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Recensione: Il Castello di Lord Valentine, di Robert Silverberg

Il Castello di Lord Valentine è il primo romanzo ambientato nel mondo di Majipoor, saga bestseller inventata dallo scrittore Robert Silverberg.
Il Castello di Lord Valentine
Cover art della prima edizione, a opera di Ron Walotsky

Indice

Il Castello di Lord ValentineIl Castello di Lord Valentine di
Genere: science fantasy
Editore: Harper & Row, Nord il
Pagine: 444
Punteggio: 2/5
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Descrizione:

Majipoor è un mondo gigantesco, colonizzato dai terrestri nei primi anni del viaggio interstellare. E' un pianeta vasto e diverso, povero di metalli ma ricco di città e popoli strani, umani e alieni. Molti miliardi di esseri intelligenti vivono su Majipoor: assieme agli umani, abbiamo la nativa razza dei Metamorfi, e le grosse creature dotate di quattro mani e note col nome di Skandar, e i piccoli maghi della razza Vroon, e tanti altri popoli ancora.
Per migliaia di anni Majipoor è stato governato in pace dal Pontifex, l'imperscrutabile imperatore che passa gran parte della sua vita immurato in un enorme labirinto sotterraneo nel continente di Alhanroel, e dal Coronal, il reggente esecutivo del reame, che ha dimora in un antichissimo castello situato sulla cima di Castle Mount, una montagna di altezza quasi inimmaginabile.
Ora però, per la prima volta nella storia del pianeta, il Coronal deve affrontare una misteriosa e terribile sfida, in una lotta per il potere che ha inizio in una piccola taverna di provincia, con la comparsa di uno strano personaggio di nome Valentine, un giovane vagabondo senza memoria. Estremamente amabile e di buona natura, Valentine, unitosi a un gruppo di giocolieri, girovagherà per le strade e le città di questo mondo meraviglioso, acquisendo a poco a poco coscienza del proprio perduto passato e, assieme a un gruppo sempre crescente di assidui seguaci, si avvierà verso quel magico destino di grandezza che lo attende in cima alla gigantesca montagna di Castle Mount.
Una grandiosa epica picaresca, un eccezionale romanzo di science fantasy che segna l'acclamato ritorno all'attività di uno dei massimi maestri della fantascienza.

Il Bestseller di Robert Silverberg

Il Castello di Lord Valentine (Lord Valentine’s Castle) è il primo romanzo ambientato nel mondo di Majipoor, un universo fantasy inventato dallo scrittore Robert Silverberg, e il primo libro della trilogia dedicata a Lord Valentine. Silverberg farà seguire, a quest’ultima, un’altra trilogia dedicata a Lord Prestimion, ambientata nello stesso mondo qualche tempo prima.

Il Castello di Lord Valentine fu pubblicato nel 1980, vinse il Locus Award del 1981 e fu candidato come miglior romanzo per il premio Hugo di quell’anno. Al titolo seguirono Cronache di Majipoor e, a chiusura della trilogia, Il Pontifex Valentine, tutti e tre pubblicati in Italia da Nord.

Ma Il Castello di Lord Valentine non fu solo un successo di critica. Parliamo di uno dei titoli più celebri e venduti dell’autore; il primo romanzo pubblicato dopo il suo ritorno sulle scene. Silverberg aveva annunciato pochi anni prima, infatti, il suo ritiro definitivo, e Shadrach nella Fornace doveva essere il suo ultimo capolavoro.

Per fortuna non fu così, e il comeback fu eccezionale. Il Castello di Lord Valentine fu il trionfo più grande della carriera dell’autore, commercialmente parlando. Un successo inaspettato, dunque, come inusuale era il genere trattato da Silverberg: un fantasy di scala epica, diverso dalla produzione compatta e psicologica a cui ci aveva abituati.

Tutt’oggi, il sito “quasi ufficiale” dell’autore è Majipoor.com, dove si può trovare una breve introduzione al mondo della storia. Qui si può leggere una breve nota di Silverberg, inserita nella prefazione a Revolt on Majipoor, relativa al suo stop precedente alla pubblicazione.

…one warm April afternoon in 1978 as I was wandering around alone near my swimming pool I heard the old familiar voice in my head whispering things to me, and suddenly a new book was there. I went into my office and scribbled this on the back of an envelope:

The scene is a giant planet-sized city — an urban Big Planet, population of billions, a grand gaudy romantic canvas. The city is divided into vast subcities, each with its own characteristic tone. The novel is joyous and huge — no sense of dystopia.

