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L’Arco di Trasformazione del Personaggio

La metamorfosi dell'eroe rende mitica qualsiasi storia. L'Arco di trasformazione del personaggio è lo strumento dei grandi scrittori.
Arco di trasformazione del personaggio

Indice

Cinema? No, Storie

L’Arco di trasformazione del personaggio è preziosissimo per direzionare e strutturare le proprie storie. È un metodo completo, preciso, flessibile.

Dara Marks, considerata la migliore story editor americana, è giunta all’enunciazione delle regole dell’omonimo manuale (L’Arco di trasformazione del personaggio — Come e perché cambia il protagonista di una grande storia) attraverso l’esperienza di vent’anni di script consulting per sceneggiature di film di successo.

Competenza e ricerca le hanno permesso di tracciare l’identikit del blockbuster, o meglio della sceneggiatura capace di catturare milioni di persone.

Avete presente quelle pietre miliari del cinema che hanno segnato il pubblico come, per esempio, Star Wars, Arma Letale e Casablanca?

Ebbene, non è un caso. Le sceneggiature di quei film sono estremamente curate e rispecchiano la struttura di cui andremo a parlare. Non è un mistero, d’altronde, che i film americani di qualità diano particolare rilevanza alla sceneggiatura.

La domanda è: perché? Perché funziona. Il mondo del cinema è infinitamente più redditizio di quello cartaceo. Pertanto, le tecniche di storytelling vengono prese sul serio e la competitività è alle stelle, specie rispetto al “cugino povero” dell’intrattenimento, la narrativa.

L'Arco di trasformazione del personaggio, di Dara Marks, manuale di scrittura
Per approfondire: L’Arco di trasformazione del personaggio di Dara Marks, Dino Audino editore. Potete acquistarlo a questo indirizzo (link affiliato)

Tuttavia, che si tratti di cinema, teatro o narrativa, il succo è lo stesso: creare una storia. Una storia coinvolgente, emozionante, significativa, universale, che passi il test of time, come dicono gli Inglesi.

Del resto, gli studi nel campo del cinema hanno influenzato la scrittura come la scrittura ha influenzato il cinema, il teatro ha influenzato quest’ultimo ed è stato influenzato dalla scrittura, che a sua volta è stata influenzata dal teatro e… insomma, si tratta di argomenti trasversali.

Non a caso Dara Marks attinge da L’Eroe dai mille volti di Joseph Campbell e dal Monomito di Christopher Vogler, di cui parlo in questo articolo.

I processi analizzati dalla Marks riguardano esclusivamente l’ambito dello storytelling, senza riferimento alcuno al linguaggio cinematografico (a eccezione dei case studies, ovviamente). In questo, L’Arco di trasformazione del personaggio si rivela ancor più funzionale alla scrittura narrativa del già utilissimo Story di Mckee.

Senza dilungarmi sulla teoria, cercherò di trattare nel modo più succinto e semplice quello che il manuale spiega molto meglio (perciò compratelo, lo consiglio!). Io stesso applico l’Arco di trasformazione del personaggio a tutti i miei lavori. Mi aiuta a costruirli, a definirli e a correggerli in seguito.

Per la struttura completa, rimando al mio articolo sulla struttura delle storie.

Se t’interessa l’argomento, fai un salto sulla rubrica Scrivere una Storia!

Il Conflitto Interiore e L’Arco di Tutti

Nell’ottica dell’Arco di trasformazione del personaggio, una storia inizia e finisce col cambiamento del suo protagonista. Ciò che ci spinge intimamente a continuare a leggere, ciò che ci fa immedesimare nell’eroe, ciò che ci fa preoccupare per le sorti dei personaggi è, nel nocciolo, l’Arco di trasformazione intrapreso da questi ultimi.

Non esiste eroe mitologico o letterario che non sia interessato da un processo simile; che non sia consumato da un conflitto interiore. Anzi, spesso è proprio quel conflitto interiore ad alimentare e direzionare la vicenda.

Immaginate il conflitto interiore del protagonista come una fiamma. Senza di essa, le azioni del personaggio non sono motivate a sufficienza e, di conseguenza, la storia non procede come dovrebbe. Se non è quest’ultima ad arenarsi, è il lettore a smettere di leggere per mancanza di stimoli.

Se un fuoco non lo tormentasse, il protagonista non intraprenderebbe un percorso di cambiamento. Se fosse in pace con se stesso, non si metterebbe in discussione; non correrebbe rischi inutili; con tutta probabilità, non farebbe o avvicinerebbe cose nuove.

Ogni storia presuppone una rottura degli equilibri per definizione. In caso contrario avremmo la cronaca di una vita che scorre uniforme, e che motivo ci sarebbe di narrarla?

Dunque, si può introdurre la caduta di un meteorite, la fine o l’inizio di un amore, la morte violenta dei cari… qualunque evento radicale che funga da spartiacque in una vita, ma che senso ha se l’eroe non se ne cura? O se ne soffre, sì, per poi continuare a vivere come faceva prima?

Si può ordire la trama più interessante di questo mondo ma essa, da sola, non ha più significato di un’operazione matematica. La vita stessa è un riflesso delle nostre percezioni; è da noi che parte tutto e non viceversa. La scienza non spiega la realtà, ma la realtà in relazione all’essere umano.

In altre parole, un accadimento deve avere una portata più profonda di quanto appare superficialmente; esso deve ridestare qualcosa nel personaggio, deve “entrare in dissonanza” con la sua interiorità.

Nel cambiamento esterno, e apparente, il protagonista deve trovare un motivo per mettersi sulla strada del vero cambiamento, cioè quello interiore. La trama deve essere catalizzatrice di tale cambiamento.

Tornando alla metafora di poc’anzi, se il conflitto interno è il fuoco che arde nell’eroe e alimenta la vicenda, cos’è che lo scaturisce in prima battuta?

Il cosiddetto “triangolo del fuoco” spiega che, per creare una fiamma, sono necessari tre elementi: combustibile, comburente e innesco.

Triangolo del fuoco, o Conflitto interiore del personaggio
Conflitto interiore = Status quo x Conflitto esterno x Difetto fatale

Il comburente (l’ossigeno) potrebbe essere il contesto in cui si trova il protagonista, cioè lo status quo in cui egli versa prima del cambiamento. È una condizione dagli equilibri già precari, o non ci sarebbe ragione di innescare una trasformazione. Né sarebbe facile.

Il combustibile lo paragonerei al Difetto fatale, di cui parleremo approfonditamente tra poco. Non solo esso è capace di infiammarsi ma, se gettato sul fuoco, lo scatena.

Il calore, cioè l’innesco, non può che identificarsi col conflitto esterno, cioè la pressione operata dalla trama sul protagonista. Se la situazione non s’inasprisse in qualche modo e non accadesse alcun “fattaccio”, perché l’eroe dovrebbe intraprendere un percorso di cambiamento proprio adesso?

Ed ecco che, combinando tre semplici ingredienti, abbiamo la fiamma, o l’esplosione: il conflitto interiore e, contemporaneamente, il primo step verso la risoluzione dello stesso e l’acquisizione di nuove consapevolezze.

Del resto, struggersi non è piacevole e siamo tutti alla ricerca di equilibrio.

L’Arco di trasformazione del personaggio è tutto qui. Gran parte del lavoro consiste nell’identificare gli ingredienti del triangolo e nel delineare, con precisione, le varie fasi della combustione, o della lenta e progressiva trasformazione del protagonista.

L’uso di una struttura dettagliata ci aiuterà a razionalizzare e oggettivizzare tale processo nel modo più efficiente possibile. A renderlo, insomma, universale e organico.

Parliamo pur sempre di sconvolgimenti intimi e, come tali, impossibili da percepire dall’esterno. Nessuno potrà mai comprendere la portata dei nostri disagi, della lotta interiore che combattiamo ogni giorno ed è giusto così.

