese che fu catturato nel dicembre del 1598. Gli atti compiuti da quell’uomo furono talmente aberranti che, stando al resoconto di Sabine Baring-Gould, tutti i documenti relativi furono bruciati e tutt’oggi nessuno conosce più il suo nome. Il sarto fu accusato di aver adescato dozzine di bambini nel suo laboratorio, dove li avrebbe torturati e stuprati per poi tagliar loro la gola.
Non contento, il sarto di Châlons avrebbe fatto a pezzi i corpi e li avrebbe mangiati per cena. Ma pare che quello non fosse l’unico modo che l’uomo impiegava per procacciarsi le sue vittime: di notte, il sarto indossava pelli di lupo e girovagava nei boschi vicini in cerca di bimbi sperduti.
Nel suo negozio vennero ritrovati barili ricolmi di ossa sbiancate dalla calce.
I Lupi Mannari d’Italia
Come avrete capito a questo punto, il Bel Paese è ricco di leggende sui lupi mannari. Dalle varie realtà emerge un quadro complesso della figura del licantropo, un identikit cangiante ma coerente.
«In Italia, dove una lupa è l’altrice dei gemelli fondatori dell’Urbe, la cupa fantasia del lupo mannaro ha lasciato tracce relativamente scarse e ormai sbiadite. Sconosciuta nel Friuli, è apparentemente scomparsa nel resto dell’Italia settentrionale, in Liguria ed Emilia; si trova invece diffusa e persistente nel Centro e Mezzogiorno, nonché nel Lazio (Roma e Campania): ne riecheggiano due sonetti del Belli. Gli epilettici sono chiamati in Puglia «lupomine» e pratiche superstiziose a difesa si conservano presso gli Albanesi di Calabria: così pure nelle Marche, in Abruzzo e Silicia: quasi scomparsa in Sardegna».
Così scriveva sulla rivista Lares, negli anni ’20 del ‘900, Paolo Emilio Pavolini. Lo studioso non aveva tutti i torti, ma giocava al ribasso. Per di più, la figura del lupo mannaro si associa, talvolta, allo stregone o all’uomo selvatico.
Trovate, di seguito, le leggende divise per nome e regione di riferimento, con tanto di metodi per difendersi e spunti storici, culturali… perfino medici.
Abruzzo
Lope Menare
I lopi menari, in Abruzzo, sono tanti. Ogni paese ha le sue tradizioni in proposito, molte delle quali ripropongono la classica maledizione licantropica inflitta ai pargoli nati nella notte di Natale e la trasformazione durante il plenilunio.
A Roccaraso «lu Lòpe menare, nelle notti di luna piena va in giro, urlando come il lupo; suole fermarsi a lungo sui crocicchi delle strade, capecròce, dove si suole attaccare le crocine di cera nelle processioni dell’Ascensione» (G. Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, Cerchio AQ 1996, p. 146).

Finamore racconta di alcuni metodi atti a prevenire o curare la maledizione: per tre notti di Natale consecutive, il padre del bambino maledetto deve marchiare una croce sul piedino del piccolo con un ferro rovente; altrimenti, per interrompere la trasformazione, bisogna ferire il licantropo procurandogli una perdita di sangue.
In ogni caso, per difendersi dalla creatura è sufficiente salire delle scale e rifugiarsi in un punto sopraelevato. Come altri lupi mannari italiani, infatti, lu lope manare non può alzare gli occhi al cielo, o ne rimarrebbe atterrito (e, pertanto, può salire un massimo di tre scalini, stando a numerose e ricorrenti storie che provengono da tutta Italia).
Lo studioso abruzzese Domenico Priori riferisce di un altro espediente per far rinsavire il mostro, da lui ritenuto umano ma vittima di allucinazioni. Sembra che il malcapitato vaghi, nella notte, in cerca di refrigerio; tenere un secchio o una bottiglia d’acqua fuori la porta, quindi, permette al licantropo di rinfrescarsi e di riprendersi dallo smarrimento.
Si tratta di un’usanza ancora comune in certi luoghi. L’acqua servirebbe, in realtà, a tenere lontani randagi e gatti, ma pare che derivi dalla precedente “isteria mannarica“. Almeno stando allo storico Cesare Bermani, secondo il quale «in alcune località dell’Abruzzo i famigliari mettevano fuori dalla porta d’ingresso dei secchi d’acqua».
Per scacciare i lupi mannari, comunque, è sufficiente mostrar loro una croce o avvicinare una candela accesa. Lo afferma il Priori nel suo Folklore Abruzzese, pubblicato nel 1964.
Abruzzese Folklore è, invece, una pubblicazione della pittrice Estella Canziani che narra, tra le altre cose, di comportamenti apparentemente inconsuenti tra i mannari appenninici. Ma ne parleremo in relazione al lupo minario calabrese.
Nel suo Volare al Sabba. Una ricerca sulla stregoneria popolare, il Bermani ci fornisce un gran numero di informazioni. «Nella zona di Castellalto si riteneva che le crisi del lupo mannaro possono avvenire soltanto nelle notti di mercoledì e venerdì». Come ad Aliano, in Basilicata.
E in entrambi i paesi «L’attacco licantropico finisce infatti quasi di regola con sudorazione e la ripresa della coscienza sono la garanzia che l’attacco è passato. In tal senso va interpretato anche l’accorgimento di fare bussare tre volte, sorta di segnale convenzionale che dimostrava come il malato avesse ripreso coscienza».
Se il segnale non veniva rispettato… beh, si possono immaginare le conseguenze. La vittima prediletta dell’uomo lupo era sua moglie. Da Nord a Sud, l’uxoricidio è uno degli elementi più comuni delle storie licantropiche.
Concludiamo con una filastrocca abruzzese chiamata Sitacce Sitacce (Setaccio Setaccio). Si recitava mettendo i pargoli a cavalcioni sulle ginocchia.
«Sitacce… sitacce… di štu fijje che me ne facce…
Le jètte a lu Mure de le Lame,
se l’areccoje lu lope menàre…
Le jètte a la Marine,
se l’areccoje nu malandrine…
Le jètt’ ammèzz a la piazze,
se l’areccoje la ggende che ppasse…
Arepasse lu patre so’
s’arebbracce lu fije so’!».
Basilicata
Lupumanare