The book must be fun. Picaresque characters. Strange places – but all light, delightful, rafish…

Young man journeying to claim an inheritance that has been usurped. His own identity has been stolen and now he wears another body.

Il Castello di Lord Valentine e la saga di Majipoor si configurano, dunque, come dei romanzi eccezionali. Ma sarà davvero così?

Big American Planet

Il Castello di Lord Valentine è un romanzo difficile da analizzare. La trama, tuttavia, è semplice da riassumere ed è lineare come appare. Siamo lontani da narrazioni convolute o particolarmente ricche di sconvolgimenti, nonostante il genere offra, spesso, storie di questo tipo. A dire il vero, la quarta di copertina svela fin troppo dell’intreccio, di cui parleremo tra poco.

Ma non rende l’immensità di Majipoor.

Il pianeta colossale inventato da Silverberg dovrebbe ricordare l’India, per il nome che porta: tanti scenari diversi, razze diverse, culture esotiche… ma non è affatto la sensazione che mi ha dato. Nonostante sia stato colonizzato dagli umani oltre 14’000 anni or sono, Majipoor appare ancora, nella narrazione, come una landa selvaggia tutta da scoprire.

Miliardi di persone abitano città impressionanti quanto stravaganti, così distanti tra loro da richiedere pellegrinaggi di settimane, mesi, anni per spostarsi da un luogo all’altro. Nonostante la maggior parte del pianeta sia occupato dall’acqua, i tre continenti di Alhanroel, Zimroel e Suvrael offrono distese sconfinate, condite da foreste titaniche, fiumi impossibili da immaginare e così via, tutto in scala rispetto alla mole del pianeta.

Lord Valentine's Castle, Penguin Publishing, 2012
Lord Valentine’s Castle, Penguin Publishing, 2012

Il fatto che non ci si possa spostare in volo non aiuta. Gli abitanti di Majipoor, chiamati Majipoori, impiegano per lo più cavalcature di origine artificiale per muoversi da un luogo all’altro, o grandi imbarcazioni per attraversare i corsi d’acqua. Ne Il Castello di Lord Valentine tutto appare, dunque, ancora più vasto di quanto non sia, e Silverberg non fa altro che rimarcare tale sconfinatezza nella narrazione ancora e ancora.

Le ambientazioni esotiche ci sono, certo, ma sono più interessanti per la loro selvatichezza piuttosto che per gli elementi alieni presenti al loro interno. Majipoor è così grande che i centri urbani, nonché le campagne “addomesticate” dall’uomo, sono una netta minoranza rispetto alle terre di nessuno, in cui la natura ipertrofica del pianeta la fa da padrone.

Il Castello di Lord Valentine, Nord, 1982
Il Castello di Lord Valentine, Nord, 1982

I Majipoori sono lì da millenni e hanno istituito un governo mondiale, ormai consolidato dal tempo e dall’efficacia, in grado di mantenere la pace e la convivenza tra specie diverse. Sì, perché oltre agli umani tanti altri viaggiatori interstellari si sono stabiliti sul pianeta e, nel tempo, si sono integrati nel tessuto sociale. Parliamo, ad esempio, dei piccoli e tentacolari vroon, degli irsuti ed enormi skandar a quattro braccia, dei su-suheris a due teste e tanti altri.

È curioso non solo che le specie vivano pacificamente tra loro, ma che parlino la stessa lingua (almeno ufficialmente) e possiedano un’intelligenza molto simile a quella dell’uomo, con poche eccezioni (come i figli della foresta, che sono leggermente inferiori). Certo, ci sono leggi che limitano l’aggregazione tra individui della stessa specie e amenità simili, a cui nessuno nella vita reale acconsentirebbe mai, ma ciò non può spiegare, neanche con l’aiuto di millenni di convivenza, la forma mentis praticamente umana di esseri così diversi da noi.

È un concetto antropocentrico ingenuo, come ingenua risulta la società pacifica immaginata ne Il Castello di Lord Valentine. Un’impalcatura traballante che, però, assume solidità quando si parla di una specie in particolare, ovvero degli autoctoni di Majipoor: i metamorfi, o mutaforma, o piurivar (nella loro lingua).

Si tratta di creature molto particolari. Stravaganti ma umanoidi, nella loro forma originale, eppure in grado di cambiare aspetto a piacimento. La colonizzazione di Majipoor ha comportato, inevitabilmente, delle dispute con tale specie, fino al confinamento dell’intera popolazione piurivar durante l’era di Lord Stiamot. I mutaforma vivono, adesso, in una gigantesca riserva, una terra senza leggi (o meglio, le leggi degli uomini) in cui i piurivar mantengono la loro cultura tribale e continuano a vivere in villaggi sgarrupati.

