
Genere: Fantascienza
Editore: Nord, St. Martin's Press il 1 Gennaio 1977
Pagine: 299
Punteggio: 2/5
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Descrizione:
La porta dell'infinito, l'ultima opera scritta da Frederik Pohl, che nel 1978 ha vinto tutti i più prestigiosi premi dedicati alla narrativa di fantascienza, tratta il tema dell'esplorazione dello spazio, fornendo un ritratto magnifico della civiltà umana futura e creando una storia piena di fascino e di « suspence ».
Gli uomini sono giunti su Venere, e qui hanno scoperto i resti di un'altra razza molto più avanzata scientificamente, scomparsa da quasi mezzo milione di anni. Gli « Heecee » (cosi sono stati chiamati questi alieni misteriosamente svaniti) hanno tuttavia lasciato delle reliquie tecnologiche per lo più indecifrabili e un asteroide quasi completamente cavo e pieno di astronavi attraccate, ma pronte a partire alla volta di destinazioni sconosciute. Queste astronavi funzionano ancora, ma gli uomini non sono in grado di scoprire il segreto del loro funzionamento, ne il carburante di cui si servono. L'unica cosa che sono in grado di fare è quella di partire, di lanciarsi in avventure spesso senza ritorno alla ricerca di mondi colonizzati dagli « Heecee » con la speranza di trovarvi manufatti di valore.
Robinett Broadhead è uno degli esploratori istruiti per la guida di tali navi. Egli deve partire; non può rimanere sull'asteroide « Gateway » perché il costo della permanenza è troppo alto per i suoi mezzi e la sua unica speranza di poter tornare un giorno sulla Terra è quella di avere un colpo di fortuna e di scoprire un pianeta ricco e di tornare poi sano e salvo a « Gateway ». Ma le probabilità di successo sono minime: il quindici per cento delle navi non ritorna e, di quelle che riescono a tornare, quattro su cinque arrivano senza nessuno a bordo, e spesso anche quelli che ritornano, quando ritornano vivi...
Il Capolavoro di Frederik Pohl?
La Porta dell’Infinito è considerato, dalla critica e gran parte del pubblico, l’opera migliore di Frederik Pohl, Gran Maestro della fantascienza con una carriera settantennale alle spalle e responsabile, in qualità di editor e agente letterario, di pubblicazioni che hanno scandito la storia stessa della science fiction. Nel 1977, quando uscì Gateway (titolo originale dell’opera), l’autore aveva già scritto un bel po’; il romanzo, infatti, si può associare alla terza fase di Pohl, che torna sulla cresta dell’onda in qualità di scrittore dopo i tanti sforzi editoriali.
La Porta dell’Infinito è il primo romanzo del Ciclo degli Heechee, che conta due sequel (Oltre l’Orizzonte Azzurro e Appuntamento con gli Heechee), due spin-off (Gli Annali degli Heechee e The Boy Who Would Live Forever: A Novel of Gateway) e alcuni racconti. Ciò detto, la prima volta che Pohl introdusse i suddetti Heechee fu nel romanzo breve I Mercanti di Venere, del 1972, e lo stesso Gateway fu pubblicato a puntate sulla rivista «Galaxy» dal novembre 1976 al marzo 1977.
Parlavamo di capolavoro, e i successi parlano chiaro. La Porta dell’Infinito ha fruttato a Pohl tutti i premi principali nel campo nella fantascienza: dal Premio Nebula, nel 1977, ai premi Hugo, Locus e Campbell, nel 1978, fino al Prix Apollo nel 1979. Un’evenienza alquanto rara; ma saranno davvero meritati?
L’Universo de La Porta dell’Infinito
La Porta dell’Infinito è ambientato in una società del futuro in cui l’umanità ha, da tempo, iniziato la sua colonizzazione dello spazio: la popolazione è nell’ordine delle centinaia di miliardi e abita, oltre che sulla Terra, su asteroidi e pianeti come Venere. Ed è proprio lì che, per puro caso, un minatore scopre un’astronave aliena che lo condurrà alla porta del titolo: Gateway, uno spazioporto alieno in cui albergano centinaia di astronavi abbandonate.