Come fare, dunque, a creare qualcosa di puramente soggettivo e, al tempo stesso, fruibile? Ecco a cosa serve la struttura, con i suoi numerosi e apparentemente ridondanti passaggi. Non pensate di poterne fare a meno; è un’illusione, perché solo voi conoscete la vostra creatura dall’interno.

Ciascun elemento dell’Arco di trasformazione del personaggio è pensato per tradurre i travagli della crescita in un linguaggio adatto a tutti e nel quale tutti si possano rispecchiare. In altri termini, ciascun Arco di trasformazione è l’Arco di tutti e potete star sicuri che conquisterà chiunque.

A meno che non creiate un protagonista insopportabile, ovviamente. L’empatia è fondamentale… ma di questo parleremo in un altro articolo.

Il Difetto Fatale, o Fatal Flaw

Abbiamo parlato di “calore” perché il conflitto interiore esploda. Qualcosa deve accadere al protagonista, nelle prime fasi della storia, dimodoché il già precario equilibrio in cui risiede vada a farsi benedire.

In altri termini, in seguito all’innesco l’eroe non può rimanere inerte. Non può continuare a vivere come faceva prima. Ecco, a proposito dello status quo, Dara Marks parla precisamente di sistema di sopravvivenza.

Si tratta del modus vivendi del personaggio: un insieme di valori, convinzioni e abitudini che gli permettono di tirare avanti nel contesto in cui si trova nell’incipit della storia. Ma se vogliamo che il Nostro cambi, allora queste regole devono perdere di efficacia.

L’Arco di trasformazione del personaggio si fonda sull’abbandono dell’attuale sistema di sopravvivenza, divenuto insostenibile in senso lato o meno, per il conseguimento di un altro sistema, congruo alle nuove sfide che l’eroe si trova ad affrontare.

Il vecchio sistema di sopravvivenza, ai fini della storia, è considerato perdente. Uno sbaglio. Dunque, esso deve dipendere a sua volta da un errore profondo nella percezione dell’eroe; errore che egli andrà a correggere nel cammino di riscoperta di sé da noi tracciato.

Questo peccato originale è, al contempo, uno dei tre ingredienti del conflitto interiore, insieme al conflitto esterno e allo status quo. È duro a morire e determina, da solo, il motivo dello struggimento dell’eroe. Come combustibile, dunque, solleva la fiamma.

Sto parlando del Difetto fatale, o Fatal flaw: la caratteristica negativa che ostacola il cambiamento del protagonista e lo ancora al passato. Un elemento importantissimo nella struttura dell’Arco di trasformazione del personaggio. Ma facciamo un esempio.

Difetto fatale, o Fatal flaw, dell'Arco di trasformazione del personaggio
Fatal Flaw: il Difetto fatale che ha permesso all’eroe di sopravvivere in passato e che, adesso, potrebbe costargli la vita, a meno che non lo abbandoni del tutto. Non è un caso che sia “fatale”, no?

Nel film Disney La bella e la bestia (1991), un principe orgoglioso ed egoista viene trasformato in una bestia, poiché si è rifiutato di offrire ospitalità a una mendicante (una fata sotto mentite spoglie). Tornerà umano se imparerà ad amare e a farsi amare entro il ventunesimo anno di età.

Conosciamo già dal prologo, quindi, l’obiettivo della bestia, ostacolato dal suo orrido aspetto. Tale ostacolo viene generato, però, dal Difetto fatale del personaggio: il suo orgoglio, che lo rende intrattabile e inavvicinabile.

La bestia vive isolata nel suo castello da ormai dieci anni. Si vergogna, come detto, del suo aspetto, si nasconde e crede che nessuno la amerà mai. È lo status quo in cui si trova e nel quale vive in uno stato di “quiete“.

Se così non fosse, rischierebbe di essere linciata dalla folla… cosa che, in effetti, accade più avanti, quando la sua esistenza viene rivelata agli abitanti della città vicina.

Tutto cambia quando il padre di Belle s’intrufola, ignaro, nel castello e viene imprigionato dalla bestia, che non vuole visitatori. «Eri curioso di vedere la bestia, non è vero?», chiede il mostro al pover’uomo, in dimostrazione del suo Difetto fatale.

Belle va a cercare il padre e si offre come prigioniera al suo posto; la bestia, stupita, accetta e impone alla ragazza di restare al castello per sempre. Vede in Belle una possibilità di ritornare umana, per quanto remota.

I due iniziano una tormentata convivenza. Il mostro si comporta come tale nei confronti della prigioniera, nonché della servitù. Nella prima fase della storia è una bestia di nome e di fatto, a causa del suo orgoglio smisurato.

I deboli tentativi di comportarsi in maniera civile falliscono miseramente e la fanno precipitare nei soliti pensieri. «Quella ragazza non vedrà mai niente in me, oltre che un mostro. È inutile…».

Quando Belle s’introduce nell’ala proibita del castello e scopre la rosa incantata, la bestia la caccia in preda a una crisi. Ancora, è l‘orgoglio della creatura ad avere la meglio: non vuole che qualcuno veda chi è in realtà (come testimoniano i ritratti strappati).

La bestia, però, si pente subito del suo gesto e salva Belle dai lupi, rischiando essa stessa la vita. La prodezza colpisce la ragazza, che recupera la creatura ferita e la riporta al castello (non chiedetemi come; peserà duecento chili). L’atto altruista di entrambi causa una riconciliazione, nonostante il pessimo “primo impatto”.

La bestia inizia a ingentilirsi nei modi e a innamorarsi davvero. «Non mi sono mai sentito così». Anche Belle sente di provare qualcosa per essa. Le cose procedono di bene in meglio finché il padre di Belle non rischia di morire.

La bestia, dunque, lascia andare la ragazza, nonostante il termine ultimo dell’incantesimo stia per sopraggiungere. Alla richiesta di delucidazioni da parte di Lumière, risponde: «Perché ne sono innamorato».

Nel climax della storia, la bestia viene aggredita e non reagisce fino al ritorno di Belle. A quel punto, prende il sopravvento sul suo aggressore (Gaston) ma si ferma prima di ucciderlo, perché è cambiata: non le importa di difendere il suo orgoglio.

Non è più una bestia, nonostante ne abbia l’aspetto. È una persona.

Il superamento del Difetto fatale è compiuto: la bestia, dapprima così orgogliosa da temere il giudizio altrui per il suo aspetto, ha capito che c’è qualcosa di molto più importante.

È stato l’amore di Belle a far riaffiorare l’umanità della bestia, come ri-affermato simbolicamente dal finale: è l’amore di Belle, infatti, che annulla l’incantesimo e trasforma la bestia in un principe. Ciò secondo il punto di vista tematico della storia, secondo cui «l’Amore va oltre le Apparenze».

Difetto fatale, o fatal flaw, di Jim Carrey in Yes Man
Domanda dalla risposta scontata: qual è il Difetto fatale di Jim Carrey in Yes Man?

Tornando al punto, non può verificarsi alcuna trasformazione se il protagonista non supera il suo Difetto fatale, per ovvie ragioni. Né può esserci crescita in assenza di tale attributo.

Vi ricordo, infatti, che non sto parlando di una lacuna qualunque o di uno spigolo nel carattere, ma di un errore profondo nella percezione della vita quotidiana da parte dell’eroe, ragionevole o irrazionale che sia!

Attenzione a non confondere il Difetto fatale con un difetto fisico: questo non dipende dalla psiche del personaggio e non comporta, di per sé, distorsioni cognitive e comportamentali. Una persona può, per esempio, perdere i capelli e non risentirne sul piano psicologico, né cambiare il suo stile di vita.