Anche chiamato dupe menare o dupenare, è il licantropo della Basilicata, terra di lupi e di boschi sin dai tempi antichi (“Lucania“, per l’appunto). Il «mondo magico contadino» per eccellenza, citando Il lupo mannaro: l’uomo, il lupo, il racconto di Gianfranca Ranisio. Non è un caso che lo zooantropismo, in quei luoghi, si riscontri in una varietà di figure, tra cui quella della donna-vacca.
Di leggende licantropiche ce ne sono tante, soprattutto nella provincia di Matera: dal pmpnar di Stigliano al lupo mannaro di Rotondella, passando per il lupementale di Tricarico e Grassano, fino al licantropo di Aliano descritto da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli.
«(…) i sonnambuli diventano lupi, licantropi, dove non si distingue più l’uomo dalla belva. (…) Escono la notte, – mi raccontava Giulia, – e sono ancora uomini, ma poi diventano lupi e si radunano tutti insieme, con i veri lupi, attorno alla fontana. Bisogna star molto attenti quando ritornano a casa. Quando battono all’uscio la prima volta, la loro moglie non deve aprire. Se aprisse vedrebbe il marito ancora tutto lupo, e quello la divorerebbe, e fuggirebbe per sempre nel bosco. Quando battono per la seconda volta, ancora la donna non deve aprire: lo vedrebbe con il corpo fatto già di uomo, ma con la testa di lupo. Soltanto quando battono all’uscio per la terza volta, si aprirà: perché allora si sono del tutto trasformati, ed è scomparso il lupo e riapparso l’uomo di prima. Non bisogna mai aprire la porta prima che abbiano perso anche lo sguardo feroce del lupo. E anche la memoria di essere state bestie. Poi, quelli non si ricordano più di nulla» (Cristo si è fermato ad Eboli, pag. 104).
Abbiamo già parlato delle similitudini che interessano i lupi mannari di Aliano e Castellalto. Ricordate le tre bussate e la fine prematura della moglie del mannaro?
Ebbene Luigi Volpe ci parla, in Cristo oltre Eboli: religione e magia nella Basilicata di fine millennio, di un metodo utilizzato a Grassano e a Tricarico utile a sventare il suddetto uxoricidio: «la moglie, per non essere sbranata dal lupementale, deve lanciargli quattro etti di carne».
A proposito di Grassano, il professor Domenico Bolettieri ci spiega, nel suo Grassano Ieri, che:
«era credenza comune che ad essere trasformato in simile animale fosse colui il quale aveva sposato la propria figlioccia. Nelle notti di luna piena, con la bava alla bocca, col corpo ispido e con delle catene in mano, iniziava a girovagare, con passi felpati, incutendo, con questo mostruoso aspetto, paura nell’animo delle persone e seminando terrore per le strade del paese.
Alcuni contadini hanno sempre asserito di averlo personalmente visto e ne hanno descritto le sue peculiari caratteristiche, presentandolo con una personalità animale, cioè con gusti, modo di camminare e mimica proprio del lupo e non dell’uomo. Le mani, a detta di costoro, venivano impiegate per la locomozione e non per la prensione; le labbra non gli servivano niente affatto per aspirare liquidi, ma era la lingua, similmente agli animali, a compiere tale operazione; gli ululati, emessi durante la notte, identici a quelli del lupo, del quale simulava il comportamento, sostituivano i suoni articolati. Secondo la fantasia popolare, la trasformazione avveniva per intervento del diavolo. Era considerato portatore di morte e, pertanto, quando a notte inoltrata, i passanti, che si attardavano a rientrare a casa, avvertivano il rumore delle catene, atterriti, scappavano via per non fare questo brutto incontro. Si dice che una volta un giovane, attardandosi presso una famiglia di contadini dai quali era stato invitato a mangiare un po’ di salsiccia, al ritorno, anche perché aveva spesso “alzato il gomito”, non avvedendosene, si trovò quasi faccia a faccia con questo mostro della notte. (…)
Non appena il giovane se la diede a gambe, lo cominciò a rincorrere, ma, arrivato ad un quadrivio, per il divieto che, secondo la credenza popolare, è imposto a tutti i mostri e gli spiriti notturni di attraversarlo, non poté proseguire nella sua corsa. Stremato di forze, si buttò a terra e, verso l’alba, allo sbiadire della luna, il lupo mannaro riprese le sembianze umane e, non ricordando più nulla, ritornò a casa».
A Cassano Murge come a Rotondella come in tantissime parti d’Italia, diventa mannaro chi nasce la notte di Natale, ammesso che i genitori non abbiano adottato delle contromisure (passando tre volte, per esempio, il bimbo davanti alla bocca del forno).
Dato che il licantropo sembrerebbe trasformarsi solo la fatidica notte di ogni anno, era prassi che il malcapitato si facesse rinchiudere in un magazzino rurale fino al mattino successivo.
Luigi Musolino ripropone la figura del dupi minaro lucano nel racconto A Caccia, pubblicato nella sua antologia dell’orrore Oscure Regioni (Volume 2).

Calabria
Marcalupu
I lupi mannari, in Calabria, sono chiamati in vari modi. C’è il lupu pampanu, simile in tutto e per tutto al pampanaro irpino; il lupu minariu (o lupo minario), termine utilizzato nelle colonie albanesi di Calabria e in alcune storie popolari; il marcalupo a Taurianova, in provincia di Reggio Calabria. Ma andiamo con ordine.
Nella cultura Arbëreshë di fine ‘800 e inizio ‘900 il mito del lupo minario era profondamente radicato. La creatura appare più cosciente che altrove, in queste manifestazioni: prima di trasformarsi essa si premura di chiudere gli animali nella stalla, così da non massacrarli; poi lancia degli ululati di avvertimento per far scappare i buoi e attirare i lupi dei dintorni, suoi compagni; infine, al ritorno, si rotola nella polvere bagnata per riprendere le sue sembianze.
Il comportamento di cui sopra è identico a quello raccontato da Estella Canziani nel suo Abruzzese Folklore. E lo ritroveremo in tante altre leggende.
Quella del marcalupo era una figura altrettanto popolare nell’immaginario reggino degli anni ’40 e ’50. Nelle notti di plenilunio, i villici si assicuravano di sprangare porte e finestre fino all’alba successiva, terrorizzati da u lupumannaru che vagava nei dintorni e nelle campagne.
I dettagli sono i soliti, compresa la sete smaniosa della bestia. A Taurianova, per neutralizzarla è necessario pungere il capo della creatura con una canna verde. La leggenda locale di “Gustino” pone enfasi sulla spropositata lunghezza degli artigli che contraddistingue i marcalupi.
In Storia e folklore calabrese, Domenico Caruso scrive:
«In altre località della Piana di Gioia Tauro, il lupo mannaro, appena uscito di casa, custodiva gli abiti in un posto segreto per scorrazzare nei campi e alla periferia del paese. Prima dell’alba, poi, riprendeva i vestiti e raspava alla sua porta, ma soltanto al terzo tentativo i familiari potevano aprirgli. Anzi, in qualche abitazione si praticava un foro nell’uscio per essere certi dell’avvenuta trasformazione del proprio congiunto da lupo a uomo.
Il segno di croce incuteva paura al licantropo che evitava, perciò, di attraversare ogni quadrivio. Lo stesso motivo induceva i nostri antenati a tracciare a Natale con dei carboni accesi, per tre notti consecutive, una croce sotto la pianta dei piedi dei piccoli affinché venisse loro scongiurato da grandi l’eventuale grave disturbo».
Bermani, invece, ci ricorda che anche a Satriano (Catanzaro) si riteneva che i lupi mannari fossero seguiti dai cani. Lo storico parla di mute da dieci o venti cani che attorniavano il mannaro e lo seguivano nelle sue scorribande, abbaiando così forte da riecheggiare all’interno delle abitazioni.

