Punto di Vista e Focalizzazione
Il punto di vista, detto anche POV (Point of view) o PDV, è un elemento fondamentale di ogni testo narrativo. Dalla gestione del punto di vista si può facilmente distinguere un neofita da un autore navigato. Gli errori di POV, infatti, sono tra i più comuni nelle opere degli esordienti.
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Ma cos’è, di preciso, il punto di vista? Si tratta della prospettiva che assume la voce narrante rispetto alla storia. In altre parole, il punto di vista è la posizione dalla quale osserviamo lo svolgersi degli eventi. Esempio:
Dovrei mettere in chiaro, credo, che non ho l’abitudine di indossare di nascosto oggetti infestati. Di certo non ho altri manufatti sinistri ficcati nei calzini, come insinuò George. La collana è stata una strana eccezione.
L’avevo vista il pomeriggio precedente mentre ci preparavamo per il lavoro al salice piangente. George l’aveva messa sullo scaffale dei trofei insieme a tutte le altre curiosità. Se ne stava semplicemente là nel suo piccolo scrigno protettivo, a luccicare fioca sotto il vetro. E invece di lasciarla lì, come avrebbe fatto qualunque altra persona, avevo raccolto la scatoletta, me l’ero appesa al collo e me n’ero andata come se niente fosse.
Il suddetto brano, tratto da La Scala Urlante di Jonathan Stroud, è narrato in prima persona (come si può notare dalla coniugazione dei verbi). La voce narrante è posta all’interno della storia ed è attraverso il personaggio stesso che quest’ultima viene disvelata.
Quando il racconto, come nel caso di poc’anzi, si modella sul punto di vista di uno o più personaggi (e vi è, pertanto, una restrizione del campo visuale-informativo), abbiamo un testo focalizzato. Quando le informazioni non sono filtrate e promanano dal narratore senza limitazioni di sorta, abbiamo un testo non focalizzato.
Quest’ultima occorrenza è anche detta focalizzazione zero e contraddistingue le opere con un narratore onnisciente, che approfondiremo tra poco. La focalizzazione si suddivide, a sua volta, in focalizzazione esterna e interna, in base alla profondità del filtro narrativo.

Se il narratore è calato nel racconto ma ne è un semplice testimone esterno, abbiamo la focalizzazione esterna. Questa è tipica di alcuni romanzi gialli o d’avventura e si attua col punto di vista in terza persona oggettiva, detto cinematografico. Ma ne parleremo in seguito.
La focalizzazione interna è, invece, quella dell’esempio di prima. Il narratore assume il punto di vista di un personaggio e i fatti sono filtrati dalla mente di quest’ultimo. È frequente negli scritti autobiografici, nei romanzi espistolari e nei diari sotto forma di prima persona, nonché nei romanzi di genere che fanno uso del punto di vista in terza persona limitata.
Ma analizziamo i vari casi, a partire da…
Il Punto di Vista (o Narratore) Onnisciente
Nella battaglia giganteggiavano due figure imponenti, difficili da distinguere. L’ascia di Valgard e la spada di Skafloc aprivano varchi sanguinosi tra le file serrate e vacillanti dei guerrieri. Il berserker schiumava dalla furia che l’aveva preso, urlava e colpiva. Skafloc non emetteva altri suoni che un respiro ansimante, ma era poco meno frenetico.
I troll avevano circondato gli elfi da ogni lato, e in quelle condizioni, in cui l’agilità e la sveltezza contavano poco, la forza dei troll s’impose. A Skafloc sembrava che, per ogni faccia sogghignante caduta davanti a lui, altre due si levassero dalla neve che fumigava per il calore del sangue. Doveva restare dov’era, mentre il sudore gli si congelava addosso in rivoli, e stringere il suo nuovo scudo, e combattere all’infinito.
Questo brano, tratto da La Spada Spezzata di Poul Anderson, è caratterizzato da un POV onnisciente, o a focalizzazione zero. Perché onnisciente? Perché la voce narrante sa tutto di tutti, può muoversi a piacimento dentro e fuori i personaggi e raccontare la vicenda a modo suo.
La narrazione è in terza persona e il narratore può restare neutrale rispetto ai fatti o giudicarli. Nella prima evienienza abbiamo, secondo il linguista Norman Friedman, l’onniscienza neutra (narratore oggettivo); nel secondo, l’onniscienza editoriale (narratore invadente).
Giudizi, commenti o interpretazioni da parte del narratore sono tipici di una certa narrativa del passato. È come se la voce narrante fosse un personaggio invisibile, il più delle volte combaciante con la personalità dell’autore.
Che sia neutrale o editoriale, il narratore onnisciente somiglia a un Dio che narra dall’alto lo svolgersi degli eventi e dei conflitti interiori dei personaggi. Esso contraddistingue la maggior parte della produzione letteraria della storia, sebbene oggi sia meno abusato.
Si tende a preferire, infatti, l’uso della terza persona limitata nei romanzi contemporanei rispetto al punto di vista onnisciente, che molti considerano sorpassato. Non c’è dubbio, però, che esso presenti dei benefici specifici al suo utilizzo.

