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La Solitudine come Trincea: riscoprire la solitudine feconda, atto di crescita e di rivolta contro il mondo moderno.

Solitudine in Trincea

Indice

Sto scrivendo un lungo articolo che dividerò in più parti, perciò non sono riuscito a preparare nulla per questa settimana. Vi propongo, in alternativa, un articolo che pubblicai per un quotidiano online. A voi!

 

Il pugile pratica tecniche e combinazioni fino allo sfinimento. Le spalle bruciano, le braccia pesano come macigni. Il movimento, il pugno e l’energia che vi s’infonde devono instillarsi nel corpo e nella mente. Il colpo e il passo diventano un riflesso, una seconda natura.
Eppure, ciò non accade durante l’allenamento. È di notte che il cervello mette a punto la tecnica, ripassa gli sforzi e li imprime nell’anima. Durante il sonno, l’attività cerebrale raggiunge il culmine e la memoria muscolare prende coscienza di ciò che è accaduto. Ecco che l’indomani, magicamente, le combinazioni sono più sciolte e naturali di quanto immaginasse l’allievo.
È così che, nella quiete e intimità del sonno, si rielabora il vissuto. È così che, in solitudine, si dà senso alle proprie esperienze.

Jack London fu boxeur e vagabondo. Fu un giornalista, un alcolista, un cacciatore di foche. Ogni viaggio dell’autore si ritrova nei suoi libri. Fiumi d’inchiostro riversati nella solitudine, come raccontato nel capolavoro Martin Eden.
Nel libro, il marinaio illetterato Martin si trasforma in scrittore di successo per amore di una donna. Egli si chiude nel suo mondo e scrive dozzine di libri sulla base dalle tante avventure, fino a perdere contatto con la realtà che, prima, abitava freneticamente. In questo suo viaggio interiore, Martin nota di essere diventato migliore degli altri, superiore a quegli individui altolocati che prima ammirava.

Ritagliarsi del tempo per sé stimola, dunque, una crescita personale. Riflettere sulle proprie esperienze, metterle in relazione col proprio Io, significa elaborare nuove soluzioni. Un superamento della condizione precedente, sia dal punto di vista interiore che esteriore. Se in tal modo, infatti, il solitario impara a conoscere se stesso, a gestirsi e a perfezionarsi, egli getta nuova luce anche su ciò che lo circonda.
Per Nicolás Gómez Dávila, «vive la sua vita solo chi la osserva, la pensa e la dice: gli altri, è la vita che li vive».

Essere faccia a faccia col sé significa, per forza di cose, affrontarsi. È il cosiddetto “esame di coscienza”, che non può che giovare. Fare i conti con i propri errori porta a non commetterli in futuro. Paradossalmente, l’isolamento è una cura all’egotismo, che si manifesta nella moltitudine: ostentare per attrarre le altrui attenzioni; schiacciare gli altri per distinguersi, per cercare conferme alla propria autostima. La solitudine è un bagno di umiltà e permette di formare una coscienza autonoma, che non ha bisogno del prossimo per reggersi. Né di aiutarlo o di essere aiutato, né di umiliarlo o di farsi umiliare da lui.
«La solitudine è la miglior cura per la vanità», affermava Thomas Wolfe, e il silenzio insegna valori trascurati al giorno d’oggi: la discrezione, il contegno, il decoro. Atteggiamenti che la maggioranza continua a stimare, sottovoce, in netta controtendenza con la volgarità chiassosa che contraddistingue quest’epoca.

Nicolás Gómez Dávila di Dariush Radpour
Nicolás Gómez Dávila, illustrazione di Dariush Radpour

Solitudine non intesa dunque come “torre d’avorio” in cui rinchiudersi fino a svanire, ma come trincea di quel campo di battaglia che è la vita; ove osservare la situazione da una posizione di vantaggio, fare il punto, curare i feriti, dare ordini, sferrare attacchi, ordire piani.
Trincea dalla quale sorsero gli eroi del Piave, “l’uomo nuovo” animato dallo spirito indomito e non dalla convenienza. Come Benito Mussolini ebbe a dire, nel discorso del 14 novembre 1933: «Noi abbiamo respinto la teoria dell’uomo economico, la teoria liberale, e ci siamo inalberati tutte le volte che abbiamo sentito dire che il lavoro è una merce. L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero».
Ma, siccome «nel corso dei secoli dialogano le stesse voci» (Dávila), e la storia è fatta di corsi e ricorsi storici, si può tracciare una linea che risale alla nascita dell’umanità e che perdura ai giorni nostri.
Quella del primato dello spirito è una concezione pre-cristiana ma che si rinfranca in un altro “uomo nuovo”, quello di Paolo di Tarso, e nei cristiani che hanno convertito l’Impero in decadenza. Una verità trasversale che passa per il romanticismo, come reazione alla rivoluzione industriale; che, nell’epoca moderna, sfida il materialismo e i suoi figli diretti: il marxismo e il liberalismo. Così risorge, ancora, quell’afflato spirituale nel soldato politico italiano, prodotto della rivoluzione francese (neoclassicismo più che illuminismo, zelotismo giacobino del Terrore), del romanticismo tedesco e dell’identità italica, cattolica, mediterranea.
Ecco i garibaldini del Risorgimento, gli irredentisti, gli squadristi, i legionari fiumani, trionfo dell’Io aristocratico con velleità collettivistiche. Coraggio, martirio, ideali: una vera e propria rivoluzione delle coscienze, come auspicato dal Mazzini. Tempo dopo, è Léon Degrelle a intuire che «la malattia del secolo non risiede nel corpo. Il corpo è malato perché l’anima è malata (…). In ciò consiste la grande rivoluzione da fare. Rivoluzione spirituale. O fallimento del secolo».