Campania
Pampanaro, o Lupenaro
Ritrovate questa creatura nel mio racconto Nella Bocca del Dragone, pubblicato nell’antologia Bestie d’Italia – volume 1. Trattasi di un lupo mannaro tipicamente irpino (area campana dell’avellinese) e assai peculiare: oltre che dalla peluria, il pampanaro è ricoperto da pampini, cioè foglie di vite, e viticci su tutto il corpo. Inoltre, la creatura non possiede la coda e lascia impronte da cinque dita anziché quattro, differenziandosi dai normali lupi.
Il pampanaro ha una lunga storia, similmente alle genti a cui è legato. Abbiamo già parlato della primavera sacra attraverso cui gli Irpini, nel nome del lupo, si stanziarono nei territori che tutt’oggi occupano.
Come il Munaciello coi Napoletani, il lupo s’intreccia a più riprese alla storia degli Irpini. Mi riferisco, per esempio, alla leggenda nella quale un lupo avrebbe aiutato San Guglielmo a costruire il Santuario di Montevergine. Oppure alla tradizione secondo cui i pampanari ululassero, durante la Seconda Guerra Mondiale, per avvertire i locali degli imminenti bombardamenti anglo-americani (si è detto lo stesso delle zone di Agnano e Miano).
A Montecalvo i lupenari vagano per i vicoli del borgo nelle notti di luna piena, attorniati dai cani randagi. Per combatterli è sufficiente arrampicarsi su un albero (o altrove, purché ci siano più di tre scalini) per poi pungere la bestia con un chiodo legato a una pertica o a un bastone. Tre gocce di sangue, e il mostro tornerà umano come per magia.
A lu pumbunaru di Bagnoli Irpino si deve aprire solo se bussa tre volte, segno di rinsavimento. Il p’mm’nal di Calitri e Cairano è pervaso da un fuoco interiore e il suo sguardo toglie la parola a chiunque lo incroci, impedendo di chiamare aiuto. Lo cita anche Vinicio Capossela nella sua Il Pumminale.
Se ogni paese dell’Alta Irpinia ha le sue leggende, uno dei casi di licantropia campana più famosi è quello della romana Iolanda Pascucci, la Lupa di Posillipo. La donna fece scalpore, negli anni ’40, per le crisi notturne di cui raccontava, durante le quali il corpo le bruciava dall’interno e la costringeva a bere e a ululare.
Iolanda Pascucci si trasferì a Napoli, sperando che il mare potesse darle giovamento. Così non fu e, in una delle sue crisi, fu arrestata in un locale e portata all’Ospedale degli Incurabili, da cui riuscì a fuggire. Di lei non si seppe più nulla.
Un altro mannaro partenopeo viene citato, nel ‘500, dallo scrittore Tommaso Costo. Questi riferisce di un certo Fornaretto da Lugo, licantropo che avrebbe disseppellito un tale dal cimitero ebraico e avrebbe giocato a palla col suo cadavere.
Janaro
Trattasi di una figura diffusa nell’Alto Casertano. A differenza della Janara, strega del beneventano di cui abbiamo parlato in questo articolo, lo Janaro è un vero e proprio lupo mannaro.
Si narra, ancora, che i maschietti nati la sera di Natale siano colpiti dalla maledizione, poiché avrebbero “osato” nascere il giorno di Cristo. Per le femminucce, invece, il destino riserva un futuro da streghe.
È interessante notare come, a seconda della storia di riferimento, lo Janaro possa apparire come un mannaro o come uno stregone; evenienza, questa, riscontrabile di frequente nel folklore italiano e non solo. In certi casi il mannaro è uno stregone e viene chiamato come tale. Ciò a ulteriore conferma del dualismo sciamanesimo-licantropia.

Emilia-Romagna
Lupo Minaro
Forse l’unica testimonianza di un licantropo in Emilia Romagna. Ce ne parla Leone Cobelli, storico del XV secolo, nelle sue Cronache Forlivesi. Nel 1437 «ariuò un lupo minaro grande nel terreno di Forlì; il quale guastaua huomini et donne. In quello tempo Renzo da Tode hauea mandato il bando che non si portassero l’arme, et per questo diede licentia».
In effetti, la presenza del lupo è storicamente attestata nel forlivese e sulle colline Riminesi in particolare; lungo l’Appennino Tosco-Emiliano in generale. Territori del versante toscano come la Lunigiana e la Garfagnana recano tracce di tale presenza nel bagaglio folkloristico locale, come vedremo in seguito.
È interessante, a tal proposito, la concezione soprannaturale che nutriva il volgo nei confronti dell’animale, a Bagno di Romagna come in altre comunità appenniniche del XII secolo. Da Mito e realtà del lupo nell’area del Sasso di Simone, di Giancarlo Renzi:
«La paura della “contaminazione” da carni “lupate”, cioè uccise dal lupo, che è paura di influenze malefiche in un immaginario magico/superstizioso ma sottintende, direi progressivamente, anche una prudenza per la salute degli uomini, è codificata come divieto della consumazione e prima ancora della vendita dagli Statuti di varie comunità, come ricorda Cherubini: Montaione, Castel del Piano, Bagno di Romagna. Divieto che è presente a Pieve S. Stefano ancora negli Statuti del 1657, dove alla rubrica “De Beccai e loro obligo”, si legge: “Et non possa vendere in detto Castello alcuna carne lupata et stramazzata“. Poi aggiunge: “Ma quella debba vendere di fuora” del macello. Sono presenti anche taumaturghi locali, invocati come tutela dal lupo: il beato Raniero a Sansepolcro, il beato Torello da Poppi in Casentino, per non ricordare l’influsso del francescanesimo in un contesto ambientale che è stato definito la “Terrasanta serafica”».
Friuli-Venezia Giulia
Da Lovi e Lovari nella Bassa Friulana, di Roberto Tirelli: «Il lupo e l’uomo nella pianura friulana hanno vicende si può dire parallele: vi giungono nel momento massimo della loro evoluzione di specie, si dividono il territorio, da una parte la civiltà dall’altra il “salvadi”, si combattono praticamente ad armi pari. L’equilibrio è stato sconvolto soltanto dall’entrata in campo delle armi da fuoco».
E ancora:
«Nell’antichità di queste terre il dio Beleno era colui che, per i Celti, ammazzava le pecore e quindi era divenuto oggetto di culto, tanto che appariva vestito proprio di lupo. L’animale predatore diventa, invece, nel medio evo, immagine del male e dei peggiori vizi (…). Le streghe, ad esempio, si fanno accompagnare al sabba non cavalcando la scopa, ma un lupo. E lupi sono i demoni che si accoppiano con esse.
(…)
Il rimedio a tanta audacia della “mala bestia” pare essere la preghiera. (…). Il sacerdote era chiamato a benedire pastori e armenti contro il lupo (…). Dove la preghiera non bastava entrava in campo la magia. I benandanti (…) “lustravano” i campi anche contro i lupi ed ingaggiavano con essi (…) battaglie notturne. Anche la magia nera veniva impiegata (…).
Una particolare pratica era quella dei preenti, sortilegi basati sul segno della croce (…). Generalmente si credeva che il segno della croce, o una croce bastassero per fermare il lupo e farlo fuggire.
Il modo più pratico, però, per arginare il fenomeno della invadenza dei lupi era quello di cacciarli. Di ciò si occupavano dei lovari, cacciatori di professione (…). Il lupo catturato di solito veniva pagato dalle comunità in denaro sonante, ma vi era anche un fiorente mercato del magico legato alle sue spoglie. (…) Il lovaro era, dunque, sempre un individuo equivoco accusato di essere, tra l’altro, un allevatore o un conduttore di lupi, ma utilissimo nel momento in cui s’aveva paura.
(…)
Da animale reale è divenuto animale fantastico, soggetto preferito di favole, spesso importate, poiché le friulane non hanno trovato un trascrittore, di filastrocche, di racconti popolari ed anche di qualche pagina di letteratura. (…)
In realtà il mito del “salvadi” ha lunga consistenza in Friuli. “Selvaticus” è colui che vive nella selva (…). Vi sono poi i “salvans”, vale a dire i “silvani” nella cui natura non c’è confine fra reale e fantasioso. Gli esseri della foresta suscitano sempre diffidenza: la fantasia popolare li ha conflusi con i lupi, poiché vivono “more luporum” senza patti sociali apparenti, tantomeno morali. (…)
Tutte le bestialità equivalgono, dunque, al lupo, al vivere come il lupo, a comportarsi come lupi.
Del fatto che, al di là delle favole, non si creda alla chiamata in causa del lupo in talune vicende ne è riprova che nell’area friulana non sia sorta alcuna leggenda circa il lupo mannaro. (…)
In Friuli ci sono soltanto i lupi. Gli uomini possono trasformarsi in loro “conductores”, cioè guide verso l’ovile o la casa del loro nemico affinché gli animali compiano vendette per conto loro. Talora viene narrato di giovanetti rapiti dai lupi che ne condividono la vita nella foresta (…).
Storicamente è stata una presenza importante. Nessun altro animale ha avuto tanta attenzione e spesso si è comportato con tanta vicinanza all’uomo si da assomigliargli pur nel contrasto. La “besteate” ha coinvolto nel suo mito religione e superstizione, società civile e economia agro pastorale, le persone e le comunità».