La razza aliena in questione è chiamata Heechee. Si tratta di creature apparentemente scomparse da milioni di anni che, però, possedevano una tecnologia tanto avanzata quanto… incomprensibile. Di loro non si sa assolutamente nulla, compreso l’aspetto fisico, a eccezione delle capacità tecnologiche e del loro approdo nei remoti lidi dell’universo. Degli Heechee viene rivenuta soltanto una cosa: manufatti su manufatti, sparsi in giro per la galassia come testamento della loro passata presenza. Enigmatici, ma spesso utilissimi per gli inferiori umani.
Nella società de La Porta dell’Infinito, infatti, la tecnologia Heechee è ormai diffusa ovunque e ha sensibilmente cambiato la qualità della vita degli uomini, nonché i loro progressi scientifici. Una tecnologia, badate, che nessuno conosce, ma che si riesce a impiegare per gli usi più disparati. Compreso lo spazioporto di Gateway, che diventa una multinazionale miliardaria e l’approdo di centinaia di pionieri spaziali: i pazzi che osano imbarcarsi sulle astronavi e partire alla volta dell’ignoto.
Sì, perché nonostante sia impossibile capire i suddetti trabiccoli attraverso l’ingegneria inversa, essi funzionano alla perfezione e in modo totalmente autonomo. Ciascuna navetta è pronta a partire per delle destinazioni ignote e prefissate, vicine o a dir poco lontane. Nessuno sa quanto duri il viaggio, né se il carburante, ammesso che esista, sia sufficiente per tornare. La maggioranza delle navi conduce in luoghi inutili, altre a morte certa; alcuni viaggi, però, fanno la fortuna dei cosiddetti “cercatori”, grazie al rinvenimento di artefatti Heechee, pianeti abitabili o semplici informazioni (pagate profumatamente dalla multinazionale).
I cercatori di cui sopra sono come quelli della corsa all’oro del Klondike. La differenza è che bisogna pagare fior di bigliettoni per il viaggio su Gateway, la tassa di soggiorno, il vitto e così via, e parliamo di cifre da capogiro. Il risultato è che i partecipanti alla corsa spaziale sono, spesso, impossibilitati a tornare indietro. Chi ha successo diventa un miliardario e può permettersi di ritirarsi a una vita agiata e tranquilla, laddove torni tutto d’un pezzo; chi fallisce e sopravvive, invece, è costretto a ritentare, come in una sorta di roulette russa.
La percentuale dei viaggi infruttuosi è molto alta, e le navi che tornano prive di equipaggio (nonché quelle che non tornano affatto) non sono poche. Su Gateway regna la paura: quella di partire e di non ritornare; quella di penare in ansia per settimane, nel minuscolo e inumano abitacolo delle astronavi, per poi tornare con un pugno di mosche, o qualche sorpresina. Ma ciò che spinge molte persone è l’assistenza medica totale: una sorta di assicurazione sanitaria che dura per tutta la vita e garantisce ogni tipo di cura, operazione o trapianto per l’allungamento della vita. A chi può pagare cifre incredibili, s’intende.

La maggior parte dell’umanità vive, infatti, in condizioni misere. L’aspettativa di vita è bassa, soprattutto per chi non può permettersi granché e/o svolge lavori gravosi, come nel caso del protagonista (di cui parleremo tra poco). Egli lavora, infatti, nelle miniere alimentari del Wysconsin, dove lo scisto viene convertito nel cibo disgustoso che l’umanità, ormai in numeri insostenibili, deve ingurgitare per sopravvivere.
Quelle che dipinge Frederik Pohl sono due realtà in aperto contrasto: da un lato, il progresso sfrenato, il brivido della scoperta e di nuovi orizzonti, macchinari prodigiosi, l’elevazione nel cieli (neri) più remoti, la possibilità di condurre vite di gran lunga più agiate di oggi; dall’altro, una società che entra di diritto nelle distopie più orride e terrificanti in letteratura. E non c’è alcun volo pindarico, perché il futuro fantascientifico dipinto da Pohl è ancorato al presente.