Il narratore onnisciente viene impiegato per le storie ad ampio respiro, per le opere corali o didascaliche e per le trame più complesse. La possibilità di raccontare tutto ciò che si desidera senza essere legati a un personaggio è un vantaggio notevole per questo genere di opere.
Il punto di vista onnisciente può essere gestito in vari modi. Potete, come voce narrante, seguire un personaggio più degli altri e decidere di distaccarvi solo in certi momenti. Potete veleggiare liberamente da un posto all’altro, omettere informazioni e così via.
Ciò detto, il narratore onnisciente è quello che si presta meno all’artificio dell’unreliable narrator, cioè del narratore inaffidabile o inattendibile. Tale definizione fu data, per la prima volta, da Wayne C. Booth nel suo Retorica della Narrativa e identifica quei narratori la cui credibilità sia stata seriamente compromessa.
Tale tecnica è tipica dei testi narrativi in prima persona, sebbene sia possibile utilizzarla anche con la terza persona intima. Il narratore onnisciente, dal canto suo, può alterare il racconto, ma solo a patto di assumere i connotati di un personaggio vero e proprio.
Un narratore invadente può essere, dunque, un narratore inaffidabile, ma trattandosi dell’autore stesso è… sconsigliato che menta deliberatamente al lettore. Il rischio è che quest’ultimo venga alienato e confuso dal testo, più che intrigato, e che la credibilità della storia ne risulti irrimediabilmente compromessa.
Un’interessante eccezione risiede nella narrazione in prima persona onnisciente. Sì: parlo di un punto di vista presente nella storia che sa e osserva ogni cosa, inclusi i sentimenti degli altri personaggi. È una modalità di narrazione rara, ma possibile e già applicata in vari romanzi.
Il personaggio POV in questione potrebbe essere la Morte, Satana o, semplicemente, una persona morta che vede tutto dall’aldilà.
Tornando a noi, esempi classici di punto di vista onnisciente sono: I Promessi Sposi, di Alessandro Manzoni; Orgoglio e Pregiudizio, di Jane Austen; Il Signore delle Mosche, di William Golding; Anna Karenina, di Leo Tolstoy; Il Signore degli Anelli, di J. R. R. Tolkien; La Lettera Scarlatta, di Nathaniel Hawthorne; Straniero in Terra Straniera, di Robert A. Heinlein; Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley e tantissimi altri.
Scrivere in Terza Persona (Limitata)

I convitati sollevarono i calici colmi di vino. Mida accennò con la testa e si recò a capotavola. «Vi ringrazio, miei sudditi».
Adrasto si alzò e gli passò il cesto della frutta. «Favorite, mio Re».
Mida afferrò una mela. «Mangiatela in onore mio, di Dioniso e Sileno!». La fece rotolare sulla tavola.
Calò il silenzio. Un mercante lidico si buttò per primo; i commensali seguirono a ruota e si lanciarono a pesce sulla mela d’oro.
Mida ghignò e corse per le scale delle stanze reali. Si fermò tra due gradini.
Avrebbe dovuto usare le posate, da allora in avanti.
(Brano tratto da Qui Giace Mida, racconto del sottoscritto che potete scaricare gratuitamente su Amazon et similia)
La terza persona limitata è chiamata in tal modo per distinguerla dalla terza persona onnisciente. I tempi verbali sono, quindi, in terza persona, ma la voce narrante segue un personaggio (detto personaggio POV) e narra ciò che accade intorno a lui.
Se fosse una telecamera, la terza persona limitata sarebbe attaccata alla spalla del personaggio, così da riprendere ciò che lo riguarda.
La focalizzazione può essere esterna (punto di vista cinematografico) o interna (terza persona intima).
In quest’ultimo caso la voce narrante riporta i pensieri del personaggio attraverso il discorso indiretto libero, come facenti parte della narrazione stessa. La telecamerina riesce, nella suddetta evenienza, a leggere il cervello dell’eroe (e solo dell’eroe) dalla sua spalla. È una tecnica efficace e di uso frequente oggigiorno.

Nel seguente esempio, tratto da Morire Dentro di Robert Silverberg, il protagonista tenta di leggere la mente della sua sorellina appena nata.
David allora la guardò con maggiore intensità, raddoppiando la sua concentrazione. Il sorriso della piccola si fece esitante, poi svanì. Le sopracciglia si aggrottarono. Aveva capito che la stava attaccando, o era solo preoccupata per la sua espressione? Forza… forza… la tua mente scivola verso di me…
Per un momento pensò davvero di poter riuscire nell’impresa. Ma poi lei gli lanciò un’occhiata gelida e malvagia, incredibilmente feroce – davvero terrificante, considerato che proveniva da una neonata – e David indietreggiò, spaventato, temendo un repentino contrattacco (…)
Quando fu grande abbastanza da poter intendere il concetto di odio, Jude comprese perfettamente quello che suo fratello provava per lei. E ricambiò il sentimento, rivelandosi assai più abile di lui in materia. Ah, se sapeva odiare. Era una vera esperta.
Tale profondità di filtro permette un alto grado di coinvolgimento e immedesimazione nel personaggio. Per questo motivo ritengo la terza persona intima superiore, nella stragrande maggioranza dei casi, alla terza persona onnisciente.