D’altro canto, è chiaro che difetti del genere possono contribuire all’insorgere o all’esacerbazione di paure, problemi caratteriali e quant’altro. Tornando al succitato esempio, il mondo è saturo di uomini che non accettano la calvizie e tentano, invano, di combatterla in ogni modo.

Come detto, però, ciò non dipende dalla calvizie in sé ma da una insicurezza profonda e precedente.

Hamartia, il Difetto Tragico dell’Eroe

Il Difetto fatale è il motivo della resistenza al cambiamento operata dal personaggio. L’uso di tale attributo è fondamentale nel tracciamento di un percorso di crescita e, per questo motivo, è largamente utilizzato in tantissimi ambiti.

Nelle tragedie teatrali abbiamo il cosiddetto errore/difetto tragico, che conduce il personaggio alla rovina. È così anche in letteratura e nel cinema. Si tratta, ai fini dell’Arco di trasformazione del personaggio, dei cosiddetti “Archi mancati“, o Archi tragici.

Nei suddetti casi, la trasformazione non giunge a compimento e l’Arco di trasformazione del personaggio s’interrompe. Il protagonista non cresce, non riesce ad abbandonare il suo vecchio sistema di sopravvivenza, ormai inadatto, e finisce preda degli eventi. Oppure reagisce nel modo sbagliato.

Rimane vittima, dunque, del suo Difetto fatale.

È il caso di Martin Eden di Jack London. La trasformazione di Martin da illetterato a scrittore per catturare la sua amata è già, di per sé, il germe della tragedia, in quanto un tentativo di essere qualcuno che non si è per farsi apprezzare dagli altri.

Un altro Arco tragico è, per esempio, quello del tenente Glahn in Pan di Knut Hamsun. La vita del semplice Glahn viene sconvolta dalla passione per Edvarda, che lo tormenta fino alle estreme conseguenze.

Dapprima un sentimento positivo, capace di entusiasmare e raffinare lo spirito solitario ed emarginato di Glahn (costretto così a interagire con la società), questo amore finisce per distruggerlo a causa dell’estrema volubilità della manipolatrice Edvarda, nonché dell’inabilità di Glahn a comunicare, abituato com’è all’isolamento.

Glahn non riesce a tornare alla sua vita precedente, non riesce a togliersela dalla testa: è ormai corrotto, la sua pace interiore è corrotta. Quella che poteva essere l’opportunità (il sogno) per un animale della foresta (Glahn) di rientrare nel mondo degli uomini e provare i piaceri degli uomini si trasforma in un’ossessione malsana per colpa di Edvarda.

Un terzo esempio di spessore è rappresentato, senz’altro, da Martin Vail in Schegge di Paura. Ne parlo approfonditamente in questo articolo.

L'Arco di trasformazione del personaggio di Walter White (Heisenberg)
Transformation of Walter White, di EduardoLeon.
Un Arco di trasformazione del personaggio tra i più famosi è quello di Walter White, o Heisenberg. Tuttavia, si tratta di un Arco tragico (ovvero mancato): la rivincita di Walter per riprendere in mano le rendini della sua esistenza diventa lo scopo stesso di quest’ultima. Walter non è cambiato davvero: ha ancora paura della vita, dalla quale si nasconde invece di affrontarla a viso aperto.

Tornando al teatro, l’errore tragico prende il nome, dalla Poetica di Aristotele in poi, di hamartia. È un termine di difficile interpretazione: secondo una scuola di pensiero, si tratterebbe proprio del difetto della personalità che causa la caduta dell’eroe (il Difetto fatale).

Secondo altri, invece, l’hamartia sarebbe un vero e proprio travisamento, attribuibile anche a una mancanza di informazioni, all’ignoranza o a un errore commesso in buona fede. Un qualunque atto, insomma, che conduca al fallimento, indipendentemente dalle deficienze del personaggio.

Nelle tragedie greche e nei poemi epici abbiamo un tratto negativo ricorrente: l’hybris, cioè la tracotanza dell’uomo che si crede alla pari degli Dei.

Tale scelleratezza provoca, immancabilmente, la nemesis, cioè la vendetta divina. È ciò che accade in tantissimi miti greci secondo un semplice schema: l’uomo, preda di superbia e dismisura, osa violare le leggi immutabili e finisce in disgrazia.

L’hybris è, in tal senso, una forma di hamartia.

Icaro, Aracne, Re Mida… perfino il cristiano Lucifero, cioè Satana, è preda del medesimo Difetto fatale. E, ancor prima, una hybris ante-litteram è quella di Gilgamesh, Re di Uruk, a cui accenneremo più avanti.

Un esempio interessante lo si può riscontare nell’Odissea di Omero. L’accorto Odisseo commette tanti errori nel suo ritorno verso casa. Dopo aver preso d’assalto i Ciconi e aver incontrato i Lotofagi, l’eroe approda nell’isola abitata dai terribili Ciclopi.

Lì, delle ninfe gentili assicurano all’eroe e al suo equipaggio una fruttuosa caccia. Non contento, però, il curioso Odisseo si avventura nella grotta di uno dei Ciclopi, dove trova formaggi e pecore in quantità.

I compagni dell’eroe lo pregano di prendere tutto e scappare, ma il Nostro vuole attendere l’ospite per chiedergli i doni dell’ospitalità. Altro che timorato di Dio: Odisseo intende addirittura misurarsi con un pericoloso Ciclope. E, come sappiamo, pagherà per questo.

Non contento di essere fuggito dopo aver accecato il Ciclope, il divino Odisseo continua a provocarlo e rivela, in un atto di sfida, il suo vero nome.

«Ciclope, se fra i mortali ti chiede qualcuno di quest’occhio orrendamente accecato, rispondi che te l’ha tolto Odisseo, distruttore di città, il figlio di Laerte, che in Itaca ha dimora».

(Omero, Odissea, trad. di Maria Grazia Ciani)

Nonostante i compagni lo supplichino di stare zitto, Odisseo non si tiene un cecio e, come se non bastasse, si ritiene esecutore di una giustizia divina: «Su di te doveva ricadere il misfatto, sciagurato, che osasti mangiare gli ospiti nella tua casa: per questo Zeus ti ha punito, e con lui gli altri dei».

Se non è hybris questa, e della peggior specie! In una tragedia teatrale Odisseo sarebbe stato sventrato e impalato su un palo d’ulivo ma, per fortuna, le leggende eroiche della Grecia arcaica erano più indulgenti nei confronti dell’estro eroico, rispetto ai drammi greco-classici.

Tema, Plot & Subplot

Triade, Wholly Triad di Dara Marks nell'Arco di trasformazione del personaggio
La Triade di Dara Marks: la Storia A (Plot) induce un cambiamento di consapevolezza, che è la Storia B (Subplot). Questa, a sua volta, si riflette nella relazione con gli altri personaggi, chiamata Storia C (Subplot di relazione). Il risultato è la risoluzione del conflitto esterno, cioè del Plot (o Storia A).

La struttura della Marks parte da un Tema e un Punto di vista tematico. Da tale proposizione si può risalire all’Arco di trasformazione del personaggio e alla sua esplicazione: la Storia A e la Storia B, ovvero Plot e Subplot.

Tornando all’esempio de La bella e la bestia, abbiamo:

Tema: l’Amore e l’Apparenza
Punto di vista tematico (o Premessa): «l’Amore va oltre le Apparenze».

Il perché di tale Premessa è presto spiegato. L’Amore di Belle va oltre l’aspetto della bestia e la ri-trasforma in un essere umano; l’Amore del principe va oltre le Apparenze e gli permette di stringere a sé una popolana emarginata.

E ancora: l’Amore di Belle per suo padre va oltre le sue invenzioni improbabili; per lei è un genio, mentre tutti gli altri lo vedono come un pazzo.