Tutto ciò trasmette un insegnamento importante, cardine del pensiero tradizionalista e insito nella natura umana: la bellezza è dentro di noi, parafrasando nuovamente Dávila.

Filippo Corridoni uomo nuovo
Monumento a Filippo Corridoni, sindacalista rivoluzionario, Parma.

Si dice spesso che chi non sta bene con se stesso non può star bene con gli altri. La verità, come il senso delle cose, va ricercata in noi e non in ciò che ci circonda. È una prassi della spiritualità, trascurata purtroppo dall’attuale Papa ma che trascende i popoli e le religioni.
Per Dávila, «l’anima cresce verso l’interno». Per Borges, «solo una rivoluzione nel petto di ciascun uomo potrebbe riportarci a quella dignità che, per essere antica, è sempre nuova». Ernesto Che Guevara rimarcava che «la vera rivoluzione dobbiamo farla dentro di noi». È questo il punto focale intorno al quale ruota la concezione evoliana della destra come rieducazione interiore, rispetto all’azione politica: l’individuo che plasma lo stato, e non lo stato che plasma l’individuo; la vittoria dello spirito sulla materia. A tal proposito, scriveva Tolstoj: «Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiare se stesso».
Oggi, destra e sinistra si differenziano formalmente, almeno in Italia. La sinistra disdegna il lavoro e la destra disprezza i valori.

Occorre riscoprire il concetto di solitudine feconda, arma preziosa contro la massificazione della società contemporanea e lo schiavismo salariale, che porta il lavoratore alla stasi spirituale con i suoi ritmi forsennati.
Per Roland Barthes «il soggetto umano è cambiato: l’intimità e la solitudine hanno perduto il loro valore, le qualità individuali sono divenute sempre più di tutti, il singolo ricerca la collettività, la moltitudine, spesso parossistica musica, l’espressione del noi invece che espressione dell’io».

La solitudine feconda permette di focalizzare gli sforzi su un obiettivo preciso. Chi ambisce a qualcosa di grande lo sa: è un percorso che s’intraprende da soli. Anzi, gli altri fungono da pause, ostacoli allo scopo che ci si è prefissati. Che sia studio, lavoro o arte, si può contare solo su se stessi, sul sudore che si versa indipendentemente dal prossimo. La solitudine è la dimensione del sognatore.

«La grandezza è solitaria. Si direbbe anzi che la solitudine è condizione della grandezza. Tutte le intelligenze superiori, tutte le nature superiori sono isolate, l’aquila vive sola, il leone solo», notava Iginio Ugo Tarchetti. Similitudine, questa, espressa anche dal coevo Arthur Schopenhauer, filosofo solitario per definizione.

Schopenhauer Solitudine
Arthur Schopenhauer, monumento a Frankfurt

Kenji Miyazawa, famoso poeta e scrittore giapponese dei primi del ‘900, scrisse un poema intitolato Kokubetsu, l’ultimo addio, un meraviglioso auspicio e un incoraggiamento a questo percorso esistenziale di autoaffermazione.

«(…) Ma, tra circa 10,000 persone che abitano in questo paesino e in quel villaggio, ce ne sono probabilmente circa 5 di loro che hanno la tua età e che sono altrettanto talentuosi e capaci. Ognuno di essi, tuttavia, perderà ciò che possiede nei prossimi 5 anni. Potrebbe accadere perché devono lavorare o perché semplicemente si danno per vinti. Nessun genere di talento, potere o risorsa resterà con noi per sempre. Nemmeno le persone.
Non te l’ho detto, ma da Aprile non insegnerò più in questa scuola. Dovrò percorrere un sentiero oscuro e tortuoso.
Se perderai l’abilità che possiedi ora, il giusto tono della tua musica, e la brillantezza che porti con te, dopo che avrò lasciato la scuola, non mi prenderò più cura di te. Perché quello che odio di più è la massa, che si sente confortevole e soddisfatta con quel poco di lavoro che svolge.
Se tu…
Per favore, ascoltami attentamente.
Quando t’innamorerai di una dolce fanciulla e penserai a lei, ci sarà una statua davanti a te, una statua forgiata da innumerevoli ombre e luci. Devi trasformarla in musica.
Quando tutti gli altri si godono la vita in città e giocano tutto il giorno, tu falcerai l’erba da solo nei campi. Devi ricavare musica da quella solitudine.
Inghiotti tutto l’odio e la miseria e canta comunque.
Se non avrai uno strumento musicale…
Ascoltami, mio discepolo.
Suona, al meglio delle tue possibilità, le canne d’organo fatte di luce che attraversano il cielo».

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Sono Giuseppe, scrittore, blogger, insegnante di scrittura creativa e coach narrativo! Sono alla costante ricerca di nuovi metodi per raccontare storie. Immersivita.it è il mio tentativo di condividere ciò che ho scoperto: benvenuti, e che il naufragar vi sia dolce in questo mare…

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