Del resto, non è un mistero che il mio modello di scrittura sia quello della narrativa immersiva.
Una delle ragioni per cui il punto di vista onnisciente è, a mio avviso, meno efficace risiede proprio nella fiacchezza dell’impatto emotivo prodotto nel lettore. Se non sentiamo le emozioni dell’eroe come nostre; se le sue vicissitudini non solleticano il nostro apparato sensoriale; se percepiamo ciò che gli succede dal di fuori… come pensate che sarà il risultato?
Per non parlare dell’unreliable narrator, a cui ho accennato nel paragrafo precedente. Attraverso l’uso della terza persona intima è possibile corrompere o distorcere la vicenda e trasformarla nella versione dei fatti del personaggio POV. Certo, siamo lontani dall’efficacia della prima persona, ma è un’alternativa valida nel caso in cui la prima non sia utilizzabile.
Detto questo, c’è un terzo modo di narrare in terza persona. Oltre al punto di vista onnisciente e a quello intimo, esiste il POV cinematografico.

«Farei meglio a prendere le valige e portarle dall’altra parte della stazione» disse l’uomo. La ragazza gli sorrise.
«Bene. Dopo torna e finiremo la birra».
Egli sollevò le due pesanti valige e, girando intorno alla stazione, le portò sui binari dall’altra parte. Guardò in fondo ai binari ma non poté scorgere il treno. Tornando indietro passò attraverso il bar dove la gente che aspettava stava bevendo. Bevve un Anis al bar e guardò la gente. Stavano tutti aspettando il treno tranquillamente. Uscì attraverso la tenda di bambù. Ella era seduta al tavolino e gli sorrise.
«Ti senti meglio?» chiese.
«Mi sento benissimo» rispose «tutto va bene per me. Mi sento benissimo».
(Da Colline come elefanti bianchi, di Ernest Hemingway)
Come si può notare, la telecamerina riprende il personaggio, ma i suoi pensieri e le sue emozioni le sono precluse. Ciò rende la terza persona oggettiva meno profonda di quella onnisciente (che si mette a curiosare nella testa dei personaggi) e del tutto simile a una sceneggiatura.
Non è un caso che sia detto punto di vista cinematografico: una simile impostazione si presta ai testi ricchi di azione e mistero, come i romanzi d’avventura e alcuni gialli. La voce narrante è assolutamente impersonale e si limita a riportare i fatti con freddezza, proprio come se stessimo guardando un film.
Certo, ciò annulla i vantaggi intriseci del medium in esame. Perché dovremmo leggere un libro, se ciò non offre nulla in più rispetto a un blu-ray? Anzi, è la pellicola a uscirne vincintrice, grazie alle superiori capacità d’intrattenimento. Audio e video battono l’immaginazione.
Se volessimo fare un paragone azzardato, pensiamo alle parole di Scott Flanders, il CEO di Playboy, in riferimento alla decisione di non pubblicare più foto di nudo sulla rivista: «You’re now one click away from every sex act imaginable for free. And so it’s just passe at this juncture».
In altri termini, le riviste hard non possono competere coi filmini.
Tornando all’argomento principale, la terza persona limitata è forse il punto di vista più comune nei romanzi contemporanei, intima o meno che sia. Del resto, ci sono infinite sfumature tra gli estremi. È possibile filtrare solo determinati pensieri in determinate circostanze per nasconderne altri, o annegare il lettore nei monologhi interiori del personaggio.
Quella della terza persona limitata è, insomma, una scelta sempre valida e versatile. Esempi sono: 1984, di George Orwell; la saga di Harry Potter, di J. K. Rowling; la trilogia La Prima Legge, di Joe Abercrombie; Io sono Leggenda, di Richard Matheson; Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, di George R. R. Martin; Per chi suona la campana, di Ernest Hemingway e tantissimi altri.
Scrivere in Prima Persona

Il pendolo a colonna rintocca e suona la sua vecchia melodia. Le tre. Mi giro i pollici, ho ancora il telefono in mano. Potrei chiamarla. Del resto, non ho nulla da fare. E poi potrei mangiarmi una pizza a portafoglio.
Vado nel retrobottega, al coperto da occhi indiscreti, e mi lascio cadere sulla sedia. Tiro fuori l’aglio e tutto l’occorrente dal baule. Chiamo. Non risponde, come al solito. Chiamo di nuovo; non mi eviterà anche stavolta.
(Stralcio tratto dal mio romanzo Cuore di Tufo. Qui tutte le info e il brano completo).
In questa modalità di narrazione i tempi verbali sono in prima persona (singolare) e la focalizzazione è, per forza di cose, interna. La narrazione in prima persona fa coincidere la voce narrante con il personaggio POV, consentendo al lettore di immedesimarsi appieno nel protagonista e di vivere personalmente le sue avventure.
In questo caso la tecnica dell’unrelieable narrator viene spontanea, in quanto il personaggio-narratore può facilmente essere in errore su qualcosa e convincere a sua volta il lettore del suo errore. Anzi, se volessimo prendere letteralmente la definizione di narratore inattendibile, ogni scritto in prima persona sarebbe da considerarsi tale.