Inoltre, proprio perché l’Amore va oltre le Apparenze Belle non può sposare Gaston. L’aspetto fisico e la reputazione dell’uomo non bastano a provocare sentimenti forti, soprattutto quando mascherano un’indole a dir poco aberrante.

E vogliamo parlare della fata-mendicante? Nel film si dice chiaramente, a proposito del principe, che «non c’era Amore nel suo cuore». In caso contrario, egli avrebbe messo da parte il suo orgoglio di nobile e l’avrebbe ospitata.

È per questo che viene punito e graziato con quella precisa scappatoia. Dovrà amare ed essere amato: solo così potrà correggere il suo errore e non commetterlo ancora. Solo così potrà, in altre parole, andare oltre le Apparenze.

Analizziamo, dunque, l’Arco di trasformazione della bestia un elemento alla volta, a partire dal…

  • Plot — Si tratta dell’obiettivo esterno del Tema, ovvero della linea d’azione che il personaggio dovrà adottare per risolvere il conflitto esterno che si verifica nella storia.

Ne La bella e la bestia, il conflitto esterno dell’Arco della bestia viene introdotto subito: è la trasformazione operata dalla fata ai danni del fatuo principe; trasformazione che andrà invertita (azione) perché il principe ritorni umano (obiettivo).

Il conflitto interiore è altrettanto chiaro: è lo struggimento della bestia dovuto al suo orrido aspetto, che non combacia con la sua identità di bel principe.

Per ritornare umana, la bestia dovrà farsi amare da una donna. Ma quale linea d’azione (Plot) dovrà adottare la creatura, secondo il Punto di vista tematico (cioè in linea con la visione dell’autore), per raggiungere tale obiettivo?

E qui ci viene in aiuto la suddetta Premessa. «L’Amore va oltre le Apparenze»; è questa la chiave di lettura della storia, giusto? Dunque, facciamo in modo che sia l’Amore stesso ad aprire gli occhi al personaggio, cioè a far crollare le Apparenze.

Perché il principe, trasfigurato in un mostro, sciolga il conflitto esterno nel rispetto del Punto di vista tematico, è necessario che s’innamori (ecco il Plot). Solo così andrà oltre le Apparenze e, di conseguenza, tornerà quello di un tempo, pur restando un mostro. Soltanto allora potrà dare il meglio di sé ed essere ricambiato.

Mettiamola così: è come se il Nostro dovesse tornare umano dentro, prima che fuori. In caso contrario, nessuno potrebbe apprezzarlo per chi è davvero.

Concept art La Bella e la Bestia, di Karl Simon
Concept art del live-action de La Bella e la Bestia, di Karl Simon

Ma come dirimere il conflitto esterno se, prima, non si affronta quello interiore? Ecco che entra in gioco il…

  • Subplot — Si tratta dell’obiettivo interiore del Tema, ovvero della linea d’azione che il personaggio dovrà adottare per risolvere il conflitto interno che si verifica in lui.

Sappiamo che il conflitto di cui sopra è dovuto al contrasto tra l’aspetto della bestia e la sua vera identità. Come sciogliere, dunque, tale struggimento?

La risposta a tale domanda fornisce la motivazione intima che spingerà il personaggio a risolvere l’obiettivo del Plot. In caso contrario, perché dovrebbe farlo? Ricordate che l’eroe non sa di star sbagliando; per lui, l’attuale sistema di sopravvivenza è quello giusto.

In altri termini, la bestia sa di dover amare e farsi amare per tornare umana ma, com’è noto, non agisce nel modo corretto. Non sa che, quando c’è l’Amore, l’Apparenza non conta davvero. Del resto, perché la bestia dovrebbe mettere da parte il suo orgoglio, se è convinta che chiunque tenterà di umiliarla?

Perché la bestia, in pena per il suo aspetto, cambi nel rispetto del Punto di vista tematico e sciolga il conflitto interiore, è necessario che metta da parte il suo orgoglio (ecco il Subplot). Solo così smetterà di vergognarsi del suo aspetto e sarà libera di amare, invece di ergere barriere e allontanare le persone.

Nel film animato, l’eroe del nostro Arco di trasformazione inizia a rendersi conto di non dover essere necessariamente un mostro grazie a Belle. Lei stessa è, infatti, l’espressione del Tema della storia, poiché è il contrario di come appare.

Belle è bellissima nell’aspetto ma per nulla viziata, egocentrica o frivola. Anzi, è coraggiosa, altruista e sognatrice. Inoltre, si tratta di una ragazza che pensa con la sua testa e guarda oltre le Apparenze; una ragazza unica, che non si fa condizionare dagli altri.

Tornando all’argomento principale, Plot e Subplot sono, come detto, gli obiettivi esterni e interni del Tema. Al primo corrisponde il secondo e per risolvere il primo occorre risolvere il secondo.

Pensate, per esempio, a un viaggio: nella letteratura, a un viaggio “esterno” corrisponde sempre un viaggio interiore intrapreso dal protagonista. Il tragitto giusto (secondo l’autore) per giungere alla meta è la linea da seguire.

È il caso della già citata Odissea di Omero. Al burrascoso ritorno di Ulisse combacia un viaggio nella psiche dell’eroe. Un percorso di doloroso smussamento del proprio carattere, indotto dalle catastrofi che gli capitano; un percorso di crescita, miglioramento… di trasformazione.

Non è un caso che il divino Odisseo, tornato a Itaca, prenda l’aspetto di un vecchio, grazie ai prodigi di Atena. Oltre che più anziano, egli è più saggio, paziente, misurato. Come in un romanzo di formazione, la sua maturazione anagrafica è uno specchio di quella interiore.

L’Odisseo maturo ha capito che non è nulla di fronte agli Dei, ai quali deve affidarsi e non per mera convenienza, come faceva in passato. L’Odisseo maturo ha capito che una ciurma può essere sottratta anche al capitano più ardito e navigato; che senza una ciurma, un uomo solo, per quanto eroico, non può nulla.

Il Ritorno di Ulisse, Giorgio de Chirico
Il Ritorno di Ulisse, di Giorgio de Chirico

Il Plot dell’Odissea non è altro, dunque, che il mezzo tramite cui il viaggio vada a buon fine, secondo il punto di vista tematico. Ed esiste un solo modo: affidarsi al volere degli Dei. Odisseo deve imparare a fare ciò se vuole arrivare a Itaca sano e salvo per riabbracciare la sua famiglia.

«Anfinomo (…) ascolta e comprendi: di tutto ciò che nutre la terra, e sulla terra si muove e cammina, nulla è dell’uomo più effimero. Egli pensa che non gli accadrà nulla di male, finché gli dei gli concedono forza e le sue membra si muovono. Ma quando i numi beati dolori gli infliggono, anche questi sopporta, suo malgrado, con cuore paziente. (…) Un tempo potevo essere felice anch’io fra i mortali, ma molti errori commisi abusando di forza e potere e fidando nei miei fratelli e nel padre. Mai dovrebbe essere ingiusto l’uomo, ma godere in silenzio i doni che i numi gli danno.

(Omero, Odissea, Trad. di Maria Grazia Ciani)

Ma come può un uomo così estroso imbrigliare le sue passioni, la sua forza esplosiva, il suo ingegno inarrivabile e sottometterle al dominio degli Dei? Ebbene, egli deve capire che, a dispetto di ciò che pensa di sé, è solo un uomo. E che l’uomo è una pedina degli Dei.

Questo è il Subplot. Solo così Odisseo potrà superare la sua hybris, il suo Difetto fatale, e affidarsi agli Dei per portare a termine il suo viaggio. Ed è ciò che accade quando il Nostro viene privato, in effetti, di ogni uomo e mezzo di ritorno e resta “prigioniero” di Calipso.