El Castillo de Lord Valentine,  Ultramar, 1995
El Castillo de Lord Valentine, Ultramar, 1995

Gli altri popoli di Majipoor temono enormemente i mutaforma, a causa della cultura incomprensibile, chiusa, dedita ai sacrifici umani di stranieri, e alle portentose capacità camaleontiche di ogni singolo piurivar. Silverberg è stato bravissimo a descrivere i comportamenti e i costumi della specie, da un punto di vista etnografico. Siamo spaventati e incuriositi dai mutaforma in quei passi della narrazione e così dovrebbe essere una specie aliena. Diversa per davvero e non per finta.

Tutto ciò mi ha fatto capire una cosa. Ne Il Castello di Lord Valentine si sente l’influenza del Big Planet di Jack Vance, sì, ma si sente, soprattutto, la nazionalità americana di Silverberg.

Gli spazi sconfinati e selvaggi tra un centro e l’altro ricordano la geografia americana, come nell’epopea pioneristica La Lunga Terra di Terry Pratchett e Stephen Baxter. Nonostante siano passati 14’000 anni, l’identità coloniale è ancora più che presente nella società di Majipoor, sia a fronte della natura spaventosa che circonda gli abitati, sia nella retorica dei personaggi. Silverberg paragona, tante volte, Majipoor alla Vecchia Terra, come fosse ancora un nuovo mondo in contrasto con la Vecchia Europa.

La convivenza tra specie aliene ricorda più una società multietnica “ideale” (perché negli USA non esiste alcuna pace tra le diverse etnie se non nei film hollywoodiani). E non riesco a non vedere un forte parallelismo tra gli unici autoctoni del pianeta e gli autoctoni del continente: entrambi massacrati dagli invasori, entrambi rinchiusi in riserve, entrambi realmente diversi rispetto alla cultura dominante, per non parlare del legame con la natura, le abitazioni a dir poco rurali o, addirittura, fatiscenti e così via.

Lord Valentine's Castle, Spectra, 1984
Lord Valentine’s Castle, Spectra, 1984

Majipoor mi è sembrato, insomma, un gigantesco continente americano. Ciò detto, si tratta di un’ambientazione ben studiata e molto approfondita. Ogni luogo è stato pensato in accordo con la geografia globale del pianeta; gli elementi alieni sono per lo più credibili e abbastanza sfiziosi; ma soprattutto, gli scenari del romanzo sono pervasi da storia, costumi… sono vivi, come si conviene per del world-building di buon livello.

È chiaro che l’autore abbia lavorato tanto, a monte, e ciò che vediamo è la punta dell’iceberg, proprio come nell’omonima teoria di Hemingway. Il Castello di Lord Valentine, però, non è semplicemente fantasy, ma science fantasy, e questo gli dà quella spinta in grado di rendere un’ambientazione meno generica e maggiormente impressa nella memoria.

Lord Valentine kastélya, Metropolis Media, 2009
Lord Valentine kastélya, Metropolis Media, 2009

Per chi non lo sapesse, la science fantasy è un ibrido tra il fantasy e la fantascienza. In effetti, alcuni elementi descritti da Silverberg sono artificiali e a dir poco fantascientifici. La stessa colonizzazione umana di Majipoor ha un background fantascientifico. Il tutto si potrebbe riassumere così:

L’avanzatissima civiltà umana è sbarcata su Majipoor e, nei millenni, ha iniziato a dimenticare i suoi prodigi, la sua tecnologia, il modo di usare le ipertrofiche macchine e così via. Lo stesso destino è toccato alle specie aliene che risiedono su Majipoor da più tempo, nonostante in passato solcassero le stelle. Alcuni elementi apparentemente paranormali, infatti, non sono altro che il frutto di macchinari avveniristici, ormai considerati artefatti antichi dai Majipoori.

Tale impoverimento tecnologico è dovuto, in prima istanza, alla scarsità di metalli presenti sul pianeta. Dopo un primo periodo di grandi opere ingegneristiche, dunque, l’umanità si è progressivamente evoluta (o devoluta) in una società pastorale, dall’economia di stampo agricolo. Ne Il Castello di Lord Valentine vale, insomma, la terza legge di Clarke, secondo cui «Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia».