Del resto, nessuno di noi ha la verità in tasca e ognuno vede le cose a modo suo. Basti pensare all’impiccagione di un serial killer: se narrassimo la vicenda dal suo punto di vista, senza nemmeno sapere, magari, quali mostruosità egli abbia compiuto, essa apparirebbe come un atto crudele; se, al contrario, narrassimo la storia con gli occhi di un testimone o di un parente delle vittime, beh… ci faremmo un’altra idea.
Un esempio classico? Pensate a L’assassino dentro di me di Jim Tomphson, da cui è stato tratto il sottovalutatissimo The Killer Inside Me (con l’ottimo Casey Affleck). O al film Rashomon di Akira Kurosawa, in cui coloro che hanno assistito alla morte del samurai raccontano versioni differenti dello stesso avvenimento. Eppure, nessuno di essi crede di mentire.

La suddetta occorrenza prende il nome di verità relativa, o effetto Rashomon. Per farla breve, le percezioni individuali filtrano la realtà a tal punto da modificarla. Ed ecco che ciascuno di noi vive gli stessi avvenimenti in modo diverso e, al contempo, autentico. Ed ecco che la narrazione in prima persona è sempre inattendibile e, ai fini della storia, reale.
Scrivere in prima persona è particolarmente difficile perché significa calarsi al 100% nell’eroe: pensare con la sua testa, guardare coi suoi occhi, parlare col suo registro e il suo bagaglio di conoscenze. Per questo motivo è facile, specie se si è alle prime armi, commettere incoerenze. Esempio:
Mi sfilo lo scaldacollo e spingo la porta a vetro del negozio. Giancarlo armeggia col registratore di cassa. Alza gli occhi, mi abbaglia con un sorriso a trentadue denti.
«Ma buongiorno!», urla. È tornato lo sfigato, pensa. Ma perché viene qui ogni santo giorno?
L’errore sta nel fatto che il personaggio POV, cioè la voce narrante, non può sapere cosa pensano gli altri personaggi. Voi riuscite a leggere nel pensiero?
Aprii l’armadio e m’infilai tra le camicie con un fruscio. Richiusi l’anta; buio totale, e un lieve profumo di lavanda.
Martino si precipitò nella stanza. Strizzò gli occhi e si guardò intorno. Lo sguardo cadde sulle macchie di sangue che avevo lasciato sul materasso.
Qui assistiamo a un altro tipo di errore, altrettanto comune. Il personaggio punto di vista si nasconde in un armadio, eppure vede perfettamente i gesti di Martino. È possibile che senta i passi, certo, ma niente di più.
Mando giù una forchettata di arrosto. Squisito, Elettra si è superata. Nel frattempo, lei approccia il portone di casa. Tira fuori le chiavi dalla borsa.
La narrazione in prima persona non vuole mai un cambio di luogo o un qualsiasi allontanamento dal personaggio POV; è come se uscissimo dal nostro corpo in un’esperienza extrasensoriale. Potrebbe essere accettabile solo in una simile, curiosa evenienza.
Ma vediamo un altro esempio. Siamo nella Roma antica.
Il padrone afferrò lo scudiscio. «Prendi, Nicia. Così imparerai la disciplina». Mi sferzò la schiena.
«Ahia! Ma sei matto?», gridai. «Hai mai pensato a una terapia di gestione della rabbia?».
Il padrone mi frustò di nuovo. «Silenzio, stupido schiavo!».
Iniziai a piangere. Proprio un padrone nevrotico mi doveva capitare!
Qui c’è un altro errore classico e terribilmente grave: il registro. Ai tempi dei Romani non esistevano concetti moderni come nevrosi, terapie per la gestione della rabbia o cose simili, né ci si esprimeva come nelle commedie americane.
Ancora:
«Tanti auguri Gigino!». Mamma mi prende in braccio. «Tre anni! Ti stai facendo grande».
Mi sfugge una risata amara. «Grazie. Spero di crescere come si deve e di non commettere i vostri errori».
Mamma mi rimette giù. Il suo caldo abbraccio mi viene subito a mancare, e si tramuta in gelida nostalgia.
Può mai un bambino di tre anni parlare o pensare in questi termini? Scusabile solo nel caso in cui ci trovassimo nel mondo di Un genio in pannolino, forse il peggior film della storia.
Mi rigirai il portatile tra le mani. Non avevo mai toccato un computer prima d’ora. Roba da sfigati.
Presi il cacciavite e aprii lo sportello inferiore. Estrassi la batteria e la scheda RAM. Sollevai la tastiera: ecco la ventola e il processore. Soffiai via la polvere dalla scheda video.
Bene, se quest’uomo non ha mai toccato un computer, come fa a saperlo aprire (cosa non scontata coi portatili) e a conoscere così bene i componenti? Impossibile. Incoerente. Dovete attenervi al personaggio. Fatelo e non sbaglierete.