Torneremo sulla “vicinanza” dell’uomo e del lupo alla fine dell’articolo.
Strano ma vero: le storie sui lupi mannari, nel magico Friuli, scarseggiano, nonostante il lupo stesso assuma sembianze e caratteristiche soprannaturali. Per fortuna ci viene in aiuto Luca Barbieri col suo Storia dei Licantropi, nel quale si afferma che i licantropi friulani sono… benevoli. E vengono in aiuto dei contadini per combattere le streghe.
Proprio come i Benandanti, che in certi casi sono a loro volta lupi mannari. Non deve stupire: abbiamo già visto come streghe, stregoni e uomini-lupo siano strettamente collegati nelle tradizioni popolari.
Lazio
Lupo Menaro
Il Lazio offre storie di lupi mannari di ogni epoca e in ogni sua parte. Troviamo il popenaro di Coreno Ausonio, un licantropo che si rotola nel fango e ulula alla luna; il lupomenarjo di Bolsena, da cui deriva il detto «jje se fa l lupomenarjo» (fa il pazzo, il riottoso); il lùpupunàru di Villa Santo Stefano; i vari lupi mannari della Ciociaria.
E ancora: i cacciatori di lupi della maremma viterbese, incaricati di bonificare il Monte Nerone nell’800, che indossavano, come moderni Ulfhednar, le pelli degli animali uccisi; i versipelle e le figure della romanità antica…
Ma soprattutto, i terribili lupi menari dei Castelli Romani, anche chiamati lopi penari, pepenari o pipinari. I tratti sono quelli che conosciamo già: un bollore interiore, gli ululati al plenilunio, le tre bussate, le unghie smisuratamente lunghe. Anche i metodi di difesa sono i soliti, tra l’acqua delle fontane e le zaccagnate.
Vi è però una differenza rispetto ai lupi mannari visti finora. Lo scrittore e linguista Angelo de Gubernatis afferma, nel Volume 1 della Rivista delle tradizioni popolari italiane, che i lupi menari non vogliono essere curati dalla loro condizione e, anzi, tenterebbero di uccidere chiunque provi a salvarli.
Come nel caso della Lupa di Posillipo, poi, anche a Roma troviamo un lupo mannaro nei fatti di cronaca del ‘900. Parliamo dell’immediato dopoguerra, in questo frangente, e di Pasquale Rossi di Villa Borghese. Il giovane viene fermato, negli anni ’50, in seguito a una delle sue crisi e racconta alla stampa di essere pervaso, di tanto in tanto, da una voglia matta di rotolarsi sull’erba e di mordere tutto ciò che gli capita a tiro.

Liguria
Ricordate le parole di Paolo Emilio Pavolini? Lo studioso non sbagliava: le storie di lupi mannari sono assai rare in Liguria. Qualcosa c’è, ma si tratta di leggende metropolitane più che altro.
Mi riferisco, per esempio, ai licantropi che si aggirerebbero tra San Siro e Via della Maddalena, a Genova. O a quelli nascosti sulle colline di Lavagna e Chiavari. Si può anche leggere, sul Traduttore Italiano Genovese, il lemma òmmo-lô, che starebbe per uomo-lupo. Termine, ahimè, privo di altri riscontri.
Non diversamente dal Friuli, poi, la Liguria ha una storia lupesca assai travagliata. In ogni caso, troviamo un fatto di cronaca simile a quelli già narrati, compresa la datazione (pare che i lupi mannari fossero un argomento appetibile, nel primo dopoguerra).
Sto parlando di Rosalba Guizza (o Ghizza?), bambina di quattro anni che viveva in una capanna di fango assieme alla madre a Madonna di Monte, nel Savonese. Quando gli agenti ne scoprirono l’ubicazione, la piccola fu assalita da una crisi violenta con tanto di ululati e forza sovrumana. Ma si tratta, anche stavolta, di un episodio privo di fonti autorevoli.
Lombardia
Malabestia, o Bestia di Cusago
Non si tratta propriamente di un lupo mannaro, ma qualcuno l’ha ritenuto tale ed è indubbio che la storia presenti sinistre assonanze. Sto parlando della Fiera Bestia, la creatura che imperversò nel Milanese di fine ‘800.
Tutto iniziò nelle campagne di Cusago col ritrovamento di un bimbo di dieci anni macellato da mani non umane. Quattro giorni dopo toccò a un altro pargolo, un po’ più a Nord, e gli avvistamenti dell’essere iniziarono a moltiplicarsi: sembrava trattarsi di una belva enorme e dagli occhi rossi; di un lupo di dimensioni colossali; di una iena fuggita da un circo.
Tra un’aggressione e l’altra la psicosi s’intensificò e si diffusero voci su una creatura che ululava alla luna, che succhiava il sangue umano, che riusciva a camminare sulle zampe posteriori, che faceva tremare le mani ai cacciatori. Il tutto si concluse, però, con la cattura di una grossa e anziana lupa, che decretò la fine degli attacchi.
Luca Tarenzi riprende la storia della Malabestia nel romanzo fantasy Le Due Lune, insieme a tanti altri elementi dal sapore pagano.

Marche
Lupe Mannà
Nelle Marche, i lupi mannari sono protagonisti di varie leggende. A Offida, nell’Ascolano, bisogna stare attenti quando si battezzano i pargoli: alla domanda del prete («Vis baptizzari?») si deve rispondere «Vòlo». In caso di impappinamento, il piccolo sarà condannato a trasformarsi, al compimento del venticinquesimo anno d’età, in strega se femmina e in licantropo se maschio.
Che sia per errore del parroco o del padrino, il “battesimo andato male” è motivo di maledizioni in varie località d’Italia.
E ricordate le tre bussate? Nel Marchigiano come altrove, il mannaro usava infilare la mano (o il muso) nella gattaiola della porta di casa per avvertire la moglie del via libera; oppure, in certe storie, per supplicare di essere ferito; o ancora, la gattaiola stessa permetteva di pungere di sorpresa l’ignaro mannaro. Si trattava di un metodo sicuro, poiché il licantropo non poteva mascherare la sua ipertricosi.
A Maceratese, invece, esiste un’espressione singolare ed emblematica: «fare le rote». Si usa in riferimento a certi pazzoidi che rotolano, mordono e ululano nel cuore della notte come animali inferociti. La soluzione è, manco a dirlo, punzecchiarli con un forcone provocando una perdita di sangue.
Sempre a Macerata e provincia (come a Montecosaro) esiste, inoltre, un simpatico proverbio: «Meglio vedé lu lupu mannà che un omu scamisciatu de jennà». Meglio vedere il lupo mannaro che un uomo scamiciato a gennaio. Lo stesso proverbio che ritroviamo a Pereto, in provincia de L’Aquila: «Sta meglio u jupu mannaru, che j’omo scamiciatu de iennaru».
A Civinatova Alta (MC) i lupi mannà, assetati come al solito, infestavano il lavatoio posto fuori dalle mura. «Il lupo mannaro viene descritto come un umano scapigliato, con occhi grandi e stralunati», scrive il civitanovese Enrico Tassetti nel suo Dei fantasmi ed altri strani incontri. «La creatura si rotolava a terra e, chi si trovava sulla sua traiettoria, poteva rimanere ferito. Sicuramente, erano solo dei poveretti con epilessia o malattie nervose che le relative famiglie facevano uscire solo di notte, per vergogna».
Molise
Lupe Menare
Il Molise non si distingue dalle altre regioni del Centro e Sud Italia, per quanto concerne l’origine della licantropia. La tradizione popolare molisana vuole, infatti, che solo quelli nati la notte di Natale si trasformino in lupi mannari. Ancora, al maschio tocca la sorte da lupe menare. Alla femmina, quella da streia.
Ma a Ripabottoni, nel Campobassano, avviene un’eccezione. Solo il primo nato viene maledetto; agli altri figli della fatidica notte tocca, invece, un destino di sterilità.
Il mannaro molisano sguazza nelle pozze fangose per trovare refrigerio. Si avventa sul primo che gli capita a tiro e morde, lacera. Si tramuta lentamente, dalla cintola in su, con o senza la luce della luna. Il suo muso appare, alle volte, come quello di un orrendo maiale dalle orecchie pelose.
Il periodo in cui la licantropia locale si manifesta con maggiore frequenza è quello di marzo. Il mostro teme la luce e, per sfuggirgli, è sufficiente abbracciare un lampione acceso. Ferirlo è un modo per curarlo e sembra che, in questo caso, la bestia ne sia lieta e ricompensi il suo salvatore.
La moglie, per salvarsi, ha un nuovo strumento da aggiungere al suo arsenale, oltre alla consueta triplice bussata. È la mappa, un panno rosso di lana che, se gettato sulla creatura durante la sua furia, induce quest’ultima a sfogarsi sul tessuto riducendolo a brandelli.
Come in tante altre tradizioni, inoltre, «per far calmare questi tipi bisogna che prendano una chiave in mano», afferma Michele Colabella in Vita tradizionale di Bonefro, paese in provincia di Campobasso.
Gl’Cierv
A proposito di zoomorfismo italiano, non si può non citare l’antico rito molisano dello Gl’Cierv. A Castelnuovo al Volturno (Isernia), l’ultima domenica di Carnevale, la piazza del paese ospita uno spettacolo singolare. In esso appare, da maschera protagonista, l’Uomo Cervo, attorniato dalle Janare danzanti.