Non si può certo dire, a tal proposito, che Odisseo abbia pensato tutto il tempo alla sua famiglia, e che abbia solo e unicamente lottato per tornare a casa. Altrimenti, non avrebbe battagliato i Ciconi; non avrebbe sfidato Poseidone; non avrebbbe giaciuto con Circe, prima, e Calipso poi e così via.

Una volta sopiti i desideri e le tentazioni, una volta compreso cos’è che conta davvero, Odisseo è pronto al rientro a casa. Sarà Atena, come sempre, ad aiutarlo, muovendo a pietà Zeus e gli altri Dei. Grazie alle Dea bionda Odisseo riuscirà a tornare e a trionfare sui malvagi Pretendenti.

Lo Schema Completo dell’Arco di Trasformazione del Personaggio

Nello schema dell’Arco di trasformazione del personaggio, sotto al Plot abbiamo l’Ostacolo, ovvero l’impedimento alla risoluzione del Plot. Perché la bestia non riesce ad amare (e a farsi amare)? Perché si vergogna del suo aspetto e, dunque, si nasconde a sé stessa e agli altri.

A sua volta, come abbiamo accennato, l’Ostacolo è generato dal Difetto fatale e non è altro che il risultato dell’applicazione di quest’ultimo nel conflitto esterno. Perché la bestia si vergogna del suo aspetto? Perché è troppo orgogliosa e ha paura di essere umiliata.

Sotto l’Ostacolo abbiamo il Contesto, ovvero l’ambiente che genera tale ostacolo. Ambiente non solo geografico, ma sociale, economico, ecc. Come dovrà essere, quindi, il Contesto in cui ci si preoccupa del proprio aspetto? Sicuramente superficiale e privo d’Amore; tipico di una certa nobiltà.

quadro principe La Bella e la Bestia, difetto fatale

E poi? Solitario, perché la solitudine ci rende diffidenti, incattiviti, animaleschi nei modi e ci priva dell’affetto di cui abbiamo bisogno. Giudicante (e, infatti, la bestia rischia il linciaggio).

Infine, Anomalo. Vergognarsi del proprio aspetto e nascondersi significa rigettare sé stessi, significa che qualcosa non è come dovrebbe essere. Colpa di un incantesimo, in questo caso.

Sotto il Subplot abbiamo il Difetto fatale, il cui superamento permette di risolvere l’obiettivo interiore del Tema. La bestia deve mettere da parte l’orgoglio per risolvere il suo conflitto interiore; quindi, smetterà di vergognarsi di sé stessa e potrà innamorarsi.

Non il contrario, attenzione. Finché la bestia continuerà ad allontanare tutti e a rimuginare sul suo aspetto, non capirà mai nulla. Il primo passo dovrà partire, per forza di cose, dal mostro stesso, o non ci sarà alcun contatto rivelatore con Belle.

Sotto il Difetto fatale ci sono gli altri Tratti del personaggio, che dovranno andare nella direzione che gli stiamo imprimendo. Si tratta di caratteri positivi e negativi, ma anche catalizzatori del cambiamento.

I Tratti funzionano come il Contesto per l’Ostacolo. In essi, però, fiorisce il Difetto fatale, che finirà per ammazzare (in senso lato o meno) il nostro eroe se non lo abbandonerà e cambierà percezione di sé.

Da questo semplice specchietto si passa a strutturare l’intera opera con gli elementi del suddetto Arco di trasformazione. Si scompone la storia in atti, come da tradizione, e poi si tratteggiano numerosi step per la crescita del nostro eroe. Di tutto ciò parliamo in dettaglio nell’articolo sulla struttura delle storie.

Ecco lo schema completo.

Soggetto/Tema: l’Amore e l’Apparenza
CCC: un mostro superbo (carattere) imprigiona una ragazza (conflitto) e, grazie all’amore di lei, ritorna umano (conclusione).
Premessa/Punto di vista tematico: «l’Amore va oltre le Apparenze».

Plot (Obiettivo esterno del tema):
Innamorarsi
Subplot (Obiettivo interiore del tema):
Mettere da parte l'orgoglio
Ostacolo: Vergognarsi del proprio aspettoFatal Flaw:
L'orgoglio
Contesto:
Superficiale
Privo d'amore
Giudicante
Solitario
Anomalo
Tratti del Personaggio:
Animalesco
Arrogante
Schivo
Sofferente
Sensibile

E ora proviamo a creare, insieme, un Arco di trasformazione ex nihilo.

L’Arco di Trasformazione di Lucifero, l’Angelo Caduto

Riassumendo, il modello basilare dell’Arco di trasformazione del personaggio è il seguente (dall’omonimo manuale):

  • Una persona [personaggio] riesce o fallisce
  • nella sua crescita e cambiamento [arco]…
  • all’interno del contesto conflittuale in via di svolgimento [plot]…
  • secondo il punto di vista dello sceneggiatore [tema].

Lucifero, chiamato anche Stella del mattino e Figlio dell’aurora, era un Re babilonese. Per chi non lo sapesse, i Babilonesi sono considerati, nella Bibbia, la nemesi del popolo ebraico e Babilonia è la controparte di Gerusalemme: una metafora del male e della perdizione.

Il Genio del Male, di Guillaume Geefs. Arco di trasformazione di Lucifero
Il Genio del Male, di Guillaume Geefs

Stiamo parlando di una delle prime opere di demonizzazione e damnatio memoriae della storia; opera che influenza tutt’oggi la cultura occidentale, nonostante gli studi archeologici abbiano restituito dignità a una culla della nostra civiltà.

Sì, perché gli antichi Greci hanno un forte retaggio mesopotamico in ambito scientifico, religioso e mitologico. Basti pensare a come l’Epopea di Gilgamesh influenzò, indirettamente, i poemi epici di Omero, o a come l’astronomia mesopotamica rappresenti la prima fase dell’astronomia occidentale.

Detto ciò, dunque, Lucifero incarna, per l’Ebraismo prima (Re babilonese) e il Cristianesimo dopo (angelo caduto), le caratteristiche dei popoli gentili così invise ai monoteismi: orgoglio, sensualità, ambizione, intelligenza, estetica, potenza… l’attaccamento, insomma, a questo mondo (corrotto e imperfetto per i monoteismi).

Questi sono i Tratti di Lucifero e il suo Difetto fatale non è altro che la hybris di cui abbiamo parlato. Dal Libro di Isaia (14, 11-15):

«Negli inferi è precipitato il tuo fasto
e la musica delle tue arpe.
Sotto di te v’è uno strato di marciume,
e tua coltre sono i vermi.
Come mai sei caduto dal cielo,
astro del mattino, figlio dell’aurora?
Come mai sei stato gettato a terra,
signore di popoli?
Eppure tu pensavi nel tuo cuore:
«Salirò in cielo,
sopra le stelle di Dio
innalzerò il mio trono,
dimorerò sul monte dell’assemblea,
nella vera dimora divina.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all’Altissimo».
E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell’abisso!».

«Mi farò uguale all’Altissimo»; ecco la colpa di Lucifero, di cui rimane vittima. La sua rivolta viene sedata ed egli precipita nel Centro della terra, dove, bloccato dal ghiaccio, viene trasfigurato dai suoi stessi peccati in un orrido mostro.

Era bello e ora è orrendo; era forte e ora è impotente; era orgoglioso e ora viene ridicolizzato. Il contrappasso subito da Lucifero è di una crudeltà indicibile.

La hybris di Lucifero è ciò che gli ha permesso di diventare Re di Babilonia o primo tra gli angeli, a suo tempo. Stiamo parlando dello status quo, al quale subentra un incidente scatenante (l’innesco) nell’incipit della storia.