Queste regole ed errori si applicano anche alla terza persona limitata con focalizzazione interna, il cui filtro non è “totalizzante” come nella prima ma è comunque connesso al personaggio e compromesso dal medesimo. Per quanto riguarda la terza onnisciente potete fare un po’ come vi pare, facendo parlare l’autore al posto dei personaggi, giustificando le incoerenze o spiegandole. Per esempio:
Il Neanderthal pensò che fosse ingiusto essere trattati così, solo perché era diverso da loro. Un razzismo ante-litteram si perpetrava nell’Europa paleolitica.
È l’autore che parla, quindi non ci sono problemi (a patto che un narratore invadente sia ancora considerato accettabile!). Non c’è bisogno che vi dica di non attribuire le succitate frasi, o pensieri, ai personaggi. In tal caso, l’incoerenza rimane.
A proposito di strafalcioni, ricordate che la prima persona al passato è inutilizzabile se il personaggio POV muore in un qualsiasi punto della storia (se è morto, non può narrare). L’alternativa è impiegarla e interrompere il romanzo, lasciando il seguito all’immaginazione dei lettori.
Questo è il caso di Memorie di Dirk Raspe del grande Pierre Drieu La Rochelle. Purtroppo, però, la scelta non fu dettata da motivi stilistici, ma dal suicidio dell’autore.
Detto ciò, esistono delle varianti a questa forma standard di narrazione in prima persona. È possibile che la focalizzazione sia esterna, piuttosto che interna. Sto parlando del cosiddetto punto di vista testimoniale, in cui il personaggio POV si limita a esporre i fatti senza esprimersi in merito.
È una scelta interessante, perché mantiene la prospettiva personale del narratore (che racconta la vicenda) senza entrare direttamente nel suo corpo.
Un’altra possibilità è l’uso della prima persona plurale. Se il personaggio POV è parte di un gruppo affiatato, sarà inevitabile scrivere alcuni (o numerosi) paragrafi in cui è il “noi” a svolgere le azioni. Da qui a realizzare un intero romanzo con queste premesse, però, ce ne passa.
Qui sconfiniamo nella pura teoria, ma una storia in prima persona plurale sarebbe attuabile con un narratore dotato di una mente collettiva, come quelle razze aliene tanto amate da certa fantascienza anti-sovietica (gli aracnoidi di Fanteria dello Spazio di Heinlein sono un esempio).
Esempi di opere in prima persona sono: Il Grande Gatsby, di F. Scott Fitzgerald; The Hunger Games, di Suzanne Collins; Le Avventure di Huckleberry Finn, di Mark Twain; le varie storie di Sherlock Holmes, di Arthur Conan Doyle; Il giovane Holden, di J. D. Salinger; Memorie dal Sottosuolo di Fëdor Dostoevskij e tantissimi altri.
Scrivere in Seconda Persona

(…) Ora sei in autobus, in piedi, tra la gente, appeso per un braccio a una maniglia, e cominci a svolgere il pacchetto con la mano libera, con gesti un po’ da scimmia, una scimmia che vuole sbucciare una banana e nello stesso tempo tenersi aggrappata al ramo. Guarda che stai dando gomitate ai vicini; chiedi scusa, almeno.
O forse il libraio non ha impacchettato il volume; te l’ha dato in un sacchetto. Questo semplifica le cose. Sei al volante della tua macchina, fermo a un semaforo, tiri fuori il libro dal sacchetto, strappi l’involucro trasparente, ti metti a leggere le prime righe. Ti piove addosso una tempesta di strombettii; c’è il verde; stai ostruendo il traffico.
Da Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino.
Scrivere in seconda persona è una scelta… curiosa. Autori creativi sapranno certamente sfruttarla in modo originali, ma non è di utilizzo frequente (e nemmeno sporadico, a quanto ne so).
Come si può intuire, una narrazione in seconda persona prevede l’uso del “tu“. Il punto di vista assunto dalla voce narrante è, paradossalmente, quello del lettore, a meno che il “tu” in questione non sia riferito a una persona specifica ed esterna alla storia.
Attenzione: non fate come me e non confondete il punto di vista in seconda persona coi narratori che si rivolgono al lettore. Lettere, diari e blog si riferiscono spesso a chi legge, ma restano narrazioni in prima persona. È il caso di questo blog: il punto di vista è il mio, sebbene vi tiri spesso in ballo.
Un esempio celebre di narrazione in prima persona che parla ai lettori è il capolavoro Flatlandia di Abbott. Sebbene sia assimilabile al genere fantascientifico, esso prende la forma di un saggio divulgativo, trattandosi di un diario atto a educare i fruitori su Flatlandia.
Tornando alla seconda persona, il lettore stesso diventa l’eroe della vicenda. Ciò genera un forte senso di partecipazione e interattività, come se stessimo giocando a un videogioco. Per questo, l’impiego della seconda persona è più frequente nei librogame, nei giochi di ruolo e nei giochi narrativi. Senza dimenticare testi pubblicitari, discorsi e canzoni!
Esempi di opere letterarie in seconda persona sono: Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino; Le mille luci di New York, di Jay McInerney; Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente, di Mohsin Hamid; La Quinta Stagione, di N. K. Jemisin (solo determinati capitoli); Il Circo della Notte, di Erin Morgenstern (idem come sopra) e altri.
Il Tempo della Narrazione: Passato, Presente o Futuro?
