Cos’è un Personaggio? Può scrivere un Romanzo?
Quando scrivo, devo essere solo; se ho a che fare con otto personaggi in un dramma, ho già abbastanza gente attorno; mi tengono occupato, devo imparare a conoscerli. E fare la loro conoscenza può essere un processo lento e doloroso. Di solito faccio tre stesure della mia storia che differiscono considerevolmente l’una dall’altra. Nei particolari, intendo, non nello svolgimento generale della storia. Quando mi preparo a lavorare sul mio materiale, mi sento come se dovessi fare la conoscenza dei miei personaggi durante un viaggio in treno. Si rompe il ghiaccio e si inizia a parlare del più e del meno. Quando scrivo la seconda stesura vedo tutto molto più chiaramente e conosco i personaggi come se avessimo trascorso insieme un mese di villeggiatura al mare. Ormai ho colto i tratti salienti dei loro caratteri e le loro peculiarità.
Henrik Ibsen
Molti affermano che i personaggi siano il motore di una storia; che una storia, anzi, non dipenda che dai personaggi. Solitamente a questo tipo di affermazione si accompagna un disdegno per trama, outline, struttura e tutto ciò che possa in qualche modo predeterminare il corso degli eventi. Questo perché, ancora, sono i personaggi a decidere e gli eventi dovrebbero evolversi in base alle loro velleità. Molti autori neofiti ed esperti che siano, del resto, confermano di aver trovato la quadratura della propria storia lasciando le redini ai personaggi.
Arrivare a tal punto presuppone un bel lavoro di approfondimento, o i suddetti non potrebbero mai agire al di fuori del percorso segnato dallo scrittore. Come persone reali, insomma, i personaggi debbono trovarsi a reagire in modi inaspettati a causa dei loro caratteri, delle loro abitudini, paure e desideri. È un’opinione diffusa e non priva di fascino; il fascino, al solito, della pigrizia. Lasciar fare agli altri è sempre comodo e, lo ammetto, ha una sua logica che attiene alla realtà narrativa.
Tuttavia, come spessissimo accade con le opinioni popolari, apparentemente fondate ma profondamente inconsapevoli, la logica è solo parziale e le conclusioni risultano fallaci.
Una storia parla di uno o più personaggi; senza di essi, non ci sarebbe storia. Più precisamente, una storia si focalizza sul protagonista. Parliamo della sua storia; gli altri fungono da comprimari e comparse. Tuttavia, a meno che non stiamo scrivendo una biografia, un personaggio non è una persona. È una versione virtuale e soggettiva di un’ipotetica persona; versione elaborata appositamente per una storia. Si crea, dunque, un paradosso: non abbiamo una storia senza un personaggio e non abbiamo un personaggio senza storia.
In realtà, è possibile partire da un personaggio senza aver elaborato nulla della trama. Potremmo aver immaginato il suo carattere, il suo aspetto fisico, il suo nome… e su di lui/lei potremmo cucire qualsiasi storia. Eppure, siamo sicuri che si tratterebbe di un personaggio vero e non di una semplice sagoma? Mi spiego: tutti noi siamo il risultato della nostra storia personale, volenti o nolenti. Ebbene, un personaggio privo di un vissuto non sarebbe, dunque, una derivazione fittizia di una persona reale, ma un insieme di etichette attaccate con lo scotch.
Quando scrive un romanzo, uno scrittore dovrebbe creare gente viva; gente, non personaggi. Un personaggio è una caricatura. Se uno scrittore riesce a far vivere della gente, può darsi che non ci siano nel suo libro grandi personaggi, ma è possibile che il suo libro rimanga come un insieme; come un’entità; come un romanzo. Se la gente che lo scrittore sta creando parla di vecchi maestri; di musica; di pittura moderna; di letteratura; di scienza; allora dovrebbero parlare di questi argomenti nel romanzo. Se non parlano di questi argomenti e lo scrittore li fa parlare, è un mistificatore, e se ne parla lui stesso per mostrare come la sa lunga, si dà delle arie. Per buona che sia una frase o una similitudine, se la mette dove non è assolutamente necessaria e insostituibile rovina il suo lavoro per egotismo. La prosa è architettura, non decorazione d’interni, e il Barocco è finito. Che uno scrittore metta le proprie meditazioni intellettuali che potrebbe vendere a basso prezzo come saggi, in bocca a personaggi costruiti artificialmente che sono più rimunerativi se presentati in un romanzo come persone, questo è forse un buon principio economico, ma non costituisce letteratura. Gente, non personaggi costruiti abilmente, devono uscire in un romanzo dall’esperienza assimilata dello scrittore, dalla sua cultura, dalla sua testa, dal suo cuore e da tutto lui stesso. Se ha fortuna oltre che serietà e li mette fuori in un blocco, avranno più di una dimensione e dureranno più a lungo.
