
Genere: Fantasy storico, Romanzo storico
Editore: Arbor House, Fanucci il 9 Agosto 1984
Pagine: 320
Punteggio: 5/5
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Descrizione:
Per due terzi Dio e per un terzo uomo, Gilgamesh è un vero gigante tra gli uomini oltre a essere un formidabile guerriero. Quando suo padre, il Re di Uruk, muore, Gilgamesh è costretto all’esilio dal nuovo Re Dumuzi, preoccupato per quelli che possono essere i suoi propositi relativamente al trono. Nel vicino territorio di Kish, le capacità di Gilgamesh vengono affinate sino alla perfezione e, quando Dumuzi muore a sua volta, Gilgamesh ritorna per essere proclamato Re dall’astuta Sacerdotessa di Inanna. La coppia governa Uruk e il territorio gode di un periodo di grande prosperità. Tuttavia regnare non è abbastanza per soddisfare l’insaziabile desiderio di Gilgamesh, e la sua noia è mitigata solo dall’apparizione di Enkidu, uno strano barbaro che dimostra di essere alla pari in combattimento con il Re. I due diventano uniti come fratelli, ma, quando Gilgamesh incorre nell’ira di Inanna, gli Dei decidono di separarli e il Re decide di partire alla ricerca dell’immortalità.
Gilgamesh the King
Robert Silverberg è principalmente conosciuto come autore di fantascienza; sono noti L’uomo stocastico, L’uomo nel labirinto o Il figlio dell’uomo, pubblicati in Italia nella collana Urania.
In effetti, Silverberg fu un autore perno di quell’ondata successiva al grande boom della fantascienza dei ’50, ovvero della New Wave science fiction. Si trattava di lavori più eterogenei, sperimentali e ambiziosi rispetto ai canoni del genere.
La fantascienza New Wave promosse storie introspettive, drammatiche, emozionanti e a tratti disturbanti dal punto di vista psicologico. Conosciamo tutti le opere visionarie e grottesche di Dick, per esempio.
Silverberg abbracciò lo spirito di quel periodo e produsse un gran numero di storie diverse tra loro. Alcuni dei generi che finì per toccare furono le ucronie, il fantasy e i romanzi storici, come nei racconti della raccolta Roma Eterna.
Ecco, il romanzo di cui parleremo in questa recensione riflette l’eclettismo dell’autore e appartiene alla terza fase della sua carriera, quella della maturità. Sto parlando di Gilgamesh the King, historical fiction pubblicata nel 1984.
Il libro fu edito in Italia da Fanucci, nel 1988, col nome Gilgamesh e non fu mai ristampato, che io sappia. Oggigiorno non è facile da reperire, purtroppo.
Silverberg e l’Epopea di Gilgamesh
Gilgamesh the King, come suggerisce il titolo, narra la storia romanzata dell’Epopea di Gilgamesh. Per chi non lo sapesse, si tratta del primo poema epico della storia, 1’500 anni prima di Omero, ai tempi degli antichi Sumeri.
Il mito di Gilgamesh fu ereditato, ampliato e ulteriormente diffuso dalle altre popolazioni che abitarono la Mesopotamia (e non solo), ovvero gli Accadi, gli Assiri e i Babilonesi. La maggior parte delle tavolette recanti la storia dell’eroe furono rinvenute nella Biblioteca di Assurbanipal e la versione più conosciuta della storia è quella babilonese.
Tuttavia, Silverberg ha ambientato il romanzo nell’antica Sumeria. I nomi degli Dei, dei personaggi, dei luoghi e così via sono, dunque, sumerici e non babilonesi, così i dettagli culturali, antropologici, tecnologici e sociali. Tranne Gilgamesh, che dai Sumeri era conosciuto col nome di Bilgamesh.
La scelta ha perfettamente senso dato che Gilgamesh precede, com’è ovvio, la sua stessa mitizzazione. E questa, nella sua veste sumera, precede a sua volta l’Epopea classica babilonese di parecchi secoli (forse addirittura un millennio).