Il mondo de La Porta dell’Infinito è profondamente americano, materialista e ipercapitalista. Lo si scorge nel (non tanto velato) riferimento alla questione sanitaria; nell’epopea pioneristica e nella corsa all’oro a cui abbiamo accennato; nel modo in cui ogni cosa sembra avere un prezzo, inclusa la vita umana. Non a caso, il traffico d’organi rimane uno degli affari più redditizi. L’autore cerca di far emergere tali aspetti, anche con una vena sottilmente politica e didascalica, nelle infinite spiegazioni e descrizioni del mondo circostante. E lo fa, spesso, col pungente humour che lo contraddistingue.
Ciò detto, al di là delle allegorie e dell’aspetto distopico, La Porta dell’Infinito gode di un worldbuilding a dir poco elaborato. Ogni singolo elemento fantascientifico viene sviscerato con dovizia da Pohl, indipendentemente dalla sua pertinenza rispetto alla trama. Ma non solo: le varie trovate sono talmente verosimili e ricercate dal punto di vista scientifico da rasentare la fantascienza hard, nonostante la vicenda in sé si focalizzi sul protagonista e sulle sue vicissitudini psicologiche.
È uno strano coacervo, quello architettato da Pohl. Gli spiegoni di cui sopra prendono fin troppo spesso il sapore dell’infodumping, ma contribuiscono a ricreare un universo fitto di implicazioni, dalle più lievi a quelle estreme, e tutte esplorate con assoluta coerenza. Lo scettro, a tal proposito, non può che andare alla stazione spaziale. Pohl non ci risparmia da una vera e proprio cronostoria dell’elemento speculativo, nonché dalle minuzie riguardanti l’organizzazione di Gateway, i viaggi spaziali e così via. Ancora, affascinanti quanto eccessive e ineleganti.

L’idea di Pohl è intrigante e ricca di possibilità; è questa la sensazione che offre di primo acchito e, del resto, l’autore ci ha ricavato una saga. Merito delle sue capacità non tanto di scrittore, quanto di ricercatore e appassionato di sci-fi. In effetti, tali aspettative sono in gran parte disattese, come vedremo tra poco, ma la speranza viene ripetutamente rintuzzata dalla continua opera di worldbuilding. Vedremo mai gli Heechee? Cosa troverà il protagonista in uno dei suoi viaggi? Sopravviverà? È un peccato che il romanzo canni ogni singola risposta.
Un’idea molto simpatica ed efficace si deve ai concisi inserti presenti nel romanzo. Si tratta di annunci pubblicitari, lettere, rapporti e stralci di tutte le forme che contribuiscono a dipingere l’universo de La Porta dell’Infinito dall’esterno, ovvero senza la mediazione del protagonista. In alcuni di questi stralci ritroviamo perfino certi personaggi secondari presenti nella narrazione, o determinati nomi che si ripetono da un rapporto all’altro.
Alcuni documenti approfondiscono l’aspetto scientifico, altri quello sociale, altri le relazioni tra i personaggi e così via. L’aspetto che condividono è quello umoristico: la stragrande maggioranza degli inserti presenta elementi surreali, bizzarri o grotteschi, conditi di ironia e con tanto di battuta a effetto. La cosa mi ha entusiasmato, all’inizio, ma invecchia presto: l’elemento comico diventa sgradevole per la sua evidenza e scontatezza e l’autore coglie ogni opportunità per sciorinarci informazioni superflue.
Peccato, perché l’idea era davvero buona e certi stralci li ho trovati a dir poco geniali. Tuttavia, l’assoluta impellenza di fare sarcasmo, da parte di Pohl, ha finito col massacrarla. Posso trovare simpatici due, tre, quattro spot pubblicitari trash all’americana, ma non dozzine di essi.
Robinette Broadhead, un Eroe Disturbato
Il worldbuilding stupefacente fa da cornice, in teoria, al protagonista della storia: il narratore inaffidabile Robinette Broadhead. Un nome volutamente improbabile per un eroe ancora più improbabile. Si tratta della sua storia, come dimostra la narrazione in prima persona in forma diaristica. Come se non bastasse, ciascun capitolo è inframezzato da flashforward in cui il nostro Robinette, ormai un uomo ricco e di successo, incontra un’intelligenza artificiale chiamata Sigfrid in alcune sessioni di psicoterapia.