Si tratta di una creatura selvaggia, furente, che viene accusata di tutti i mali della comunità come un capro espiatorio e, successivamente, abbatutta dal Cacciatore. Questi, però, ne piange il destino e la riporta in vita. E la bestia, ora mansueta, riprende il suo cammino.
A tratti lupo mannaro e a tratti uomo selvatico, Gl’Cierv è una figura antichissima. In realtà, sono tante le tradizioni d’Italia in cui, sin dal IV secolo, ci si mascherava da bestie durante alcune ricorrenze calendariali (come alle calende di gennaio, per esempio). Da capre e cervi soprattutto, da cui il termine cervulo sovente utilizzato dalle fonti che citano tali pratiche.
Piemonte
Luv Ravas
Il luv ravas è il lupo mannaro del Cuneese (Val di Pesio e Monregalese). Secondo il Dizionario Piemontese, Italiano, Latino e Francese di Casimiro Zalli, esso «assale i corvi e gli animali più piccoli e li persegue sugli alberi per succhiarne il sangue e mangiarne il cervello».
Tuttavia il Vocabolario Piemontese-Italiano e Italiano-Piemontese del sacerdote Michele Ponza traduce luv ravas come “lupo cerviere” o cerviero, altro nome della lince (dal latino lupus cervarius, cioè “lupo che dà la caccia ai cervi“). Non a caso, parliamo di un animale anticamente diffuso (e ancora presente) sulle Alpi Liguri, quelle Marittime e in alcuni boschi appenninici.
Come se non bastasse, la lince è capace di saltare sui rami degli alberi; emette un verso che somiglia a un orrendo lamento umanoide; nella sua incarnazione europea, la Lynx lynx (presente in Italia e la più grande in assoluto), può raggiungere o superare le dimensioni di un lupo.
Sissignori: potremmo essere di fronte alla lince mannara.

Loup Ravat, o Loup Garou
Le Valli Valdesi racchiudono la Val Pellice, la Val Chisone e la Valle Germanasca, poste al confine tra il Piemonte e la Francia. Sono territori di frontiera e ciò si riflette nei lupi mannari locali, i loup ravat, o loup garou. Per intenderci, “loup garou” è il corrispondente francese del nostro lupo mannaro; la parola è composta da “loup“, lupo, e “garou“, mannaro, derivante dal francese antico garolf. Da esso trae origine anche il cosiddetto rugaru, o rougarou, licantropo della regione Laurenziana.
Secondo le storie locali, il loup ravat misura l’altezza delle sue potenziali vittime e le assale solo se sono più basse di lui. Inoltre, similmente alla controparte francese, il licantropo valdese sembra potersi trasformare di sua sponte. Non abbiamo a che fare con una maledizione, ma con un potere sovrannaturale che dona alla figura un sapore stregonesco.
Una leggenda popolare narra di due ragazzi che, durante il lavoro quotidiano nei campi, trovano una pelle di lupo. Il più giovane decide di indossarla e, colto da una frenesia antropofaga, inizia a urlare di strappargliela di dosso, o divorerà l’amico. Quello, ovviamente, acconsente, placando la crisi animalesca.
Puglia
Lupomino, o Lupomine
Ricordate la storia di Licaone, il primo licantropo di cui gli annali recano traccia? Secondo il mito greco, Zeus maledisse lui e i suoi discendenti, compreso Peucezio. Colui che fondò la Puglia (Peucezia) ai tempi della Magna Grecia. Da cui l’antica popolazione italica dei Peucezi, o Peuceti.
Non deve stupire, pertanto, che la Puglia sia ricca di storie sui lupi mannari. A Bitonto si può trovare, addirittura, la “Torre del Lupomino“, cioè del lupo mannaro (ma potrebbe riferirsi ai Lupis, una famiglia nobile del posto). Un edificio abbandonato dal quale, secondo i locali, un licantropo uscirebbe ogni notte per seminare terrore nelle campagne.

Nel Barese, le storie sui lupomani si sprecano. Ritroviamo la maledizione del 25 dicembre; il potere sedativo dell’acqua; le croci roventi sui piedi dei bambini; l’utilità degli aghi per ferire la bestia e delle scale per salvarsi… in cima alle quali, a Lucera, si poteva scacciare il lupunare gridando «Síme cumbare de Sangiuuanne!» (Siamo compari di San Giovanni!).
A proposito di aghi, o di coltelli: la tradizione pugliese narra perfino dei tagliatori di professione, chiamati “tagliatori di trombe marine“, esperti nell’uso di lame speciali atte a compiere ogni sorta di prodigi (come dissolvere un ciclone o curare un licantropo).
A Lecce (il cui antico nome è Lupiae), un modo per esorcizzare il neonato era quello di salire sul tetto di casa, a mezzanotte, e urlare «È natu nu’ stregone alla casa mia!». Si poteva altrimenti inserire il pargolo in un forno acceso per farlo irradiare dalla luce e dal calore, scacciando il germe malefico.
A Brindisi, invece, secondo Claudio Foti «Chi abitava nelle campagne vicino alla città racconta degli ululati che si sollevavano nelle notti di luna piena ma che non c’era mai stata paura, perché, a differenza degli episodi letterari, i licantropi riconoscevano gli abitanti e cercavano di non nuocere loro. Alcune tradizioni orali proprie del brindisino li considerano dei veri e propri protettori».
Per scappare dal bbummenére di Manfredonia, invece, si poteva lasciare a terra un indumento o un oggetto. Il mostro si fermava a stracciare il tessuto o a contare i buchetti nello strumento, o chissà cos’altro. Inoltre, se chiamato per nome, il bbummenére si ripigliava e si ritirava mestamente.
In varie parti del Salento, il licantropo è chiamato lupu lunaru. A Salve, invece, esso prende il nome di lupu sularu, come riportato dal linguista Gerard Rohlfs nel suo Vocabolario dei dialetti salentini. I lupi mannari di Salve, dunque, si trasformerebbero di giorno, allo Zenit piuttosto che al Nadir. Secondo Gino Meuli in I Dialetti del Capo di Leuca, invece, quella del Rolhfs sarebbe una svista e la traduzione di “sularu” sarebbe “solitario” (da “sulu“).
Sempre in Salento si usava rivolgersi, per scongiurare gli attacchi mannarici, ai mànure ti Santu Itu (mani di San Vito), emissari dell’omonimo Santo che, secondo la tradizione, avrebbe guarito il figlio dell’Imperatore Diocleziano dalla licantropia.
In estate la situazione si faceva più delicata rispetto alle altre stagioni. In cerca di refrigerio, i Salentini dormivano sull’uscio di casa o, addirittura, sulla strada. E le donne, se soggette a mestruazioni, giacevano con un mazzetto di basilico tra le gambe, così da confondere il fiuto dei cani randagi.
Si diceva, a tal proposito, che i lupi mannari avessero una predilezione per le ragazze col ciclo. Come per i fornai, costretti a girovagare di notte in campagna e in paese a tutte le stagioni. Questi avvertivano i clienti che avevano prenotato il pane e, quando non si presentavano, il paese si allarmava e pensava immediatamente all’attacco di un omu ‘mbistialùtu.
Al mattino successivo i forni si riempivano di curiosi e i fornai raccontavano le vicissitudini soprannaturali della notte precedente. Per tale motivo i dettagli sui lupi mannari sono numerosi. Sappiamo, per esempio, che al pelo nero corrispondeva una maledizione paterna; al pelo grigio, materna; al pelo rosso, invece, si faceva risalire una potente fattura.
Il licantropo nero dissotterrava i morti, quello grigio sbranava le pecore incinte e quello rosso puntava le ragazze al primo mestruo. Tutti e tre convergevano, infine, all’abbeveratoio pubblico, dove li aspettava lu manu ti Santu Itu, nascosto e camuffato dall’odore di mentuccia.
L’uomo procedeva all’esorcismo, aiutato da un mésciu bbinitìttu (maestro benedetto). Il processo di guarigione continuava in campagna, davanti a due alberi di carrubo adulti. Potete leggere il rito completo e la relativa spiegazione nell’interessantissimo Tre santi e una campagna: culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e con la collaborazione di Nino Pensabene, edito da Laterza, 1994.
Sardegna
Prubunaru
I lupi, in Sardegna, non ci sono. Ecco perché, al posto del licantropo, nell’isola si trova la figura di su boe erchitu (o del suo simile boe muliache), ovvero il bue mannaro. Trattasi di un essere umano che, nelle notti di luna piena, si trasforma in un bue bianco con due corna d’acciaio, scortato da un gruppo di diavoli.