Ernest Hemingway, Morte nel Pomeriggio
Per creare dei personaggi, molti autori credono basti una scheda con qualche parola chiave per realizzare la magia. Non è così che funziona: una persona non è schiva perché è schiva, né solare perché sì. Lo è per una serie di motivi strettamente correlati alla sua psicologia e al suo vissuto. Allo stesso modo, non basta scrivere una serie di aggettivi contrastanti per creare una presunta tridimensionalità nell’eroe. Si tratta pur sempre di etichette prive di sostanza, di giudizi dell’autore privi di riferimenti.
Quando il personaggio si troverà ad agire, lo farà secondo quelle direttive proprio come un robot e non una persona reale; l’opposto di ciò che supporrebbe chi vede il personaggio come guida di una storia.
Le persone sono difficili perché non agiscono secondo delle direttive. Ognuno ha un’idea di sé e tanti modi, sempre lusinghieri, di presentarsi agli altri. Il classico: sono una persona forte, determinata, coraggiosa, indipendente. Conoscendo profondamente quella persona scopriamo, magari, che è preda di profonde insicurezze e fragilità, tanto da frignare a ogni occasione; da dover ricorrere a un aiuto per risolvere qualsiasi problema; da soccombere alla riprova sociale fino alle estreme conseguenze. Eppure, è probabile che quella persona non creda di mentire quando si presenta a quel modo.

In realtà, noi umani siamo tutto e il contrario di tutto. Possiamo mostrarci in un modo in determinati contesti, con determinate frequenze, agli occhi di qualcuno, condizionati da determinati elementi… e poi rivelarci per qualcosa di diverso in condizioni differenti. Questo perché nella realtà i giudizi che noi abbiamo di noi stessi o che gli altri ci affibbiano non sono determinanti. Solo le azioni lo sono.
Per capire davvero una persona dobbiamo conoscerne il background e trarre delle analogie; comprendere le forze che si agitano dentro di lei e come esse possono liberarsi in certe situazioni. Maggiore è il dramma (e le storie vivono di drammi e conflitti) maggiore è l’attinenza tra il vissuto di una persona e il modo in cui agirà.
Siamo arrivati al punto. Un personaggio vero, cioè basato su un’ipotetica persona reale, non è scindibile dalla sua storia. Creare un personaggio significa forgiare una storia, con tanto di direzioni a livello strutturale.
Ogni essere umano ha delle mancanze e dei punti critici in grado di distruggerlo nelle situazioni sbagliate; ecco che una storia, immaginata come evoluzione/trasformazione dell’eroe, non dovrà che sanare tali mancanze. Allo stesso modo, le criticità dovranno esplodere per poi essere curate. Ricordate Aristotele? Una storia deve ispirare pietà e terrore e purificare il lettore dalle emozioni.
Sì, se avete già letto i miei articoli sto parlando del difetto fatale, dell’Arco di trasformazione e del ritorno con l’elisir nel Monomito.
Se l’argomento vi interessa, fate un salto sulla rubrica Scrivere una Storia!
È il Personaggio che Crea l’Azione, o è l’Azione che Crea il Personaggio?
A proposito di Aristotele, trovo interessante la polemica che Lajos Egri imbastisce nel suo L’Arte della Scrittura Drammaturgica col grande filosofo. Egri afferma la supremazia dei personaggi, nelle storie, su qualsiasi altro elemento, trama compresa. Più precisamente, per Egri i personaggi sono «l’unica base su cui costruire», «il fenomeno più interessante» ed è il personaggio che crea la trama, non il contrario. Del resto, «ogni grande opera letteraria nasce dai personaggi» e «una trama senza personaggi non sta né in cielo né in terra». Aristotele, dal canto suo, credeva che il personaggio fosse subordinato all’azione e che le situazioni contassero più dei sentimenti e della natura umana.