Ciò detto, l’autore ha integrato tutte le avventure finora rinvenute in un’unica storia, con la sola eccezione della morte dell’eroe.

Per quanto riguarda la fedeltà al mito, Silverberg ha adottato una narrazione romanzata degli avvenimenti e li ha riadattati in varie forme. Alcuni eventi, inoltre, sono inventati di sana pianta.
È questo il caso, per esempio, della fanciullezza e dell’adolescenza dell’eroe, argomenti mai trattati nei cicli originali. Silverberg ha costruito un’infanzia in cui Gilgamesh si reca a scuola e vive la società sumerica al fianco degli altri abitanti di Uruk.
È un’ottima scelta, in quanto permette all’autore di mostrare la città e la società sumerica nella sua quotidianità, nonché di preparare il terreno per le future avventure dell’eroe.
Il viaggio a Kish, l’incontro con la sacerdotessa di Inanna, il bullismo di Birhurturre, il funerale e l’adorazione di Lugalbanda… sono tutti esempi di pregressi utili alla trama, allo sviluppo dei personaggi e al contesto stesso.
La vera leggenda di Gilgamesh inizia soltanto nel momento in cui l’eroe ascende al trono e, poco dopo, incontra l’amico Enkidu. Da quel momento, Silverberg segue il filo della trama originale.
Ma l’autore non pesca solo dall’Epopea: troviamo narrati, in secondo piano o incrociati alla vicenda principale, altri miti sumerici, dalla discesa negli Inferi di Inanna alla creazione dell’uomo. La ricerca che sottende all’opera è impressionante ed evidente, grazie agli infiniti dettagli che compongono la quasi totalità delle scene.
Dalle architetture alla linguistica, dai costumi ai gioielli, ai riti (il matrimonio sacro, la sepoltura collettiva…), ai mestieri, ai modi di fare e dire, alla fauna e alla flora, ogni elemento è ricco di particolari. Le scene sono realistiche, ricercate, arricchite da uno studio completo della storia e della società sumerica.
Di seguito trovate un breve estratto:
«Sono Enkidu.»
«Ah, l’uomo selvaggio! Avrei dovuto sospettarlo. E così sei venuto ad Uruk? Ebbene, che cosa vuoi da me, uomo selvaggio? Questo non è il momento di presentare petizioni al tuo Re.»
In tono brusco mi chiese: «Dove stai andando, Gilgamesh?»
«Devo forse rendere conto a te di quello che faccio, adesso?»
«Dimmi dove stai andando.»
Le mie guardie del corpo si agitarono nuovamente. Penso che lo avrebbero trafitto volentieri con le lance, ma le trattenni.
Alquanto irritato, risposi, indicandogli la Casa dell’assemblea: «Laggiù. A partecipare ad una cerimonia nuziale. E tu mi farai arrivare in ritardo, uomo selvaggio.»
«Non puoi andarci,» disse. «Tu hai intenzione di prendere la sposa per te? Non puoi prenderla!»
«Io non posso? Io non posso? Che strane parole da dire ad un Re, uomo selvaggio!» Con una stretta nelle spalle dissi: «Non mi diverto più. Te lo ripeto: fatti da parte, amico.»
Avanzai. Ma, invece di cedermi il passo, allungò una gamba per ostacolarmi, e poi mi afferrò con le mani.
È punibile con la morte toccare il Re in una maniera simile. Non diedi, però, ai miei soldati la possibilità di abbatterlo. Non appena Enkidu mi toccò, fui preso da una rabbia terribile, e lo afferrai come se volessi lanciarlo dall’altra parte del mercato. Immediatamente ci avvinghiammo in un abbraccio violento, e i soldati non avrebbero potuto colpirlo senza ferire me; perciò indietreggiarono e ci lasciarono stare, non sapendo che cos’altro fare.
In quei primi momenti mi accorsi che aveva la mia stessa forza, o quasi. Era una sensazione nuova per me. Nella mia infanzia, nei giorni di addestramento militare a Kish, nelle chiassose risse con i giovani guerrieri della Corte dopo la mia salita al trono, avevo lottato spesso, per puro divertimento, e mi ero sempre accorto nei primi momenti che l’uomo con cui combattevo era alla mia mercé: avrei potuto atterrarlo quando avessi voluto.