Ci sono varie teorie a riguardo. John Milton immagina, in Paradise Lost, che Lucifero inizi a dubitare dell’operato di Dio quando Egli impone, a lui e a tutti gli angeli, di riverire il suo figlio mortale. Un umano! Inaccettabile per il grande angelo, che osa conservare una dignità invece di sottomettersi completamente.

L’angelologo Don Marcello Stanzione ha un’intuzione simile: teorizza due prove alle quali Dio avrebbe posto i suoi angeli perché ascendessero ai cieli. Una di queste, che Lucifero non avrebbe superato, avrebbe richiesto la venerazione dell’Immacolata Concezione. Ancora, una misera donna umana.

Luzifer's Fall, di Ludwig Fahrenkrog. La caduta di Lucifero nell'Arco di trasformazione
Luzifer’s Fall, di Ludwig Fahrenkrog

Mettiamo che questo sia, dunque, l’incidente scatenante dell’Arco di trasformazione di Lucifero. Il fuoco, cioè il conflitto interiore, è acceso: Lucifero si strugge perché da un lato vorrebbe essere fedele a Dio e, dall’altro, la sua hybris glielo impedisce, alla luce di quei nuovi avvenimenti.

“Hybris” è, invero, un concetto un tantino generico. Quando si decide il Difetto fatale del personaggio, occorre essere il più specifici possibile, onde evitare equivoci. Mettiamo il caso, quindi, che l’hybris del nostro Lucifero si manifesti nella sua venerazione della forza.

Ma torniamo a noi. Lucifero, recalcitrante, obbedisce agli ordini del Signore: viene incaricato di proteggere suo Figlio, di servirlo e riverirlo. È durante questo confronto tra Gesù Cristo e l’angelo che esso si rende conto di essere di gran lunga più potente alla controparte umana.

È il richiamo all’azione, cioè il momento in cui Lucifero inizia ad agire sulla via del suo Arco. Nei momenti morti, infatti, l’angelo si preoccupa di stringere alleanze e sobillare i suoi simili contro il Signore, finché non riesce a realizzare una vera e propria armata.

È a quel punto che il Nostro incontra l’arcangelo Michele, a sua volta assegnato alla custodia del figlio di Dio. Lucifero, attirato dall’idea di ingraziarsi un angelo tanto valoroso, prova a portarlo dalla sua parte.

L’arcangelo, inflessibile, non si limita a negare la sua partecipazione alla rivolta, ma mette a nudo il culto della forza di Lucifero con delle parole sferzanti, finendo per denunciarlo al figlio di Dio. Questi, incredibilmente, perdona Lucifero e gli offre l’opportunità di redimersi accudendo i lebbrosi.

È il momento determinante dell’Arco, quando il Difetto fatale viene portato alla luce da un personaggio secondario.

Lucifero è scioccato e furioso. L’umano avrebbe potuto rivalersi su di lui e affermare il proprio dominio, ma non l’ha fatto. Perché? È incomprensibile. Tuttavia, l’offerta che gli ha fatto è una chiara umiliazione. Non c’è dubbio che il figlio di Dio si consideri, a torto, superiore al forte Lucifero e ciò è inaccettabile.

È il Risveglio, o primo turning point dell’Arco di trasformazione. Lucifero si rende conto che qualcosa, in lui, inizia a cambiare e si oppone con tutta la sua forza a tale cambiamento, poiché significherebbe la fine del suo attuale sistema di sopravvivenza.

Il Nostro si sente calpestato nel suo onore di primo tra gli angeli. Accettare tale affronto significherebbe buttare alle ortiche il valore conquistato nella lotta. Degradare la sua forza immensa. Dunque, passa all’azione: raduna il suo esercito e marcia nei cieli per spodestare il Signore.

Nella sua mente, non gli rimane altra scelta. O sarà lui a prendere il comando o il Lucifero di prima cesserà di esistere. Da Re di Babilonia, o primo tra gli angeli, a ultimo dei servi.

Dunque, Lucifero lotta con la paura nel cuore (è la spinta verso il punto di rottura). La sua armata si scontra contro quella capeggiata dall’arcangelo Michele. Lucifero lo sfida a duello e viene sconfitto, ma l’arcangelo ha pietà di lui e getta la spada, mettendo la sua vita nelle mani dell’eroe.

La Caduta di Lucifero, di Gustave Doré dal Paradiso Perduto di John Milton
La Caduta di Lucifero, illustrazione di Gustave Doré per il Paradiso Perduto di Milton

È il midpoint, il momento in cui il conflitto interno di Lucifero raggiunge l’apice, per poi inziare a calare subito dopo. Il Nostro è, infatti, combattuto tra il suo Difetto fatale, la venerazione della forza, e un nuovo sentimento: la pietà che, attraverso le azioni dell’arcangelo e del figlio di Dio, ha cominciato a strisciare nel suo cuore.

Lucifero si guarda intorno e realizza una cosa, nel campo di battaglia: a che serve regnare in Paradiso se ciò significa calpestare altri valorosi come lui? È il suo momento di illuminazione. Lucifero capisce, infatti, che la vera forza risiede nella capacità di aiutare gli altri, e non di annientarli.

Lucifero risparmia l’arcangelo Michele, ma gli angeli suoi alleati non sono d’accordo e lo finiscono al suo posto. Quindi, costringono Lucifero a continuare a marciare, come prigioniero piuttosto che leader.

Vedete come all’abbassamento del conflitto interiore corrisponde un innalzamento del conflitto esterno.

È la caduta, in senso letterale e narrativo. Alla nuova consapevolezza consegue un nuovo, lancinante dolore, dovuto agli sbagli passati e presenti. Il Difetto fatale non si cancella con la bacchetta magica. Ha delle ripercussioni.

L’armata giunge al cospetto di Dio, che la spazza via, strappa le ali a Lucifero e lo scaglia nelle profondità della terra. È finita: non sarà mai più un angelo, non servirà o aiuterà più nessuno, non avrà più alcuna dignità o valore.

Lucifero resta confinato tra i ghiacci ma ottiene poteri incredibili, e gli viene assegnato un dominio sotterraneo fatto di fiamme. La rabbia e il dolore per l’ingiustizia subita incendiano la forza ritrovata: è la discesa, in cui Lucifero si avvicina spaventosamente allo stato in cui versava all’inizio della storia.

Non è più il primo tra gli angeli, ma è il primo tra i demoni. La sua forza è perfino superiore a prima e, adesso, può contare su uno stuolo di orrendi servitori. Dunque, potrebbe cercare di liberarsi e architettare la sua vendetta per diventare il padrone dei due mondi.

In un Arco tragico o mancato, Lucifero non andrebbe incontro ad alcuna trasformazione. Tornerebbe come prima, più incattivito di prima, e alla discesa non seguirebbe alcuna ripresa. Potrebbe aspettare per l’eternità, poiché il ghiaccio non si scioglie mai; potrebbe riuscire nel suo intento e distruggere l’aldilà, sé compreso, o perire nel tentativo.

La scelta dipende dal significato che vogliamo attribuire alla storia, cioè dal suo Tema e dal punto di vista tematico. Oppure, in un Arco di trasformazione completo, Lucifero potrebbe andare incontro a un momento di trasformazione.

Non importa che non sia più un angelo. Non è mai importato. Ciò che conta è ciò che può fare per gli altri, anche (o a maggior ragione?) in questo stato. Lucifero decide, dunque, di abbandonare ogni attaccamento alla sua forza, ogni hybris, e di svolgere al meglio il compito che gli è stato affidato.

Nel climax della storia, Lucifero decide di assumere l’aspetto cerbereo e grottesco per il quale verrà ridicolizzato per secoli. Si assegna il nome di Satana e si circonda di ghiacci, così da non poter più ascendere ai cieli neanche se volesse.