Aristotele si sbagliava, e i nostri studiosi continuano a sbagliare oggi accettando la sua teoria sui personaggi. I personaggi erano l’elemento principale nel teatro dell’antica Grecia e non c’è mai stata e mai ci sarà un’opera teatrale di qualità che possa prescindere da questo principio. (…) Nelle tragedie greche che sono arrivate fino a noi esistono molti personaggi straordinari, che smentiscono le teorie di Aristotele. Se il personaggio fosse davvero subordinato all’azione, Agamennone non sarebbe dovuto per forza morire per mano di Clitennestra.
Subito dopo e a più riprese nel medesimo manuale, però, Egri si smentisce dichiarando l’importanza fondamentale della premessa narrativa per creare e direzionare un’opera. «Quando si ha una premessa ben definita è un gioco da ragazzi trovare un personaggio in grado di portarla alle estreme conseguenze». Si parte da una premessa, dunque, e non da un personaggio, che occorre trovare per dimostrare la suddetta affermazione (in senso strumentale, quindi). Un pelino contraddittorio, non vi pare? Il personaggio diventa un mezzo, non lo scopo, e va plasmato in base a determinate necessità narrative.
Aristotele non era uno stupido, e questo dovrebbe essere chiaro a tutti. Neanche Egri lo era, perciò non mi capacito delle sue sparate. Citare male il filosofo non aiuta nessuno. Per Aristotele, le azioni non venivano prima del personaggio e non è vero che un dramma potesse esistere senza personaggi; chi avrebbe svolto le azioni in questione, altrimenti? Aristotele parlava di carattere, «quell’elemento per cui alle persone che agiscono attribuiamo o questa o quella qualità», non di personaggio.
Dalla Poetica:
Perché la tragedia non è mimèsi di uomini, bensì di azione e di vita, che è come dire di felicità e di infelicità; e la felicità e la infelicità si risolvono in azione, e il fine stesso [della vita] è una specie di azione, non una qualità. Ora gli uomini sono di questa o quella qualità se considerati rispetto al carattere, ma rispetto alle azioni sono felici o infelici. Non dunque i personaggi di una azione drammatica agiscono per rappresentare determinati caratteri, ma assumono questi caratteri per sussidio e a cagione dell’azione. D’onde segue che il complesso dei casi, ossia la favola, è ciò appunto che costituisce il fine della tragedia; e si sa bene che di tutte le cose il fine è sempre la più importante. Anche si osservi che senza azione non ci potrebbe esser tragedia, senza caratteri sì. Infatti le tragedie della più parte de’ poeti recenti sono assai povere di caratteri; e in generale tra i poeti [anche non drammatici] ce ne sono parecchi che hanno questo difetto. E così anche tra i pittori, Zeusi, per esempio, si trova, di fronte a Polignoto, in questa medesima condizione: perché Polignoto è un valente dipintore di caratteri, mentre la pittura di Zeusi di espressioni di carattere è piuttosto sfornita.
Ancora: se uno metta insieme soltanto una bella serie di parlate che siano espressione di caratteri e anche siano perfette rispetto alla dizione e al pensiero, costui non potrà mai raggiungere quell’effetto che dicemmo proprio della tragedia; ma molto meglio potrà raggiungerlo con una tragedia che sia men ricca di cotesti elementi e abbia invece la favola, cioè un ben ordinato intreccio di fatti. Si aggiunga poi che i mezzi più efficaci onde la tragedia trascina l’animo degli spettatori, le peripezie e i riconoscimenti, sono parti della favola [, non de’ caratteri o d’altro elemento]. E un’altra prova di ciò che dico è il fatto che anche quelli che incominciano a poetare riescono più presto a dimostrarsi abili nello stile e nella pittura dei caratteri che non nella composizione della favola; e del resto è quello che è capitato su per giù a tutti quanti i primi poeti drammatici. Dunque la favola è l’elemento primo e come l’anima della tragedia; in seconda linea vengono i caratteri. Qualche cosa di simile accade anche nella pittura: che se uno difatti imbrattasse, fosse pur dei colori più belli, una tela, ma senza un disegno prestabilito, costui non potrebbe dilettare allo stesso modo che se disegnasse in bianco i soli contorni di una figura. E la tragedia, ripeto, è mimèsi di azione; e appunto per codesta azione ella è sopra tutto mimèsi di persone che agiscono. In terzo luogo viene il pensiero: il quale consiste nella capacità di esprimere sopra un dato argomento tutto ciò che gli è inerente e che gli conviene; il che, rispetto alla eloquenza in genere, è sottoposto alle leggi della politica e della retorica. Di fatti gli antichi poeti introducevano i lor personaggi a parlare come uomini di stato, i moderni invece li fanno parlare da retori.