La scelta è quanto mai infelice per varie ragione. Per prima cosa, spezza il ritmo e il flusso della narrazione principale, già lentissima di suo… e ciò non aiuta. In secundis, gran parte degli incontri tra Robinette e Sigfrid risultano a dir poco inutili: in moltissimi di essi non apprendiamo nuove informazioni o, se accade, si tratta di elementi ininfluenti. Al solito, però, Pohl ne approfitta per architettare qualche scena comica e una serie di dialoghi umoristici.
Almeno fino a un certo momento, in cui, finalmente, le sessioni di psicanalisi cominciano ad acquisire un senso ai fini della storia. Ma succede troppo, troppo tardi, e ciò non giustifica l’infinita sfilza di interruzioni inutili. L’idea si deve, come si può intuire, all’approfondimento psicologico di Robinette Broadhead, che s’incrocia in qualche caso con la trama. E Robinette è, in effetti, un personaggio particolarmente sfaccettato: sembra che Pohl abbia puntato tutto sul suo pupillo, dal momento che l’intero viaggio si basa sull’esplorazione del Nostro piuttosto che del cosmo.
Sì, perché il climax della storia e le scelte drammatiche della vicenda fanno riferimento a un segreto nascosto nel cuore dell’eroe. Segreto che il programma Sigfrid cerca, insieme a noi, di portare in superficie, in una serie di procedimenti stereotipati in salsa freudiana. Il buon Robinette ricorda, ricorda… e noi veniamo a sapere, pian piano, ogni cosa di lui: dalla sua vita nelle miniere alimentari, prima di vincere alla lotteria e imbarcarsi per Gateway, al suo rapporto con la madre e le donne in generale.
I problemi fondamentali di questa impostazione sono due. Il primo è che Robinette non è un buon protagonista. Nonostante la tridimensionalità del personaggio, infatti, manca l’elemento prìncipe di un eroe di successo: l’empatia. Della vita sofferta di Robinette veniamo a sapere attraverso qualche brano riassunto e raccontato; non la viviamo di certo in prima persona e non ne siamo partecipi. Il Robinette in cui ci ritroviamo è quello che parte per Gateway e non ne combina una giusta.

Si tratta di un personaggio patetico. Un individuo privo di particolari capacità, cioè del tratto determinante di un eroe; un individuo che si piange addosso dalla mattina alla sera, nel futuro come nel passato, senza una buona ragione; che si attacca e sfrutta gli altri, ma senza particolare accanimento o consapevolezza; che non prende una singola, e dico una singola, decisione importante nell’intero arco narrativo. Avete capito bene: Robinette non fa niente. Niente di niente.
Il motivo è che ha paura di partire per un viaggio spaziale. Morale della favola, gran parte della storia lo vede trascinarsi per la stazione spaziale nel tentativo di ingannare il tempo, tra una scopata all’altra. Robinette conosce un gran numero di personaggi, molti dei quali, a differenza sua, agiscono e dimostrano un certo valore. Anche quando Robinette è costretto a partire, si dimostra un essere superfluo, terribilmente passivo e insipido. Non c’è un preciso motivo perché lui sia lì, né ci sarebbe motivo di leggere di lui in particolare.
Gli incontri con Sigfrid peggiorano le cose, perché siamo costretti a psicanalizzare un individuo di cui, in fondo, non c’importa nulla. Come se non bastasse, i pochi atti che commette Robinette sono difficilmente apprezzabili, come quando ha una crisi isterica e riempie di botte la donna che ama senza alcun motivo, o quando succede il “colpo di scena” del climax. Il problema non sta neanche nell’atto in sé, ma nello spirito con cui lo commette. Si tratta di una persona ipocrita, debole, passiva, noiosa e vigliacca ma, ancora, non particolarmente meschina o malvagia. Non possiamo disprezzarlo con ferocia, né provare empatia per lui.