Decide, insomma, di sobbarcarsi gli oneri del simbolo del male. Diventa il capro espiatorio di ogni nefandezza, di cui nessuno avrà mai pietà o per il quale nessuno spenderà belle parole. Si sacrifica per scoraggiare il male e dare una casa a quelli che scelgono la via sbagliata.

In questo, Lucifero dimostra di essere ben più magnanimo del suo Creatore.

L'angelo caduto, mito di Icaro e Lucifero
La Caduta di Lucifero, illustrazione di Gustave Doré per il Paradiso Perduto di Milton. Notate come la figura dell’angelo caduto ricordi quella di Icaro. Difficile parteggiare per il sole, vero?

Nella risoluzione, che mostra le conseguenze del climax sulla “società”, vediamo i peccatori, gli angeli caduti e tutti quelli che hanno commesso errori e sono invisi a Dio rendere grazie a Lucifero, insieme al rinato arcangelo Michele e al figlio di Dio, che aveva sempre creduto in lui.

Esempi e Conclusioni

Degli elementi che formano l’Arco di trasformazione del personaggio parlo dettagliatamente in quest’altro articolo. Mi riferisco alle tappe citate en passant poc’anzi, quali lo status quo, l’incidente scatenante, il richiamo all’azione, il momento di trasformazione e così via.

Ne l’Epopea di Gilgamesh l’omonimo eroe affronta, con Enkidu, prove difficilissime spinto dalla sua hybris. Il coraggioso e ambizioso Gilgamesh stabilisce un legame di fratellanza con il forte Enkidu, il quale muore in seguito a una malattia infertagli dagli Dei (incidente scatenante).

La conseguente paura della morte funge da richiamo all’azione e pone la prima pietra sulla strada del cambiamento interiore dell’eroe. Ciò lo porterà a viaggiare ai limiti del mondo all’infruttuosa ricerca della vita eterna.

Gilgamesh tornerà in patria con una nuova consapevolezza di sé e del mondo: l’accettazione della finitezza della vita, della piccolezza dell’uomo di fronte agli Dei. Smetterà di molestare i cittadini e di insidiare le loro mogli per comportarsi come il più grande dei re.

Non più, dunque, l’ambizione e la hybris, ma l’umiltà e la devozione. E il Re di Uruk morirà come un qualsiasi uomo (risoluzione).

I Sumeri conoscevano l’Arco di trasformazione del personaggio di Dara Marks? Come per la Premessa, la risposta è no. Tutti i miti e le leggende hanno strutture simili, che risuonano dentro di noi; è il motivo del loro successo, del loro passare alla storia.

Luke Skywalker in Guerre Stellari impara a fidarsi della “forza” piuttosto che del suo coraggio e della ragione, e ciò gli risulta fondamentale quando distrugge la Morte Nera.

Nel suo Arco di trasformazione del personaggio, Luke impara ad ascoltare la sua forza interiore come un vero Jedi.

Harry Potter diventa uomo e si immola per sconfiggere Voldemort alla fine della saga. Bilbo Baggins, da pantofolaio recalcitrante e ossessivo compulsivo, diventa un eroe in Lo Hobbit.

Ne Il Signore degli Anelli, egli è tornato a essere il Bilbo di un tempo e, per trasformarsi nuovamente, deve liberarsi dell’anello, cioè dei suoi ingombranti ricordi di gloria. Solo allora potrà di nuovo partire all’avventura.

Ciò che rende indelebile una storia è, dunque, il suo protagonista (o i suoi protagonisti). Mi direte «no, non è vero. Ci sono piagnoni come Frodo del cui destino non c’importa un fico secco».

A parte che se non si prova empatia per i personaggi principali (non c’interessa che fine facciano) il libro diventa automaticamente noioso e poco emozionante, ciò che trascina davvero la storia non è il protagonista in sé, ma la sua quest.

Chi mastica giochi di ruolo e videogiochi capirà quanto sia calzante tale termine. Tra l’altro, le suddette forme di intrattenimento presentano, spesso, protagonisti vuoti, simili a simulacri o avatar del giocatore.

Ciò accade in tantissimi JRPG (Japanese Role Playing Games), per esempio. Eppure, titoli come Chrono Trigger o Persona 5 emozionano come pochi e le storie che raccontano restano impresse nella memoria.

Una grande storia è, semplicemente, un’avventura per l’ottenimento dell’elisir, citando il Monomito, o il Santo Graal. E quest’ultimo non è altro che una metafora di rinascita e risveglio interiore, secondo l’ottica dell’Arco di trasformazione del personaggio.

Santo Graal in Persona 5, metafora del Monomito
Il Santo Graal, uno degli “ultimi” boss in Persona 5

Dunque, l’Arco ci può essere utile anche per scegliere e distinguere la vera storia che vogliamo raccontare. Se un evento non rientra nella struttura dell’Arco di trasformazione, allora non deve essere raccontato perché estraneo alla storia, ovvero al processo di cambiamento del protagonista (o dei protagonisti).

E voi che ne pensate? Strutturate le vostre storie in base alla trasformazione dei vostri personaggi? Commentate!

Se avete apprezzato l’articolo, non dimenticate di leggere gli altri della rubrica Scrivere una Storia!

24 risposte

  1. Salve, da neofita e profano della scrittura sto seguendo per ordine i tuoi lavori sulla costruzione di una storia. Vorrei provare a mettere insieme il materiale buttato giù negli anni passati: materiale ricco di sentimenti personali estratti e vergato su carta, ma disintegrato. Insomma vorrei provare a scrivere ma non so se ci riuscirò. Comunque da un po’ sono deciso a provarci. Sia la Premise che questo secondo capitolo mi stanno piacendo e li trovo davvero utili (chissà, magari potremmo anche provare a vedere se c’è spazio per approfondire l’argomento delle tragedie, o meglio, gli archi mancati per i quali anche io ho un debole; i “fallimenti” nelle storie sono spesso relativi agli occhi dei lettori non credi?).
    Tornando alle tue pubblicazioni, dicevo che ci sono arrivato a ritroso dopo aver trovato le tue scritture su Campbell e gli archetipi junghiani (se non erro Costruire 5 e 6), ai quali sono giunto per altre vie (Bolen, Naranjo, Givone e addirittura partendo dal Pavese di Leucò quasi 20 anni fa). Da quello che leggo credo che abbiamo alcuni gusti comuni da esprimere anche se io mi ritrovo con fogli bianchi e tanto timore ad espormi e tra l’altro ancora niente tra le mani di tuo (provvederò a breve).
    Ma forse questa mia esitazione fa parte del mio di arco.
    Un saluto intanto dalla Toscana
    Gianni

    1. Salve Gianni, benvenuto nel blog 🙂
      Sono contento che i miei articoli ti siano utili. Anch’io, tra l’altro, ho un debole per le tragedie e puoi aspettarti un articolo in proposito a breve!
      Per quanto riguarda le tue aspirazioni letterarie, ti capisco: è difficile mettere in ordine e in gioco la propria interiorità. Quello che posso dirti è che, parafrasando Jack Bickham, gli scrittori scrivono. Gli altri accampano scuse. Ti consiglio onestamente di buttarti: stendi un’idea e una struttura alla bene e meglio e poi “riempila” e completala. Tutto qui. La tua prima opera non sarà perfetta; pazienza, nulla lo è al primo tentativo. Non c’è altro modo, davvero.
      Saluti!

  2. Costruire un personaggio non è una cosa facile. Dipende poi da come lo si vuole costruire. Un personaggio con una crescita è sempre affascinante da costruire, mettendo in mostra i suoi difetti e i suoi pregi e narrando il percorso che fa per arrivare a una certa cosapevolezza e maturità. È anche interessante invece il percorso di decostruzione di un personaggio. A volte mi piace vedere come dei personaggi maturi e ben delineati per via di qualche evento abbiano una devoluzione.