Ciò che afferma Aristotele è logico e chiaro: se una narrazione è mimesi di azione, cioè di personaggi che agiscono, le qualità che li caratterizzano saranno conseguenza e fine dell’azione stessa. A riprova di ciò una tragedia non potrebbe esistere senza azione, poiché non vi sarebbe dramma, ma potrebbe esistere senza caratteri in primo luogo… sebbene l’azione stessa crei caratteri. Al contrario, i caratteri non creano l’azione: una persona vendicativa non agirà per forza in tal senso in una data situazione. Tuttavia, diremmo vendicativa quella persona perché ha agito, in passato, in tal guisa.

Come dicevo prima, sono le azioni che ci qualificano, non le etichette. Chiaro che si parte dal personaggio, cioè da una persona fisica, ma è la narrazione a doverlo scolpire e non il contrario. Lo stesso Egri si contraddice ribadendo a più riprese l’importanza della trasformazione dell’eroe, che è una realtà dinamica e in continua evoluzione. Ma i caratteri sono statici, non dinamici; il dinamismo è creato dall’azione, cioè dagli avvenimenti, o il personaggio manterrebbe le stesse convinzioni, abitudini e qualità per l’intera opera.
Per Egri, se una persona vendicativa compie una vendetta e si ricrede, è perché era sensibile fin dall’inizio oltre che vendicativa. Ha senso, ma c’è un errore di fondo in questo ragionamento, perché il personaggio ha dovuto agire per cambiare. Inoltre, ogni evoluzione ha un fine e una direzione. L’autore ha deciso che il personaggio fosse sensibile, oltre che vendicativo, per farlo evolvere in un certo modo… ovvero per esigenze di trama, non il contrario. Altrimenti, perché ciò dovrebbe accadere?
La trasformazione, intesa come reale cambiamento di percezioni, abitudini e consapevolezze, è lo sforzo più doloroso ed estremo che un uomo possa compiere. È, letteralmente, una morte e una resurrezione. Un uomo non può cambiare senza un buon motivo, e il motivo, come sappiamo, è la decadenza dell’attuale sistema di sopravvivenza del personaggio, che non funziona più altrettanto bene, non lo rende più felice, mette a rischio la sua stessa vita e così via. Le condizioni che mettono alle strette l’eroe, però, non sono caratteri di personaggi, ma pura e semplice trama, o favola, o azione che dir si voglia.
Essendo entità statiche, etichette, i caratteri sono parole che fluttuano nello spazio e prive di funzione. Il riferimento di cui necessitano è proprio l’azione, che li dimostra e dà loro scopo. Egri lo sa, perciò, in L’Arte della Scrittura Drammaturgica, si focalizza tanto sulla premessa come base di ogni storia che si rispetti, come abbiamo accennato prima. Ma la premessa non è un carattere; quello, semmai, è il Tema, che da solo non può generare alcuna storia. La premessa è una proposizione; soggetto, predicato e complemento; nient’altro che l’azione che trascina l’intera vicenda (es. «l’Amore sconfigge anche la morte»).
Visti in quest’ottica, gli esempi di Egri sono demenziali, perché lo smentiscono invece di confermare la sua tesi. Volete una prova? Come lui stesso afferma, «Se il personaggio carattere fosse davvero subordinato all’azione, Agamennone non sarebbe dovuto per forza morire per mano di Clitennestra». Il che è folle, perché l’assassinio di Agamennone è esattamente il fine dell’Agamennone di Eschilo, per esempio. Dunque, se il carattere fosse subordinato all’azione, Agamennone sarebbe dovuto morire per mano di Clitennestra, e così è stato.
Intelligenza Sociale e Narrativa
Giunti fin qui, mi preme insistere su un punto. A differenza di altri, non credo che tutti possano (nel senso che debbano) scrivere. Non credo che arriverebbero mai a certi livelli di illusione. Il primo discrimine tra gli individui quando si parla di narrativa è proprio qui: nella costruzione dei personaggi. Non voglio parlare di talento e altre amenità, ma di un tratto che accomuna gli esseri umani: l’intelligenza sociale.
Non mi riferisco all’empatia emotiva, che è soltanto la capacità di specchiare le altrui emozioni e non di comprenderle davvero, almeno secondo Paul Bloom, professore di psicologia e scienza cognitiva a Yale. L’intelligenza sociale e l’empatia cognitiva (perspective taking, Teoria della Mente o mentalizzazione) sono assai più utili negli scopi di questo articolo, perché sono ciò che ci permette di entrare nell’intimità altrui in modo non sterile e passivo ma costruttivo.