Eppure un licantropo, in Sardegna, esiste. Che sia d’importazione?
Mi riferisco a lu prubunaru, creatura del folklore di Alghero: un lupo mannaro che vaga nelle notti di plenilunio e che lancia sofferenti ululati. Il mostro sarebbe, in effetti, un poveraccio afflitto da una maledizione la quale gli infliggerebbe, in quelle notti, terribili dolori, tanto da costringerlo a piegarsi in due nel suo errare.
Sicilia
Lupunaru, o Lupuminaru
Come afferma il grande antropologo siciliano Giuseppe Pitré «la credenza del lupo mannaro è comunissima in Sicilia, e non v’è città o paesello che non parli di quest’essere soprannaturale e quasi misterioso».
Tradizione vuole che la maledizione colpisca i nati nelle notti di plenilunio (o in notti dal simile “potere“, come in quella di Natale o di San Giovanni). A Messina, le probabilità aumentano nei venerdì d’estate.

Ma si può diventare lupunari anche solo fissando la luna piena, o addormentandosi con gli occhi rivolti ad essa. Per tale motivo le mogli dei pescatori usavano regalare ai mariti dei brani di stoffa nera con cui schermarsi il viso durante le nottate in barca.
La trasformazione in licantropo inizia nella pubertà, ma il mostro sarebbe curabile attraverso due metodi: pungendogli la fronte con un ago da sarta o, nel Messinese, toccandolo con una chiave benedetta. Il lupinariu cerca zone umide, perciò i Messinesi solevano tenersi alla larga dalle fiumare che attraversavano la città durante le notti di plenilunio.

In Sicilia la licantropia è anche detta “mal di luna” e i licantropi sono chiamati, in alcune zone (come a Porticello), malaluna. Pirandello si ricollega a tale credenza nella sua novella Male di Luna, in cui un personaggio racconta di come, da bambino, venne lasciato sotto la luce lunare e diventò un lupo mannaro.
Anche Vincenzo Consolo, Premio Strega nel 1992 col suo Nottetempo, casa per casa, ha scritto in quest’ultimo del luponario di Cefalù, affetto dal cosiddetto male catubbo. Riporta il Pitrè, in Medicina popolare siciliana (che trovate a questo indirizzo):
Mal di luna. (Licantropia). Mali catubbu; Mali di luna; Mau d’a dduna (Nic).
Questa malattia, misteriosa e paurosa agli occhi del volgo, non è altro, in fondo, se non una forma epilettica, per la quale in luna quintadecima si cade in convulsione, si esce furiosi di casa, si urla per le strade, e si piomba per terra rotolandosi nel fango o nella polvere. Chi ne soffre, ne ha vergogna (Castelb.).
Siccome certi uomini diventano Lupunàri perchè han dormito con la faccia verso la luna piena, per non restare allunati si consiglia come profilassi di coprirsi la faccia stessa nel mettersi a dormire in campagna a in altro luogo aperto.
Secondo gli antichi medici siciliani il lunatico del Nuovo Testamento non sarebbe stato se non un lupo mannaro ed un medico molto reputato del sec. scorso, G. Di Gregorio, lasciò scritto: «Qui non è da ommettersi la opinione ben fondata d’alcuni, esser la malattia di quel lunatico del vangelo una sorta di pazzia, lupina o canina, detta dagli Arabi Catrab o Cutubut, onde i nostri presero occasione di chiamarla corrottamente mali catubbu e altresì dalle strida Lupuminaru. Il carattere de’ veri sintomi d’un tal morbo, egli è che van camminando a guisa del lupo o del cane. Ne’ tempi di notte fansi a girare le sepolture, le disserrano, tolgon dei pezzi di cadaveri, ed al collo gli appendono, fuggono il commercio degli uomini, mordono come i cani. I segni poi che li distinguono sono la faccia pallida, gli occhi ingrottati, la vista debole, la lingua asciutta, ed una sete intensissima.
Dicesi un tal morbo nella greca voce «lycanthropia».
Lupupinaru è colui che quando ricorre il novilunio, di notte, vien preso da un dolore potentissimo, che gli fa crescere le unghie, e lo costringe a lasciar la casa, e ad andare a rotolarsi nel fango, urlando come i lupi. È una malattia ereditaria (Naso).
Per questo male l’uomo esce fuor di mente, e diventa un bruto capace di sbranare i suoi simili, e di commettere qualunque eccidio.
Quando s’incontra per avventura un uomo che a cagione di detto male sia imbestialito, basta, per sottrarsi al suo furore, salire una lunga scala, perchè egli ‘u lupitiminariu, non può arrampicarsi più di tre gradini. Se non si può scansare, è mestiere dargli un colpo alla testa, per fargli uscire del sangue, che allora prontamente rinviene e ridiventa innocuo (Nic).
I lunatici nel momento dell’accesso vanno punti in modo che dalle loro carni sprizzi sangue (Pal.).
La persona che s’incontri in istrada con un malato di questo genere, ad evitare il pericolo di essere assannato deve saltare sul marciapiedi, dove il malato non può salire.
II malato odia il lume; e se lo guarda guarisce (Girg.).
Allunatu si chiama quello individuo che soffre capogiri e convulsioni, quando succedono i movimenti lunari.
Toscana
Lupo Manaro, o Lupo Marano
La Valdichiana, oltre che terra di manicaretti e meraviglie, è terra di… indovinate? Lupi mannari. O meglio, lupi manari! Molte storie fanno riferimento alla sensazione di bruciore che alcuni proverebbero durante la trasformazione, ricollegata poi a patologie come il Fuoco di Sant’Antonio o all’idrofobia.