Il Castello di Lord Valentine: grosso guaio a Majipoor

Se, da un lato, il world-building de Il Castello di Lord Valentine mi ha convinto, non posso dire lo stesso di… tutto il resto. A cominciare dalla trama, che vede entrare il buon Valentine in una compagnia di giocolieri, per poi viaggiare insieme a loro finché qualcosa, in lui, non si ridesta. I maggiori stravolgimenti, per gran parte dell’avventura, sono interiori e riguardano proprio il risveglio di cui sopra.

Замъкът на лорд Валънтайн, Георги Бакалов, 1987
Замъкът на лорд Валънтайн, Георги Бакалов, 1987

Parallelamente allo svolgimento degli eventi, infatti, vi è una storyline onirica che si articola, per l’appunto, nel sonno. Un susseguirsi di episodi di importanza crescente che, a loro volta, influenzano la realtà della veglia e guidano il percorso dell’eroe. L’aspetto è conveniente, troppo conveniente a tratti, sebbene si sposi bene con un’ambientazione in cui il sogno è più reale che mai (a causa dell’Isola del Sonno e del Re dei Sogni).

Detto ciò, la trama avanza con estrema lentezza e mi sorprende che sia riuscito a leggere il romanzo con relativa disinvoltura, almeno fino a un certo punto. Non solo, però, l’intreccio si dipana col ritmo sbagliato, ma delude anche nella risoluzione: è tutto fin troppo scontato, facile e privo di reali sconvolgimenti. Zero colpi di scena, zero struggimenti, zero… tutto. Finale compreso.

Il Castello di Lord Valentine appare come un pretesto per guidare il lettore attraverso un tour di Majipoor.

È il tipico viaggio dei romanzi fantasy, utile a sviscerare l’ambientazione, introdurre la compagnia dell’eroe e innescare una crescita in quest’ultimo. Silverberg segue tutti i crismi, o gli stereotipi, del fantasy più pigro e si accontenta di un risultato privo di mordente, pur di raccontarci del suo amato pianeta.

La narrazione è un susseguirsi di luoghi ed eventi superflui, conditi di infodumping e pensieri improbabili. Il tutto, ancora, per compiacere il world-building. I personaggi stessi rinunciano a qualsiasi profondità e diventano dei pupazzi nelle mani dell’autore, che li usa alla bisogna e poi li getta via. Vi affezionerete a qualcuno, forse, all’inizio, per poi disamorarvi finanche del protagonista stesso: un “buono” e basta, più piatto di una sogliola e tanto, troppo fortunato.

Lord Valentine's Castle, Eos, 1995
Lord Valentine’s Castle, Eos, 1995

Il Castello di Lord Valentine è una collezione di errori da non commettere, un vademecum del cattivo fantasy a livello di trama e non solo. Silverberg ce la mette tutta per allontanare il lettore: una magia priva di un sistema magico, che funziona sì e no, a volte e non si sa come; interazioni surreali tra i personaggi, soprattutto dalla “rivelazione” della storia in poi («Mio signore!»); problemi enormi che scoppiano come bolle di sapone; deus-ex machina comicamente palesi e gettati un po’ ovunque

E vogliamo parlare dei nomi impronunciabili buttati qua e là centinaia di pagine prima di spiegarne il significato? L’autore inizia a citare ghayrog, liiman e quant’altro sin da subito, senza darci alcuna idea in proposito. È una technobabble che, se da un lato ha senso nel flusso del romanzo, rappresenta un grossolano strafalcione dal punto di vista tecnico.

Chiunque scriva fantasy, o narrativa in generale, sa che gli elementi inusuali vanno definiti quando vengono introdotti, o restano etichette prive di significato. Certo, non è una questione semplice da gestire e qualunque lettore sarebbe elastico in merito, ma battere cento volte su nomi inventati senza descriverli significa oltrepassare l’errore umano… è perseveranza diabolica.

E queste sono le basi della scrittura. Non riesco a immaginare come abbia fatto, l’autore, a progettare dei “cattivi” così poco efficaci, o un protagonista tanto ripetitivo nelle sue elucubrazioni. E dire che la storia non è l’unica a fare acqua da tutte le parti: lo stile, in certi casi, è anche peggio.