Questo mi soddisfaceva solo quando ero bambino. Quando crebbi, me ne lamentavo, perché privava la lotta di ogni divertimento sapere che la vittoria era sempre a portata di mano, in ogni momento. Con Enkidu era diverso: non avevo nessuna certezza. Quando cercai di spostarlo, non si mosse. Quando lui cercò di spostarmi, dovetti usare tutta la mia forza per resistere. Mi sembrava di trovarmi in un altro mondo, un mondo strano, in cui Gilgamesh non era più Gilgamesh. La sensazione che avvertivo non era paura — non penso che fosse paura — ma qualcosa di altrettanto sconosciuto. Dubbio? Incertezza? Disagio?
Lottammo come tori arrabbiati: sbuffavamo, oscillavamo in avanti e indietro, senza mai lasciare la presa l’uno sull’altro. Frantumammo gli stipiti delle porte e facemmo tremare le pareti degli edifici. Nessuno di noi due riusciva ad avere la meglio. Poiché era alto quasi quanto me, ci guardavamo negli occhi mentre lottavamo: i suoi occhi erano infossati e iniettati di sangue, e brillavano di una violenza selvaggia e stupefacente. Grugnivamo, barrivamo, ruggivamo. Io lo sfidai nella lingua di Uruk, nella lingua del popolo del deserto, e in tutte le altre lingue che riuscivo a ricordare. Ed Enkidu mormorava e gridava nella lingua degli animali, lanciando aspri ruggiti come i leoni delle pianure.
Desideravo ardentemente ucciderlo. Pregavo che mi fosse concesso spezzargli la schiena, sentire lo schiocco della sua spina dorsale che si rompeva, lanciarlo come una tunica vecchia tra le immondizie. L’odio che provavo mi dava le vertigini.

Se la narrazione è concreta, cruda e, quindi, adatta alla sensibilità odierna, lo stile fa eco a quello del poema epico. Silverberg mima la prosa solenne ed eroica della letteratura antica, nonché l’usanza di ripetere nomi ed eventi, sebbene con moderazione.
Non temete, non parliamo di uno stile altisonante e stucchevole. L’autore è riuscito a mantenere il succitato tono unendolo a un modo di scrivere moderno, cioè immediato e visuale. Non chiedetemi come ci sia riuscito, ma c’è riuscito.
L’opera è scritta in prima persona, dal punto di vista di Gilgamesh che racconta le sue vicende passate. Lo stile è così ispirato ed elegante che la ricchezza di dettagli non diventa mai sovrabbondanza, che potenziali lirismi formano immagini evocative. Perfino le parti più dense scorrono piacevolmente.
Qui e lì, nei momenti che ricalcano l’opera originale, Silverberg mutua i dialoghi e le formule esatte da quest’ultima, e ciò contribuisce alla sensazione di continuità trasmessa dall’autore.
Fantasy o Romanzo Storico?
Gilgamesh the King è intriso, come detto, di realismo, ma anche di introspezione e punta molto sulle crisi e i dilemmi tragici dell’eroe.
Silverberg dimostra una grande sensibilità e ci permette di entrare nel cuore del personaggio, di metterci nei suoi panni, di provare i suoi dubbi e le sue umane paure. Nei momenti intimi la narrazione assume toni mistici e sognanti, come quando Gilgamesh si trova a contatto col mondo divino.
La divinità, infatti, permea l’opera dall’inizio alla fine, direttamente o indirettamente, e crea quell’atmosfera e quel sense of wonder costanti di un’opera puramente fantasy. Eppure, l’elemento fantastico è parte del realismo storico, poiché gli antichi popoli vivevano la religione sulla pelle, di libagione in libagione, di rito in rito.
Ci troviamo di fronte a uno degli elementi più geniali dell’opera. Si tratta di fantasy mitico, sì, o historic fantasy che dir si voglia, ma Gilgamesh the King potrebbe essere tranquillamente etichettato come un semplice romanzo storico.