Queste dovrebbero essere le basi dello storytelling, oltre che della vita: le chiacchiere stanno a zero, sono le azioni che contano. Il fatto che Pohl non se ne sia reso conto e abbia riempito il suo eroe di fuffa emotiva testimonia la sua scarsa abilità di scrittore. Il che ci porta al secondo problema fondamentale, tanto dell’opera quanto dell’alternanza psicanalisi-storia principale: la trama stessa. Dicevamo che succede ben poco, sì, ma non è l’unica magagna.

Da fantascienza dalle tinte hard a sviluppo del personaggio low concept, la storia tradisce tutte le sue aspettative. La cosa peggiore è che lo fa fino in fondo; il climax non viene salvato da tale sovvertimento. Il lettore spera fino all’ultimo che succeda qualcosa. Deve succedere, dal momento che il Robinette del futuro è apparentemente diverso da quello del passato. E succede, in effetti. Non posso fare spoiler, ma vi dirò che la conclusione è perfino più deludente dello svolgimento. Sembrava impossibile, ma è così.
Non solo il mistero sci-fi si rivela terribilmente banale, ma anche l’oscuro segreto di Robinette (nonché la causa del suo successo) si dimostra scialbo, scontato e passivo, in accordo col personaggio fino a quel momento. Insomma, non succede nulla di entusiasmante sul piano del conflitto esterno e del conflitto interno, né in termini negativi né in termini positivi. Pohl non ci mette neanche nelle condizioni di giudicare le azioni di Robinette; difficile essere a favore o contro, perché sono frutto delle circostanze, tanto per anestetizzare ulteriormente il dramma.
La conclusione ha il sapore della truffa. Dovrebbe essere il punto più alto di un’opera ricca e intelligente, ma è l’encefalogramma piatto di una storia progettata male a propri. La sensazione è che Pohl volesse scrivere un romanzo di fantascienza grandioso; uno in cui, per intenderci, a un epico viaggio esterno corrispondesse un’odissea interiore, ma ha cannato su tutta la linea. Non c’è un viaggio epico, non c’è un’odissea e le due impostazioni viaggiano parallele per la maggior parte dell’opera, per poi toccarsi in pochi, scialbi punti.
Quelli che Pohl riteneva fossero momenti di svolta, probabilmente, ma che non lo sono.
Varcammo lo strano portello ellittico che permetteva di insinuarsi tra i razzi di spinta e di calarsi nel modulo d’atterraggio, e poi, per mezzo di una scaletta, di entrare nel corpo principale della nave.
La Porta dell’Infinito, pag. 56-57.
Ci guardammo intorno, come tre Alì Baba intenti ad ammirare la grotta del tesoro. Udimmo un cigolio sopra di noi, e si affacciò una testa. Aveva le sopracciglia folte e gli occhi molto belli, e apparteneva alla ragazza con cui avevo ballato la sera prima. – Vi divertite? – chiese. Stavamo ammucchiati tutti insieme, il più lontano possibile da tutto ciò che aveva l’aria di essere mobile, e non credo che dessimo l’impressione di sentirci a nostro agio. – Non importa – disse lei. – Guardatevi intorno. Famigliarizzatevi con la nave. Dovrete viverci per molto tempo. Quella fila verticale di volanti con i piccoli raggi sporgenti è il selettore dell’obiettivo. È la cosa più importante da non toccare, per ora: forse da non toccare mai. Quella spirale dorata vicino a quella ragazza bionda… qualcuno vuole provare a indovinare a cosa serve?
La ragazza bionda, che era una delle figlie di Forehand, si tirò indietro e scosse il capo. Lo scossi anch’io, ma Sheri azzardò: – Potrebbe essere un attaccapanni?
L’insegnante guardò pensierosa la spirale. – Mmm… No. Non credo, ma continuo a sperare che uno di voi novellini trovi la soluzione. Nessuno di noi, qui, lo sa. Qualche volta, durante il volo, si surriscalda: nessuno sa perché. La toilette è là dentro. Vi divertirete, con quella. Ma funziona, una volta che si è imparato a usarla. Potete appendere le vostre amache e dormire qui… o dove preferite. Quell’angolo, e quella rientranza, sono spazio morto. Se volete un po’ d’intimità, potete chiuderli con schermi. Almeno parzialmente.