La strada per la città ghayrog di Dulorn li condusse a est, attraverso una rigogliosa e placida campagna verde e feconda sotto l’occhio del sole estivo. Come gran parte di Majipoor, era una regione densamente popolata, ma una pianificazione intelligente aveva creato ampie zone agricole bordate da città operose, e così per quel giorno il viaggio continuò, per un’ora tra le fattorie, per un’ora di città, un’ora di fattorie, un’ora di città. Lì, nel Rift di Dulorn, l’ampio bassopiano digradante a est di Falkynkip, il clima era particolarmente adatto all’agricoltura, perché all’estremità settentrionale il Rift era aperto agli acquazzoni polari che innaffiavano continuamente l’artico temperato di Majipoor, e il caldo subtropicale era addolcito dalle miti, prevedibili precipitazioni. La stagione delle colture durava tutto l’anno; quello era il periodo del raccolto dei dolci tuberi di stajja gialla, dai quali si ricavava un pane, e della semina di frutti come i niyk e i glein. (…)
Dovunque c’erano alberi-vescica, in tutte le fasi della crescita. I più giovani, non più alti di Deliamber o di Carabella, erano bizzarri cespuglietti sgraziati, dai grossi rami gonfi d’uno strano colore argenteo, protesi ad angoli incredibili dai tozzi tronchi carnosi. Ma negli alberi alti cinque o sei braccia, i tronchi avevano cominciato ad assottigliarsi e i rami a gonfiarsi; e in quelli ancora più vecchi, i tronchi erano appassiti, riducendosi a ruvide corde squamose che trattenevano al suolo le chiome levitanti. Aleggiavano lassù e ondeggiavano alle brezze più lievi, privi di foglie, turgide, con i rami gonfi come palloni. Il colore argenteo delle piante giovani diventava, nella maturità, brillante e traslucido, e gli alberi sembravano modelli di vetro, risplendenti nei raggi del sole. Persino Zalzan Kavol sembrava toccato dalla stranezza e dalla bellezza della scena.
(Il Castello di Lord Valentine, pag. 93-94)

Silverberg non ha mai scritto così male. Il Castello di Lord Valentine è farcito di avverbi e aggettivi di una vaghezza sconcertante. I dialoghi non riescono mai a risultare brillanti. Le descrizioni sono a dir poco fumose, generiche, inconcludenti. Barocche in certi casi, perfino, ma che rendono impossibile visualizzare il mondo escogitato dall’autore. Così tanto lavoro, e così tanti dettagli persi! Non sono neanche sicuro, a questo punto, che Silverberg avesse immaginato fino in fondo certi elementi, come la maggior parte delle specie aliene, delle città e tanto altro.

Majipoor 1: Le Chateau de Lord Valentin, fumetto de Il Castello di Lord Valentine
Majipoor 1: Le Chateau de Lord Valentin, versione a fumetti a cura di Olivier Jouvray e David Ratte

Non riesco davvero a capire come sia fatto un vroon, un liiman, uno hjort, un su-suheris ecc., né cosa indossino, come parlino, come si muovano. Forse, gli unici alieni che mi sono più chiari sono proprio i mutaforma. Gli altri personaggi? Non riesco a immaginarli. Il carrozzone della compagnia? Non riesco a immaginarlo. Le cavalcature? Pidruid? Le draghiere? L’Isola della Signora? Castel del Monte? Nisba.

È un vero peccato e, forse, il vero peccato originale de Il Castello di Lord Valentine. Nonostante tutto, per qualche oscura magia il romanzo mi ha coinvolto, mi ha spinto a voltare una pagina dopo l’altra, sebbene di Valentine e della compagnia non m’importasse più granché da un certo punto in poi. L’unica ragione che riesco a darmi riguarda Majipoor stesso, le sue profonde sfaccettature, la sua storia, gli scenari esotici, la curiosità che genera nel lettore.

Non aiuta di certo l’orribile, e dico orribile, edizione della Nord, l’unica disponibile in lingua italiana, poiché il romanzo non è più stato ripubblicato da noi (se non come tascabile pochi anni dopo). I refusi sono così tanti che a un certo punto ho smesso di farci caso e la traduzione è a dir poco pessima. Il romanzo andrebbe tradotto di nuovo, per goderselo come si deve. Consiglio, a questo punto, di leggerlo in lingua originale.

Conclusione: sconsigliato

Contro:

  • Trama lentissima e priva di mordente. Un tour di Majipoor.
  • Personaggi mossi coi fili dall’autore e messi subito da parte.
  • Elementi fantastici nominati ma non spiegati per tante, troppe pagine.
  • Deus-ex machina come se piovesse. Comicamente abbondanti.
  • Descrizioni vaghe, dettagli visuali assenti, caratterizzazione fisica di certi ambienti e personaggi appena accennata (e male, per giunta).
  • Troppi difetti per elencarli tutti.