Tutto ciò che viene raccontato, infatti, può essere interpretato in chiave scientifica, naturalistica e non soprannaturale. L’autore è stato attento a narrare eventi spiegabili, verificabili, trasformandoli con gli occhi di Gilgamesh in magia, demoni o miracoli di natura divina.
Per entrare in contatto con gli Dei, il Re di Uruk sprofonda in uno stato psicologico alterato, di estasi, autoindotto coi tamburi o attraverso preghiere e venerazioni. È un senso di visione mistica comune alle popolazioni antiche, abituate a vedere gli Dei in ogni cosa.

In Gilgamesh the King ci sono due chiavi di lettura e Silverberg mantiene quest’impostazione fino alla fine dell’opera, senza una sbavatura.
Proprio il finale, forse, mi ha un po’ deluso. Non dal punto di vista della trama, sia chiaro (il climax funziona benissimo), ma da quello psicologico. Mi aspettavo qualcosa di più, una realizzazione più profonda da parte di Gilgamesh, ma l’autore decide di sopire il cuore dell’eroe in modo frettoloso.
Comunque, si tratta di un romanzo a dir poco unico, un capolavoro letterario che dà all’immortale Epopea di Gilgamesh il grandeur, il rispetto e il rinnovo che merita.
Extra: Gilgamesh all’Inferno
Gilgamesh all’Inferno (Gilgamesh in the Outback) è un racconto di Silverberg pubblicato nel 1986, nominato per il premio Nebula dello stesso anno e vincitore, nella categoria best novella, del Premio Hugo 1987.
Gilgamesh all’Inferno è un sequel del romanzo qui recensito, eppure non è un sequel. Mi spiego: la storia segue le vicissitudini del nostro eroe, Gilgamesh, dopo la morte di quest’ultimo, ovvero… all’inferno. Non è un inferno stereotipato né dantesco, badate; non è la Casa della Polvere sumera.
C’è Satana e ci sono i demoni, pare, ma si tratta di una sorta di Limbo: un posto immenso, brullo e desolato in cui si risiede per l’eternità. Satana sarà lieto di concedere la morte a chi la brama, per poi far ripiombare il malcapitato da qualche parte, sempre lì, dopo qualche giorno o qualche anno.
Gilgamesh è simile a come l’abbiamo lasciato, ma ravveduto dal suo viaggio e da una morte durata, ormai, millenni. Perché, dunque, non si tratta di un vero e proprio sequel? Beh, i collegamenti col poema epico e, pertanto, col romanzo ci sono, ma il racconto ha tutto un altro sapore.
Oltre a essere molto breve, Gilgamesh all’Inferno non riprende affatto il tono solenne e il dualismo storico/fantastico del romanzo. Abbiamo, al contrario, una storia fantasy con intenti parodistici che fa il verso ad alcuni grandi della letteratura fantastica come H. P. Lovecraft e Robert E. Howard.
La premessa è assolutamente geniale: i morti hanno colonizzato quest’inferno come fosse una nuova Terra, riforgiando, in parte e con un twist, i vecchi imperi. Ecco, dunque, il regno della Nuova Santa Diabolica Inghilterra di Enrico VIII, in lotta col regno di sua figlia Elisabetta; l’impero dei Kara Khitay del Prete Gianni e così via.
È interessante notare come gli antichi siano per lo più ostili a questo processo di colonizzazione dell’oltretomba (con alcune eccezioni, come nel caso dell’ambizioso Giulio Cesare), a differenza di quelli che chiamano i Nuovi Arrivati.