È il cosiddetto “foco” che arde dentro e fuori l’uomo-belva e che, ancora, causa la ricerca di acqua fresca in cui tuffarsi. Il licantropo, non a caso, ulula come se stesse bruciando vivo e la sua forza sovrumana puzza di disperazione, oltre che di animalità.
Da Chiusi a Chianciano, insomma, i lupi manari imperversano nelle campagne e sono forieri di vecchie e numerose storie, moltissime delle quali condividono la smania o il furore che contraddistingue il licantropo locale.
Spesso, si racconta di accessi psicotici scevri di qualsivoglia metamorfosi, ma talmente estremi da apparire, alla gente, come sovrannaturali. Uomini che fanno scempio dei cadaveri come demoni più che animali; uomini che spaccano l’asfalto a cazzotti senza provare dolore; uomini che si rotolano nei campi per ore e strillano così forte da svegliare una città intera; uomini in grado di sollevare pesi inimmaginabili quando presi dal “grande male“.
Qui, più che altrove, il mannarismo assume un carattere laico e fa capire quanto gli uomini possano essere terrificanti quando perdono la loro umanità. Dobbiamo spostarci, però, in Lunigiana per un esemplare famoso ed emblematico di licantropo toscano.
Lupomanaio
Ritrovate questa figura nel racconto Il Lupomanaio di Marco Bertoli, pubblicato nell’antologia Bestie d’Italia – volume 1. Inoltre, il poeta pontremolese Luigi Poletti ha scritto una famosa poesia sul tema: Al Lüpomanaio.
La leggenda del lupomanaio si è diffusa nel borgo del Piagnaro solo nell’Ottocento. Essa non sarebbe, infatti, originaria della Val di Magra, come sottolineato da Pietro S. Pasquali nel volume 10 della rivista Lares, ma di provenienza eminentemente toscana.
L’uomo bestia vaga attorno al Castello del Piagnaro, nelle notti di plenilunio. Abbaia e piange, comanda una muta di cani randagi e ha un aspetto umano (i Pontremolesi ritengono, infatti, che sia affetto da epilessia). Qualora lo s’incontri, bisogna restare in silenzio e far finta di nulla, poiché il mannaro non ama essere riconosciuto.
Per guarire l’uomo dalla malattia bisogna forargli la mano con una lesina da calzolaio.
Trentino-Alto Adige
Ce-de-lù
Hugo de Rossi riporta, nella sua raccolta Fiabe e Leggende della Val di Fassa, una favola chiamata Le Vivane e il čan, in cui un pastore viene maledetto da una fata (una vivana, per l’appunto). Il malcapitato viene bollato dalla fata come «louva raskias» (lupo malvagio) e condannato a una fame lupina che riuscirà a curare solo diventando un om dal bosc, ovvero peloso come un uomo selvatico.
Avevamo già accennato all’associazione uomo selvatico – uomo lupo e qui ne troviamo ulteriore conferma. Tali figure sarebbero legate, tra l’altro, all’antichissima Dea veneta Reitia, riverita dalla popolazione italica dei Reti. La vecchia saggia che consiglia il succitato metodo di guarigione al tizio maledetto dalla vivana, infatti, viene chiamata Reza.

Tornando alla pista dell’homo selvaticus, il Carnevale alpino del Trentino presenta varie maschere relative alla zooantropia. Nella sfilata dell’Etgemann compare il Wilder Mann, l’uomo selvaggio, con una maschera da coniglio e che, come Gl’Cierv, viene ucciso da un cacciatore.
Poi ci sono gli Schnappviecher o Wudelen, coccodrilli senza orecchie ma con una testa pelosa e cornuta; un uomo orso verde e bianco e chi più ne ha più ne metta.
Ma è nel Regno dei Fanes, un racconto mitologico-leggendario dei Ladini delle Dolomiti, che troviamo una delle creature più interessanti. Mi riferisco a Ce-de-lù (Capo di Lupo), anche chiamato L’Uomo Lupo e L’Inesorabile, un fantasma (faturec) che si manifesta prima delle nevicate. È un uomo col muso da lupo e un cappello con una piuma sopra.
Umbria
In Umbria, le storie sui lupi mannari si sentono spesso. Alcuni racconti parlano di avvistamenti sul lago Trasimeno; nella Valnerina, sui Monti Sibillini; nello Spoletino e così via.
C’è perfino chi ha immaginato il lupo di Gubbio, quello ammansito da San Francesco, come un vero e proprio licantropo. Del resto, l’anonimo dei Fioretti di San Francesco afferma che la bestia fosse enorme, pericolosissima… non dissimile dalla Malabestia di Cusago. E vari studiosi hanno ipotizzato che si trattasse di un feroce brigante, cioè di un uomo e non di un lupo.
Anche a Spoleto la tradizione del mannaro si collega a quella dell’uomo selvatico. Scrive la Dott.ssa Marianna Bucchi, in Patrimonio Immateriale:
«Sempre legata alla terra è una tradizione non molto antica, di cui ci parla L. Buseghin, che festeggiava l’ultimo giorno di Carnevale nel seguente modo: ” L’ultimo de Carnoale un òmo se mascherava, se mettea addosso ‘na pelliccetta de muschio, salìa sopra un carrettu tuttu infiocchettatu e coperto de muschio e poi girava per le case, chi je dava vino, chi frappe, castagnole”. L’uomo del bosco o uomo selvatico, come personificazione del Carnevale o come maschera, è presente in molte zone d’Italia e d’Europa (…).
Nella narrativa tradizionale dell’area spoletina, questo personaggio si inserisce in un complesso di miti (…). E sempre nell’area spoletina i termini uomo selvatico e lupo mannaro tendono ad equivalersi».

Valle d’Aosta
Der Ronker
J.J. Christillin, sacerdote di Issime nella Valle d’Aosta, riporta il seguente racconto nel suo Leggende e racconti della Valle del Lys (Légendes et récits-Recueillis sur les bords du Lys), a proposito delle leggende della Ronca (Ronka), un alpeggio d’Alpi nel Vallone di San Grato.
Si riferisce ad un uomo detto «der Ronker», che abitava una casa ai piedi della Ranzola, al limitare del bosco. D’estate, andava con sua figlia ad occupare la baita di Skerpie nel vallone di Valdobbia, conducendo la vita del montanaro in mezzo ad una piccola mandria di mucche. Il soggiorno in montagna sarebbe stato piacevole, se non fosse stato turbato dalla vicinanza di un lupo di taglia straordinariamente grande, che veniva frequentemente a gironzolare intorno alla baita e di notte faceva risuonare l’eco delle sue urla lugubri. Der Ronker era accompagnato da un grosso cane da guardia, che dava battaglia al lupo, riportandone ferite sanguinanti. Più volte l’uomo si era messo in agguato per abbattere la bestia con un colpo di moschetto, ma malgrado la sua abilità, il lupo sembrava invulnerabile.
Un giorno, la figlia del montanaro si trovava sola alla baita, occupata a preparare il formaggio, quando ad un tratto il lupo arrivò, si gettò su di lei e le divorò i seni. Verso sera, quando il padre tornò col cane, la trovò stesa a terra in una pozza di sangue, orribilmente mutilata. La poveretta morì qualche giorno dopo, tra atroci sofferenze, ma il lupo non ricomparve più alla baita. Passarono due anni. Una sera, der Ronker, che durante la fredda stagione girava la Germania come mercante ambulante, entrò in una locanda per trascorrervi la notte. Il suo cane, che lo accompagnava sempre, si mise improvvisamente a ringhiare furiosamente e fu con molta fatica che il mercante poté dominarlo per impedirgli di saltare addosso al locandiere, il quale disse all’animale: «Io e te ci siamo già battuti molte volte, e poi, dopo tutto, colui che è stato il più maltrattato sei proprio tu! Tre volte bestia!»
Allora l’albergatore raccontò al Ronker sbalordito che, per vendetta e con
l’aiuto del diavolo, due streghe lo avevano una volta trasformato in lupo, e
che sotto quelle forme, poteva nutrirsi solo di carne viva. Per molti anni, egli come lupo aveva errato a lungo attraverso le montagne torturato dalla fame, dalla sete, dal freddo e da ogni specie di sofferenze. Le streghe lo avevano condannato ad essere così infelice fino al giorno in cui sarebbe riuscito a divorare i seni di una ragazza. Dopo una lunga attesa, aveva potuto cogliere l’occasione di riprendere la sua dignità di uomo.
Altre storielle sui lupi mannari sono state raccontate da E. Del Montechiaro nel suo Le cento leggende dei cento paesi valdostani e riportate da Cecilia Gatto Trocchi nel suo Le più belle fiabe popolari italiane. Abbiamo, per esempio, una vicenda che narra di un uomo di Torgnon che stringe un patto con un licantropo. E una ambientata ad Ayas, con un curato mannaro.
Veneto
I lupi mannari, in Veneto, non s’incontrano di frequente. Si può scovare, però, la figura dell’uomo selvatico, chiamato om salvarec (o salvarech) in dialetto. A Sappada (in Friuli, ma proprio sul confine) esso prende il nome, sottoforma di maschera carnevalesca, di Rollate, un uomo-orso simile a quello di Jelsi (Campobasso).