Il tempo della narrazione incide profondamente sulla resa del punto di vista. Esso va scelto con cura, in base alle nostre attitudini e a ciò che richiede il testo. Le opzioni sono, ovviamente, Passato, Presente e Futuro; quest’ultimo raramente impiegato, se non in stralci di testo o dialoghi.
Scrivere al Passato

Il Passato narra, per forza di cose, di ciò che è già avvenuto. L’artificio narrativo fa sì che, leggendo, ci sembri che gli eventi stiano accadendo, ma il senso di simultaneità è limitato dai tempi verbali. Di questi se ne usano per lo più due, al contrario della narrazione al Presente: il Passato Remoto e l’Imperfetto.
Il primo va preferito al secondo nella stragrande maggioranza dei periodi, poiché esprime la compiutezza delle azioni. “Camminai”, “afferrai”, “bevvi”…
L’Imperfetto si adopera, invece, per alcune (statiche) descrizioni.
Il Passato risulta meno concitato e più meditativo rispetto al Presente. Si presta ai monologhi interiori, ai pensieri dei personaggi e all’auto-psicanalisi (ma senza esagerare, o distruggerete il ritmo e la scena che avete costruito!).
Rallentare un’azione in svolgimento per descrivere riflessioni, emozioni e quant’altro è più semplice e naturale se l’azione in questione non sta accadendo in quel preciso istante. Dunque, il Passato consente una certa libertà d’azione, nonché un’introspezione maggiore rispetto al Presente.
Credo che il Passato dia davvero il meglio coi diari. Un diario al Presente, invece, somiglia a un articolo o a un saggio. È ottimo per spiegare ma non per raccontare ed emozionare.
Scrivere al Presente
Il Presente è il tempo simultaneo. Il lettore vive i fatti insieme al personaggio punto di vista nella narrazione qui-e-ora e scena-per-scena.
L’uso del Presente è cresciuto esponenzialmente, nel tempo. Non so dire se ora sia più popolare del Passato; probabilmente no, ma si avvicina.
Se il Passato implica una testimonianza in forma orale o scritta da parte della voce narrante (che sta, per l’appunto, raccontando di un fatto già avvenuto), il Presente finge che non ci sia alcuna narrazione. Il personaggio POV, infatti, non potrebbe mai raccontare tutto ciò che gli accade mentre gli accade. E a chi, poi?
In altri termini, il punto di vista al Presente è un imbroglio. La sospensione dell’incredulità richiesta al lettore, specialmente se non è abituato a questa modalità di narrazione, è senza dubbio maggiore rispetto all’uso del Passato. Tuttavia, se l’opera è scritta bene, il lettore si abituerà allo sviluppo in fieri della storia.
È una finzione, come ho detto, ma funziona. Del resto, quando vediamo un film non pensiamo che sia stato girato precedentemente ma, al contrario, ci godiamo il flusso di eventi come se accadessero in simultanea. Ed è così, infatti, perché li stiamo vedendo. Non ricordando o immaginando.
Il Presente risulta, dunque, più immediato e coinvolgente rispetto al Passato. Non c’è dubbio che abbia un valore retorico maggiore e che sia la scelta più immersiva. La linearità in cui si snodano gli eventi si riflette anche nella prosa, che richiede un numero di gran lunga minore di tempi verbali.
Di contro, il Presente è senz’altro più difficile da impiegare. Il tempo stesso non si può alterare, manipolare o indicare; il flusso di eventi deve essere continuo e ben concepito eccetera. C’è meno margine di errore, insomma, e la narrazione richiede di mostrare anziché raccontare.
Scrivere al Futuro
Esistono opere letterarie scritte interamente (o in larga parte) al Futuro? Bella domanda. Sembrerebbe impossibile, giacché non si possono raccontare per filo e per segno vicende che non sono ancora accadute.
Ebbene, facendo una ricerca ho scoperto che sì, esistono testi narrativi scritti al Futuro. Sono ancora più rari di quelli scritti in seconda persona, ma esistono. Paradossalmente, poi, il Futuro e la seconda persona vanno a braccetto. Sembra di leggere una profezia in forma di romanzo.
Tra gli esempi troviamo: Aura, di Carlos Fuentes; Sorrisi a Washington Square: una strana storia d’amore, di Raymond Federman; Amalgamemnon, di Christine Brooke-Rose (solo in inglese) e altri.
Cambiare il Punto di Vista
Nello stupendo Pan, Knut Hamsun racconta del tenente Glahn usando la prima persona. Il romanzo termina, però, con un necessario cambio di POV (sempre in prima).
I cambi di punto di vista sono sconsigliati, se non in pochi casi. Cambiare punto di vista significa cambiare la prospettiva da cui si guardano e raccontano i fatti, cioè la stessa voce narrante.
Siccome l’intento del romanzo è quello di far immedesimare il lettore nel personaggio e fargli vivere le sue avventure e i suoi travagli, cambiare POV significa andare in controtendenza rispetto agli scopi della narrativa stessa. Soprattutto se il cambio riguarda la prima persona.