  3. Ciao, non ho capito una cosa, i tre elementi, combustibile, ossigeno e calore, gli hai elaborati tu o fanno parte della tesi originale?

  4. Ciao carissimo. Sto leggendo l’arco di trasformazione del personaggio e sono incappato in una spiegazione contraddittoria. Nel V capitolo, paragrafo “Trovare il Fatal Flow”, viene spiegato che il F.F. rappresenta il valore opposto a quello del tema(subplot) e viene determinato invertendo appunto il subplot. “Essere fedeli alla propria natura” e “Non essere fedeli alla propria natura” per quanto riguarda il film “L’ attimo fuggente”. Tuttavia al capitolo VI, paragrafo “Semplice come l’ ABC”, viene affermato :”Nel quinto capitolo ci siamo soffermati a lungo sullo sviluppo del fatal flow del personaggio in cui nasce il conflitto interiore. Questo subplot viene chiamato ‘storia B’. La storia B rivela cosa il protagonista deve realizzare interiormente per contribuire al raggiungimento dell’ obbiettivo esterno del plot”. Sto rileggendo e rileggendo e mi viene in mente solo una cosa: quando dice “questo subplot” non si riferisce al fatal flow ma al soggetto precedente del paragrafo. Me lo confermi? sennò sto andando in confusione. Grazie

      1. Ho continuato a leggere il capitolo, è stato fin’ora il capitolo che mi ha dato più problemi. Non sono riuscito a risolvere l’enigma neanche leggendo il glossario alla fine del libro ma forse qualcosa mi ha chiarito. Inoltre sempre nel VI capitolo, nel paragrafo “CASES STUDIES” il plot e i subplot dei diagrammi non corrispondono con gli altri diagrammi. Ad esempio ne “all’ inseguimento della pietra verde” c’è scritto nel primo diagramma:Storia A:Joan deve salvare sua sorella da spietati rapitori, Storia B: Joan trova il coraggio di affrontare l’ignoto, Storia C: Joan impara a seguire il proprio cuore. Mentre il secondo diagramma riporta quanto segue: Plot (A) Credere nell’avventura, Subplot (B e C) Seguire il proprio cuore. Perchè non corrispondono i diagrammi per ogni Plot e subplot?
        Grazie

        1. Non corrispondono perché A B e C sono i Conflitti esterno, interno e di relazione, mentre sul diagramma la Marks riporta direttamente Plot e Subplot. La Marks fa un po’ di confusione in tal senso, perché non sono esattamente la stessa cosa. Il Plot e il Subplot sono il modo per risolvere i rispettivi conflitti nell’ottica del punto di vista tematico.

          1. ma A, B e C non sembrano conflitti, appaiono più come plot e subplot. Se fossero conflitti potrebbero essere ad esempio B=”Joan non ama l’avventura”, mentre è “Joan trova il coraggio di affrontare l’ignoto”, non mi pare un conflitto ma più un subplot interno.

    1. Ciao Cane, quando l’Arco parla di storia B si riferisce al conflitto interiore. Storia A = Conflitto esteriore, Storia B = Conflitto Interiore, Storia C = Conflitto di relazione. A volte la Marks si riferisce indistintamente al Conflitto esterno come al Plot, a quello interno come al Subplot e a quello di relazione come al Subplot di relazione, perciò capisco che possa confondere.

        1. Rileggendo il capitolo VI e il glossario a fine libro ho elaborato una teoria che spiega tutto:
          in realtà la storia A, B e C sono rispettivamente plot e conflitto esterno, subplot e fatal flow, subplot di relazione e conflitto di relazione. In parole povere la storia A è l’insieme di plot e conflitto esterno e così per la storia B e C con i subplot e gli altri conflitti. Che ne pensi?

          1. È quello che pensa la Marks, dal momento che li usa indifferentemente. A conti fatti, comunque, con cambia nulla, perché tutti e tre i conflitti sono considerati nell’ottica della loro risoluzione (risolvendone uno si può passare a risolvere il successivo). E dato che Plot e Subplot non sono altro che il modo per risolvere i rispettivi conflitti, ecco che diventano il senso del triangolo.

  5. Salve, riflessione per tutti i lettori del libro. Ieri sera ho visto “gente comune” e oltre all’arco di trasformazione del personaggio “famiglia” descritto dalla Marks, mi sono reso conto che c’è un’altro arco del personaggio di Conrad e francamente non mi trovo d’accordo con la Marks nell’affermare che il protagonista è la famiglia ma bensì Conrad. I plot della famiglia descritti nel VI capitolo del libro sono “Dar valore ai bisogni dell’ individuo” e “la famiglia lotta per restare unita”. In realtà è Conrad che attua un cambiamento grazie all’ aiuto dello psichiatra e torna a una nuova vita, la famiglia, a causa della madre non lotta per restare unita, è solo il padre che cerca di risolvere i problemi della famiglia ma senza riuscirci, quindi la famiglia si sfascia. Mi trovo in difficoltà ad andare oltre a causa della differenza dei diagrammi nel capitolo VI, descritti nei miei commenti precedenti.

  6. Ciao Giuseppe! Domanda: È possibile avere due subplot interni nella storia B?
    Avrei bisogno di questi due subplot e conflitti:
    1)deve innamorarsi di nuovo | non riesce ad innamorarsi di nuovo
    2)deve dimenticare a sua ex | non riesce a dimenticare la sua ex
    Mentre la storia A prevede questo:
    deve ritrovare l’amore per la vita, la gioia di vivere | non riesce a ritrovare la gioia di vivere
    È depresso perchè la sua ultima ragazza lo ha tradito e lasciato
    Invece la storia C è:
    deve passare più tempo con le ragazze per conoscerle | non riesce a passare del tempo con le ragazza per conoscerle
    In pratica, come deve essere, la storia C risolve la B che risolve la A.
    Se passa più tempo con una ragazza riesce ad innamorarsi e dimenticare la ex, quindi ritrova la voglia di vivere
    Grazie.

      1. hahaha hai perfettamente ragione! c’ho provato! il problema è che ho poche domande ancora, e devo ancora finire di studiare, nonche finire di leggere almeno una volta l’arco di trasformazione del personaggio! ok me le tengo per dopo! Grazie per il resto

  7. Ciao, avrei una domanda sul Contesto in cui matura il difetto fatale del protagonista. Esiste un ordine specifico in cui devono essere presentate le due cose o varia di caso in caso?
    Prendiamo l’esempio di un protagonista apatico per via di un ambiante che disincentiva lo spirito di iniziativa. In questo caso non sarebbe meglio, se non addirittura obbligatorio, esplicitare le cause del difetto fatale, ovvero il Contesto, solo nel secondo atto?
    Ne La persona peggiore del mondo la protagonista ha evidenti problemi a relazionarsi con gli uomini, ma solo a metà film capiamo da dove nascono: da un padre che dopo essersi fatto una seconda famiglia non l’ha più presa in considerazione.
    Fosse stato chiaro sin dall’inizio avremmo visto tutta la narrazione come intrisa di vittimismo, probabilmente avremmo trovato il film patetico.
    Allora mi chiedo: per quanto sia inevitabile e doveroso mostrare il Contesto sin dalla parte riguardante lo status quo, è qualcosa che va reso chiaro solo nel secondo atto al fine di giungere al momento illuminante?

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Sono Giuseppe, scrittore, blogger, insegnante di scrittura creativa e coach narrativo! Sono alla costante ricerca di nuovi metodi per raccontare storie. Immersivita.it è il mio tentativo di condividere ciò che ho scoperto: benvenuti, e che il naufragar vi sia dolce in questo mare…

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