Tornando all’argomento principe, riesco a segnalarvi un solo episodio in tema licantropico. Jacques Collin de Plancy, studioso francese dell’ottocento, riporta un aneddoto ad ambientazione veneta riferito dall’umanista e medico tedesco Job Fincel: «Un giorno venne preso al laccio un lupo mannaro che correva per le vie di Padova; gli si tagliarono le zampe, e il mostro riprese tosto forma d’uomo, ma con piedi e mani mozzati».
Ma allora… i Lupi Mannari Esistono davvero?
L’avrete capito, ormai: i lupi mannari esistono. E non è questione di fede, di credulità od opinione. È una constatazione.
No, non credo che esistano ibridi aberranti tra uomini e lupi. Non credo alla magia, alle maledizioni, alla iella o all’oroscopo. Ma, ditemi, esiste differenza tra un uomo imbestialito e in preda al delirio che ritiene di essere un lupo… e un licantropo? Dirò di più: tra i due il primo è più pericoloso, perché non esistono rimedi sovrannaturali alla sua furia.
Certo, non c’è alcuna malattia del “mannarismo”. Si parla, tuttavia, di licantropia clinica. Da Wikipedia:
Per licantropia clinica, si intende una rara condizione mentale, con presenza di delirio di trasformazione somatica, che induce chi ne è affetto a credere di potersi trasformare in un animale. La sindrome costringe chi ne soffre a voler assomigliare ad un animale, spesso ad un lupo, nell’aspetto ma principalmente nel comportamento. Negli stadi più gravi i malati desiderano cibarsi di carne cruda, a volte umana, e di sangue. Il nome di questa sindrome è connesso con la condizione mitologica definita come licantropia, in cui la persona che ne è affetta si trasforma in un lupo.
Fa parte della branca delle teriantropie (di cui rappresenta certamente la variante più diffusa) ovvero una psicopatia che costringe chi ne soffre a credersi un animale di una specie in particolare o meno (sono numerosi infatti i casi in cui i teriantropi non sono coscienti di una specifica identità animale ma si credono semplicemente degli Animali-Umani).
Vi sono numerosi esempi di assassini psicopatici che hanno dilaniato i corpi delle proprie vittime coi denti e ne hanno addirittura mangiato il cuore, uno dei casi più noti fu quello del criminale Peter Stubbe.
In passato, alcuni studiosi hanno tentato di individuare la condizione colpevole delle crisi licantropiche. Sono state avanzate numerose ipotesi: la porfiria, malattia genetica che induce psicosi e arrossamenti, ma che procura un aspetto a dir poco… inconsueto rispetto alla figura del mannaro; l’ipertricosi, che rende le persone simili in tutto e per tutto al Larry Talbot della Universal, ma che risulta assai rara; la rabbia e così via.

L’ipotesi più probabile è che la licantropia sia il risultato di più patologie. Tra esse ritroviamo, senza dubbio, il bruciante Fuoco di Sant’Antonio, che per altro si associa al consumo di segale cornuta. Qui trovate un interessantissimo studio relativo al loup garou delle Valli Valdesi (di cui abbiamo già parlato) e al succitato ergotismo. Ne hanno parlato anche Massimo Centini e Carlo Ginzburg.
E ancora: l’epilessia, il consumo di delirògeni e sostanze psicoattive… per non parlare dei lupi mannari inventati di sana pianta per spaventare i bambini, o di quelli che prendono spunto da incursioni di predatori particolarmente agguerriti.
Ma perché proprio il lupo?
Questo è il punto, a mio avviso, più interessante dell’argomento. Se il pensiero teriomorfo ha trovato nella figura del lupo la sua espressione più comune ed efficace, un motivo c’è. E non è banale come si ritiene, ovvero imputabile alla sola aggressività e pericolosità dell’animale. Del resto, abbiamo visto come il lupo fosse considerato anche positivamente: luce, guida, psicopompo, rappresentazione del superamento, dell’attraversamento, dell’iniziazione eccetera eccetera.
La verità è che il lupo, per noi umani, è ambiguo per davvero. È l’animale che più ci somiglia e che, allo stesso tempo, ci minaccia. È l’unico mammifero che, in quanto a diffusione, ha rivaleggiato con gli umani; dove c’era l’uno, c’era l’altro. Le nostre specie si sono letteralmente contese pezzi di pianeta per secoli, come due tribù rivali. Entrambi siamo creature territoriali; abbiamo un’organizzazione sociale, gerarchica, familiare; proteggiamo e, soprattutto, insegniamo ai rispettivi cuccioli le vie della vita.
Prima che iniziassero a dedicarsi alla pastorizia, i cacciatori-raccoglitori prendevano i lupi a modello, a causa delle loro incredibili capacità di caccia sociale. Alcuni studiosi ritengono che noi umani abbiamo imparato a cacciare in modo più efficiente grazie all’esempio dei nostri cugini a quattro zampe. E come dimenticare il cane? Detta volgarmente, fa pensare che un lupo addomesticato possa diventare il miglior amico dell’uomo.
Come vedete, il rapporto tra uomo e lupo è a dir poco complesso e non credo che esistano parallelismi in natura. Il lupo è, nei fatti, specchio dell’uomo, che è a sua volta conteso intimamente da pulsioni opposte. È il motivo per cui, secondo me, i lupi mannari “tragici” hanno tanto successo.
Non ho mai riflettuto, in passato, su tali tematiche, eppure mi sono tatuato un cuore dilaniato da fauci di lupo sul petto. Sono sicuro che, presto o tardi, il lupo sovvenga nelle suggestioni di ognuno.
«Noi non siamo uomini travestiti da cani. Noi siamo lupi travestiti da esseri umani».
(Jin-Roh – uomini e lupi).

Se hai apprezzato l’articolo, non dimenticare di leggere gli altri della rubrica Folklore Italiano tra Media e Realtà!
6 risposte
Bravo, non è da tutti saper qualcosa della Bestia di Cusago. Mi complimento per il tuo lavoro di ricerca.
Ciao Dark, benvenuto nel blog! La storia della Bestia di Cusago la conoscevo già e mi ha sempre affascinato col suo alone di mistero. Grazie mille per i complimenti!
Scopro tante cose nuove e interessanti. Non sapevo dei miti romani riguardo ai licantropi e nemmeno della Bestia di Cusago. Complimenti per l’articolo. Deve esserti costato una faticaccia! XD
Grazie Chris! Eh sì, questo articolo mi ha fatto impazzire. Me lo aspettavo molto, molto più corto quando l’ho iniziato, ma facendo ricerche ho capito in quale guaio mi fossi cacciato… e ormai ero in ballo, dovevo completarlo!
Non pensavo avessimo così tante leggende sui lupi mannari, le ho sempre viste come creature più del Nord Europa
Quando si tratta di folklore abbiamo tanta, tanta roba da scoprire, ma non è sempre facile reperire informazioni