Se il punto di vista in prima persona “migra” da un personaggio all’altro, il lettore viene estratto con la forza dal suo eroe e costretto a entrare nel corpo di un altro. Operazione rischiosa, difficile, spesso controproducente. Inoltre, sarà l’autore stesso a doversi abituare a un nuovo punto di vista: i pensieri cambieranno, il registro cambierà, i dettagli notati dal nuovo POV e le sue azioni dovranno necessariamente rispecchiarlo.
Tale shift implica l’interruzione dell’Arco di trasformazione del personaggio, l’innesco di una nuova crescita, un nuovo subplot ecc. relativi al nuovo punto di vista.
Non è per niente semplice, né per l’autore né per il lettore. Lo stesso dicasi di una migrazione dalla prima alla terza (a dir poco estraniante); dalla terza alla prima (più comprensibile ma ostica per il lettore); dal Presente al Passato (è più corretto usare i flashback) o viceversa (idem: meglio partire al Presente e usare i flashback nella maggior parte dei casi).
Si tratta di un errore comune tra i neofiti, gli autori che non hanno le idee chiare o quelli davvero ignoranti. Ma non è detto che sia una mossa sbagliata a prescindere: come in ogni scelta, deve esserci un motivo valido e ponderato.
Vediamo insieme un esempio per chiarirci le idee.
Un uso classico del cambio di punto di vista è l’alternanza tra i capitoli. Ciascun capitolo presenta un personaggio POV differente, tipicamente in prima persona ma anche in terza limitata. Per evitare di confondere il lettore, molti autori nominano i capitoli in base al personaggio seguito dal punto di vista. Per es. il capitolo in cui Marco è la voce narrante s’intitolerà Marco e così via.
È ciò che fa George R. R. Martin nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco, o Robert Silverberg ne Il Libro dei Teschi (anche chiamato Vacanze nel Deserto). Non è cosa facile: se il primo pecca di vari errori di POV, nonostante sia scritto in terza persona, le voci del secondo non sono sufficientemente caratterizzate (e qui siamo in prima).

L’uso di POV multipli è un rischio. La narrazione potrebbe risultare frammentaria, dispersiva e fuorviante per il lettore. Può essere funzionale, se la storia lo richiede, ma chiedetevi se ce ne sia davvero bisogno. Inoltre, non è necessario avere venti personaggi POV. È importante cercare di ridurne il numero, ove possibile.
Una versione niente male di quest’alternanza è il cosiddetto dual POV, molto utilizzato nei romanzi rosa. Si tratta, come si può intuire, di un doppio POV, tipicamente di un uomo e una donna che hanno (o avranno) una storia d’amore. È una scelta più semplice ed efficace, a mio avviso, rispetto a quella di poc’anzi.
Qualunque cosa decidiate di fare, ricordate di non cambiare mai il punto di vista durante un capitolo. Mai. Allora sì che, con tutta la buona volontà, il lettore rimarrà interdetto!
Tornando a noi, ci sono altri motivi per cui potrebbe essere opportuno operare un cambio di punto di vista. Quando il vostro eroe muore, per esempio.
Non è una grande idea avere un personaggio POV che muore, soprattutto se il fattaccio accade molto avanti nel testo. Tuttavia, ciò può creare colpi di scena interessanti e spiazzare il lettore. Se c’è un co-protagonista che condivide gli obiettivi del POV defunto, è una buona idea fargli “ereditare” il punto di vista che avete appena perso.
L’ho sperimentato personalmente e l’idea funziona bene, ammesso che ci siano le basi. Parliamo, nel mio caso, di un co-protagonista ampiamente sviscerato, con lo stesso plot e un subplot collegato a quello del POV defunto.
Altra occasione per cambiare punto di vista, seppur brevemente, potrebbe essere un prologo o un’appendice di poche pagine. È un’idea efficace per innescare un incidente scatenante precedente al resto della storia, o per mostrare la risoluzione dopo il climax.
Entrambe le trovate funzionano alla grande; le ho provate personalmente. Che sia nel prologo o alla fine, il punto di vista “temporaneo” deve, però, legarsi al personaggio POV che lo seguirà (o che lo precede).
La scelta che preferisco è il cambio di punto di vista nella risoluzione. Sappiamo che si tratta del momento “posteriore” alla storia, se vogliamo, ovvero della dimostrazione ultima della premessa narrativa. Nella risoluzione vediamo gli esiti dell’arco di trasformazione del personaggio o, riallacciandoci al Monomito, gli effetti dell’elisir con cui l’eroe è tornato al mondo.
Di questo e altro parlo nei miei articoli su come Scrivere una Storia!
Quale modo migliore per verificare tali risultati se non attraverso un cambio di punto di vista? Per esempio, se la trasformazione dell’eroe doveva smuovere la coscienza della figlia caduta in depressione, nella risoluzione possiamo assumere il POV della figlia e mostrare come ella sia tornata a sorridere.
Non stiamo interrompendo nulla, perché la storia del Nostro è già terminata. Anzi, la stiamo rendendo immortale, perché vediamo il modo in cui egli ha plasmato la realtà circostante. Inoltre, non è forse vero che i personaggi aiutano a far emergere i vari tratti del protagonista? Questo sarebbe, in tal senso, il parto finale.