Pro:

  • World-building approfondito e abbastanza originale. C’è tanto lavoro dietro a Majipoor e si vede: è un pianeta vivo, dinamico, interessante. Un ottimo posto in cui immergere la propria immaginazione.
  • Spunti science fantasy stimolanti.
  • Una magia incomprensibile che rende il libro piacevole da leggere, nonostante i millemila difetti.
  • Ottima la gestione e il dettaglio relativi alla giocoleria.

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4 risposte

  1. Ho finito da poco di leggere il libro e anche se ad un certo punto il libro ha iniziato ad annoiarmi l’ho comunque finito. La prima parte del libro mi è piaciuta, mi piaceva l’interazione inziale con gli altri personaggi, mi piacevano i particolari riguardo la giocoleria le ambientazioni ecc. Ma non ho apprezzato che il libro non lasciasse spazio all’immaginazione, era tutto fin troppo chiaro da subito, quello che sarebbe successo e come sarebbe successo. Insomma non ho fatto le mie congetture su quello che poteva succedere al protagonista, niente mordente tutto spiattellato cosi. La seconda parte del libro è stata quella più noiosa e inutile praticamente non aggiungeva nulla al romanzo. Praticamente il protagonista riusciva in qualsiasi momento o situazione a uscirne illeso, grazie a questo o a quello, altra cosa negativa. Perchè dovrei emozionarmi, se so che qualsiasi cosa succeda, il protagonista si salverà e ne uscirà vittorioso? I Deus-ex machina erano davvero troppi e poco eleganti. Sono d’accordo sul fatto che i personaggi fossero delle marionette, non ho provato nessun tipo di emozione o empatia per nessuno dei personaggi, neanche per il protagonista. La parte che mi è piaciuta di più è stata quella dei metamorfi, erano coerenti con il mondo e ben descritti, è sicuramente quella la parte migliore del romanzo senza dubbio. La conclusione non mi è dispiaciuta, quello che mi aspettavo, nessun colpo di scena che mi abbia fatto dire wow però, tutto scontato. Il mix tra fantasy e fantascienza invece poteva essere davvero vincente, una cosa nuova che mi ha stuzzicato. MI trovo d’accordo con te su tutto quello che hai scritto, alla fine è un libro sicuramente sopra la media dei fantasy italiani, ma comunque rimane mediocre. Io gli do un 3 perchè nonostante tutto l’ho letto fino alla fine. Leggerò comunque anche gli altri della trilogia giusto per curiosità, è anche questo il potere di Silverberg 🙂 Mi piace che lui scrive come se sapesse benissimo questo o quell’argomento, non hai mai l’impressione che sta scrivendo qualcosa che non sa. Ti farò sapere come sono gli altri due, magari recensirai anche quelli 🙂

  2. Ho letto tutti i libri del ciclo di Majipoor di Silverberg anni fa e cioè Il castello di Lord Valentine, Cronache di Majipoor, e Il Pontifex Valentine. Mi sono piaciuti tantissimo e ho saputo che ne sono stati scritti altri, lord Prestimion, The sorcerers of Majipoor. Purtroppo non sono ancora stati tradotti in italiano
    e leggere in un’altra lingua è molto faticoso, almeno per me. Qualcuno sa se c’è qualche speranza che vengano tradotti in italiano? Mi interesserebbe molto leggerli. Riguardo alle tue critiche devo dire che non le condivido, io mi sono divertita leggendo la trilogia e la descrizione di questo mondo fantastico mi ha affascinata.
    Adriana

    1. Ciao Adriana, benvenuta nel blog!
      Purtroppo non so nulla di potenziali traduzioni, e dubito che arriveranno nei prossimi tempi. Forse quando il povero Silverberg lascerà il pianeta (spero mai!) qualche CE nostrana cercherà di capitalizzare sulla cosa pubblicando qualche inedito, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Detto ciò, mi sono divertito anch’io a leggerlo, nonostante i difetti… ma Il Castello di Lord Valentine rimane decisamente inferiore, a mio avviso, rispetto ad altre opere dell’autore.

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Sono Giuseppe, scrittore, blogger, insegnante di scrittura creativa e coach narrativo! Sono alla costante ricerca di nuovi metodi per raccontare storie. Immersivita.it è il mio tentativo di condividere ciò che ho scoperto: benvenuti, e che il naufragar vi sia dolce in questo mare…

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