Sheri chiese: – Ma voialtri istruttori non ci tenete a dire come vi chiamate?
L’istruttrice sorrise. – Mi chiamo Gelle-Klara Moynlin. Volete sapere altro, di me? Sono stata fuori due volte, e non ho trovato niente, e sto ammazzando il tempo in attesa del viaggio buono. Perciò lavoro come assistente istruttore.
– E come si fa a capire qual è il viaggio buono? – chiese la Forehand.
Conclusione: sconsigliato
Contro:
- Ciascun elemento, anche superfluo, del worldbuilding viene sviscerato in maniera prolissa.
- Infodumping su infodumping. Spiegoni su spiegoni.
- Narrazione già lenta rallentata ulteriormente dall’alternanza tra i capitoli.
- Trama rarefatta e low concept. Succede poco e niente.
- Molti degli incontri con Sigfrid risultano del tutto inutili ai fini della trama.
- Robinette Broadhead è un pessimo protagonista: passivo, insipido, privo di capacità, querulo, infame, troppo indolente per essere malvagio.
- Le premesse vengono disattese, e l’avventura fantascientifica diventa un character study da quattro soldi.
- Climax a dir poco deludente.
- Inserti ripetitivi e prevedibili a lungo andare.
- Descrizioni scarse o assenti. Si riesce a immaginare poco o nulla.
Pro:
- Concept stuzzicante e ricco di potenzialità.
- Worldbuilding eccezionale per ricchezza, verosimiglianza e tematiche.
- Elementi fantascientifici realistici e approfonditi, tanto da sfiorare la hard sci-fi.
- Humour azzeccato, anche se un po’ insistente.
- Inserti simpatici e interessanti, all’inizio.
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4 risposte
Non ho ancora letto il libro, non so neanche se lo leggerò, ma ho trovato molto interessante ed azzeccata la tua recensione perché mi ha fatto riflettere su questo autore di cui in passato (molti ma molti anni fa) ho letto parecchio: sopratutto i romanzi scritti in collaborazione con Kornbluth. La tematica di Pohl era fondamentalmente sempre la stessa: la critica ad aspetti della società americana capitalista, aspetti che estremizzava nelle società distopiche del futuro che andava descrivendo. A volte avevo l’impressione che il vero protagonista delle sue storie era proprio la società che andava dipingendo, e che il protagonista umano e la storia in se fossero un aspetto secondario. Ed infatti, da quello che scrivi, per esempio, quando parli di “Worldbuilding eccezionale per ricchezza, verosimiglianza e tematiche” o quando scrivi del protagonista “Non c’è un preciso motivo perché lui sia lì, né ci sarebbe motivo di leggere di lui in particolare” mi fai capire che anche in questo romanzo Pohl non smentisca se stesso. Tuttavia devo dire che le sue ricostruzioni di ambiente erano effettivamente spettacolari e che facevano riflettere su alcuni aspetti della società attuale che forse non dovremmo per acquiescenza dichiarare come inevitabili o comunque dare per ammissibili o tollerabili. Già solo per questo, il più delle volte, vale la pena leggerlo.
Ciao Andrea, la penso anch’io così. Gateway, però, non mi ha fatto riflettere particolarmente, a differenza di altri romanzi di fantascienza ricchi di difetti. Una cosa interessante su cui riflettere, secondo me, è proprio il rapporto tra pena e riflessione. Tutti i libri hanno qualcosa da dire, ma raramente vale la pena di ascoltare… o perché la materia di riflessione in sé è, tutto sommato, banale, o perché il rapporto di forze pende decisamente in favore della pena. Ecco come definirei Gateway: una pena non indifferente per uno spunto indifferente.
Lasciatelo dire. Non ci hai capito niente o quasi di un romanzo che è un mezzo capolavoro. Non starò qui a spiegartelo perché sarei prolisso ed è chiaro che odi la prolissità. Sarò conciso: I motivi per cui lo hai disprezzato sono in realtà i motivi per cui è un grande romanzo
Ok… Secondo lei è uno schifo di libro. Ergo, le giurie che li hanno assegnato tutti i più prestigiosi premi del genere sono degli ignoranti…