E voi che ne pensate? Quale punto di vista preferite e quale tempo della narrazione? Vi capita di uscire dal POV e di commettere errori?
Se avete apprezzato l’articolo, non dimenticate di leggere gli altri della rubrica Tecniche Narrative!
10 risposte
Per quanto mi riguarda, preferisco il POV in prima persona e magari piccole parti in cui la voce narrante appunto si limita a raccontare i pensieri del personaggio. Se il POV è in prima persona, mi affeziono molto più facilmente al personaggio. Non mi piace affatto invece il POV onnisciente, è orribile leggere un libro che non si focalizza su un personaggio, ma che è presente dappertutto e che sa tutto. Poi se il protagonista, che è in prima persona, ti racconta cosa gli sta succedendo, immedesimandoti ti riesce più facile immaginare le scene che stai leggendo. Ottimo articolo come sempre. 🙂
Segnalo un errore nel riferimento a La coscienza di Zeno (Svevo). Meglio correggere così da non rischiare di screditare l’accurata trattazione.
Ciao Fede, grazie mille per la segnalazione! Ho corretto subito. L’articolo è vecchiotto; credo proprio che lo rivedrò e aggiornerò a breve.
Anche io ho notato una stranezza nel riferimento alla Coscienza di Zeno, romanzo scritto in prima persona e autodiegetico.
Ciao Anny, quale stranezza hai riscontrato?
Complimenti per questo articolo, mi è stato di grande aiuto. Grazie per averlo condiviso.
Se posso vorrei porti un quesito riguardo ai punti di vista. Ho sviluppato una trama iniziale con cinque punti di vista ( decisamente troppi ). Sono riuscita a ridurre a due, ma in due capitoli ho l’esigenza di uscire dal pov alternato. Sono flashback del passato di altri personaggi, una sorta di racconto della verità, del tutto imprescindibili.
Entrambi i capitoli dovrebbero avere un forte impatto come un momento di rivelazione e forte interesse per il lettore, ma come da come ho capito non è cosa buona avere troppi pov. Come potrei inserire questi capitoli?
Ciao Anna, grazie, sono felice di esserti stato d’aiuto!
Avevi cinque POV e sei riuscita a scendere a due… significa che quei cinque non erano necessari. Sei assolutamente sicura che quei flashback di personaggi non-POV siano imprescindibili per la storia? E che non ci sia un modo diverso di trasmettere le informazioni contenute in essi? Inoltre, non ho capito se i due POV alternati sono in prima o terza persona. Se mi chiarisci un po’ le cose potrei provare ad aiutarti
Bello il tuo contributo. Complimenti!
Grazie mille, Alexandru, e benvenuto nel blog!
Io credo solamente che ci siano libri scritti bene e scritti male. L’opinione del narratore onnisciente che risulterebbe obsoleta e meno coinvolgente non mi trova d’accordo. Nei romanzi contemporanei si fa largo uso del narratore esterno onnisciente e non mi sembra che la narrazione ne soffra se l’autore sa ciò che fa.
Tutto sta a come si vuole raccontare una storia, che ci sia una storia avvincente, che i personaggi siano interessanti, ben sviluppati e che i loro pensieri e azioni prendano il lettore, che ci sia o no un narratore onnisciente, esterno o interno, che sia in prima persona o altro.
Se l’autore sceglie di essere un narratore onnisciente esterno vuol dire che per lui quella storia va raccontata così e, se il libro è scritto bene, il lettore sarà ugualmente coinvolto da ciò che legge. In più la libertà di azione del narratore onnisciente nel descriverci ambienti, sentimenti, situazioni è totale e lì starà l’abilità di presentare una storia che funzioni, che faccia riflettere il lettore o che lo faccia rilassare, che lo faccia ridere o piangere, che lo indigni o lo faccia riconoscere in un personaggio o in una situazione.
A me, così come a molti lettori, è assolutamente indifferente la scelta della prima persona o la terza persona e non credo sia così importante ai fini del romanzo. Un romanzo è un romanzo, un film è un film, un videogioco è un videogioco, un fumetto è un fumetto. Possono esserci linguaggi che riescano a comprendere tutti questi mondi diversi e a farli comunicare, ma dipende sempre dalla storia che l’autore vuole raccontare. Si possono fare anche mix riusciti di romanzi picareschi, epistolari, storici, sentimentali, polizieschi, fantascientifici, surreali, saggi, magari usando anche i linguaggi specifici e creare dei capolavori, ma siamo sempre lì, è la storia che si vuole raccontare e come la si racconta ad essere importante. Umberto Eco era un maestro nell’usare piani diversi, per esempio. Se un autore scrive qualcosa che può non interessare un certo tipo di lettore che magari è abituato solo al linguaggio dei videogiochi o dei social, amen. Mica si può piacere a tutti. Per esempio, il romanzo vincitore del Campiello 2022, i miei stupidi intenti, è un libro scritto malissimo e con una lingua insipida, secca, direi una regressione idiomatica, ed è scritto in prima persona. A parte la storia assolutamente non interessante, almeno per me. Sono arrivato fino in fondo proprio cercando di capire per cosa fosse stato premiato. Tempo buttato via.