Questi hanno introdotto, col beneplacito di Satana, la loro tecnologia fatta di archibugi, carri armati… fino alle armi laser, e le guerre si combattono con un folle misto di invenzioni belliche. Sono stati i Cristiani, ovviamente, i primi a plasmare l’inferno secondo la propria visione, costruendo Case della Tortura et similia.
il What-if di Gilgamesh all’Inferno mi ha, insomma, stupito. Ci si potrebbe scrivere una saga intera. Non è, però, tutta farina dell’autore: egli ha ambientato la storia nell’universo condiviso di Heroes in Hell, sebbene a modo suo. Da Wikipedia:
The shared world premise of Heroes in Hell (also called The Damned Saga) is that all the dead wind up together in Hell, where they pick up where they left off when still alive. Robert W. Cape Jr., in Classical Traditions in Science Fiction (Oxford University Press), wrote “…in the popular Heroes in Hell series, Julius Caesar intrigues in the underworld with Alexander the Great, Machiavelli, and other historical rulers. Death has not changed their natures, and their political and military machinations seem similar to those of rulers at the end of the Cold War.” The Encyclopedia of Fantasy states “In the long series of shared world adventures begun with Heroes in Hell, Hell becomes an arena in which all the interesting people in history can come together to continue the relentless pursuit of their various ends.” Brian Stableford commented that the series “adapted the backcloth of Dantean fantasy as a stage for violent adventures with ironic echoes of infernal comedy”.
Peccato che Silverberg non abbia coltivato lo spunto in questa sede. La narrazione si focalizza, in realtà, sulla breve e modesta vicenda di Gilgamesh, Lovecraft e Howard (che brama, segretamente, il primo) e, al di là dei riferimenti e l’ironia brillante, non brilla per nulla.
La storia è frettolosa, inconcludente, e lo stile non ha nulla a che spartire con quello del romanzo. Per quanto scorrevole, infatti, la prosa è poco ispirata, banale, affrettata e condita di spiegoni. Anni luce rispetto alla potenza e alla raffinatezza di Gilgamesh the King.
Tuttavia, Silverberg non si è fermato qui. Scrivere Gilgamesh all’Inferno lo ha divertito al punto da spingerlo a realizzare due ulteriori sequel: The Fascination of the Abomination e Gilgamesh in Uruk, uniti e ri-editati nel romanzo To the Land of the Living, in cui Silverberg ha rimosso ogni riferimento a Heroes in Hell.

Il romanzo è, purtroppo, inedito in Italia.
Conclusione: capolavoro!
Contro:
- Il finale non è eccezionale per quanto riguarda lo sviluppo interiore del protagonista
Pro:
- Prosa elegante, scorrevole, ispirata e originale, poiché riprende i toni del poema epico
- Introspezione e auto-psicanalisi di ottimo livello
- Ambientazione studiata e sviscerata in modo assai dettagliato
- Narrazione cruda, realistica, impattante e fedele all’Epopea
- Sense of wonder costante
- Doppia chiave di lettura
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5 risposte
Peccato che i libri così siano difficili da trovare in giro.
Lo sono, sì, ma fortunatamente ci sono…
Che bello leggere un tuo articolo e poter dire la mia opinione. Ho letto questo libro sotto suggerimento, e devo dire che l’ho amato. Fedele alla storia originaria ma molto meglio secondo me.
Non avevo letto mai nulla di questo scrittore, non sapevo cosa mi aspettasse, invece sono stata davvero colpita. Mi è piaciuto molto lo stile, il libro non ha mai momenti morti o noiosi. È un susseguirsi di avventure ed emozioni. Non ho disprezzato affatto che in qualche modo si collegasse al poema epico. Ho amato “l’odio amore” tra Inanna e Gilgamesh.
Una pecca, come dici anche tu, il finale poteva essere migliore. Insomma gran bel libro, uno dei migliori che abbia mai letto. Cercherò di compare la versione cartacea, cosi da poterlo avere a disposizione quando mi verrà voglia di rileggerlo, e sicuramente leggero altre opere di Silverberg.
Ottima recensione, sei sempre molto preciso e oggettivo. Riesci a dire la tua senza spoilerare troppo =). Alla prossima
Molto interessante! La figura di Gilgamesh mi ha sempre affascinato e sono curioso di leggere opere a lui ispirate.
Idem, ho sempre amato l’epopea e mi attrae tutto ciò che la riguarda. Non troverai di meglio di questo romanzo, te l’assicuro.