Alcune persone hanno una scarsa intelligenza sociale rispetto ad altre. Ecco, costoro stenteranno a creare dei personaggi tridimensionali. La cosa è più grave di quanto non sembri perché, come abbiamo detto, una storia senza personaggi non è. Dunque, una persona incapace di creare personaggi a tutto tondo non saprà scrivere una vera storia, una che resti nel cuore, che faccia pensare e scoprire realtà differenti.

Si può aumentare la propria intelligenza sociale? Non saprei. Forse osservando attentamente le persone, studiando libri di psicologia eccetera. Tutto ciò, però, mi fa pensare ai disperati che guardano video su come si conquistano le donne, leggono manuali sulla psiche femminile eccetera. Spesso, lo “studio“, sebbene intrapreso con tutta la buona volontà del mondo, non cambia un bel nulla.
Non occorre essere belli, muscolosi o preparati nella teoria per conquistare una donna. Chiunque direbbe che bisogna solo essere sé stessi; meglio ancora se determinati e dotati di buon senso. Ecco un altro, pesante discrimine della vita reale: il buon senso. Si può imparare? Si può aumentare? Forse. Leggendo qualche manuale, facendo qualche corso e così via.
Avrete capito dove sto andando a parare. Ci sono differenze tra gli uomini che a volte risultano insanabili. Senza dubbio l’intelligenza sociale è una di queste. Se ne siete sprovvisti, potreste comunque riuscire a ottenerla fino a un certo punto… o forse no. Senza di essa, comunque, non potrete mai scrivere una storia degna di questo nome, perché le storie parlano di persone e le persone non sono il vostro forte.
In tal caso, perché non dedicarsi a qualcos’altro?
La Costruzione del Protagonista
Tornando ai personaggi, ci sono tanti consigli, trucchi o scorciatoie, se volete, per costruirne di decenti senza immaginare intere biografie virtuali. Per quanto riguarda il protagonista, l’Arco di trasformazione del personaggio fornisce delle indicazioni preziosissime. Mi riferisco al Plot, al Subplot, all’Ostacolo, al Contesto… ma soprattutto, al difetto fatale dell’eroe.
Se il difetto fatale è fondamentale per la creazione di un protagonista con potenziali di crescita, non bisogna dimenticare tutti gli altri tratti tra i quali sboccia il suddetto difetto. Qui possiamo sbizzarrirci: possiamo plasmare l’eroe come desideriamo, purché ciascun aspetto abbia un senso tematico o di trama e non sia lì per fare colore. Questo è un ottimo discrimine, a mio avviso, e per nulla limitante, ammesso che la cornice stessa di una storia non risulti limitante per chi mi stia leggendo. In tal caso, get out!
Un esempio: se il punto di vista tematico della storia è «l’Amore fa bene alla salute», la trama prevede che il protagonista s’innamori e abbia il cuore sigillato, potremmo rendere il medesimo depresso e asociale o, al contrario, uno sciupafemmine privo di empatia; un violento senza pace o un meditatore che ha rinunciato alle passioni terrene; un incel o un femminista puritano che si rifiuta di vedere le donne come oggetto di desiderio; un prete che non vuole cedere alla tentazione o un pappone che vede le donne come pezzi di carne e così via.
Le possibilità sono infinite e contrastanti, eppure collegate tra loro dal difetto fatale (il cuore sigillato) e un nucleo tematico. Lo stesso si può dire dei tratti fisici; qui è più facile sbagliare ma occorre che essi siano giustificati dalle vostre scelte. Nel caso di specie, senz’altro il Nostro dovrà essere di salute cagionevole… oppure di ottima salute ma che soffre di stress, ansia o chissà cos’altro (in tal caso «l’Amore fa bene alla salute mentale»). Potrebbe essere brutto d’aspetto, o così bello da spaventare l’altro stesso; troppo alto o troppo basso; troppo grasso o con evidenti difetti fisici; affetto da disabilità o chissà cos’altro.
L’importante, come detto, è che tutto ciò sia relativo alla trasformazione dell’eroe stesso, in forma di ostacolo o potenziale. Per esempio, nonostante il brutto aspetto il Nostro potrebbe essere simpaticissimo… tanto da riuscire a conquistare una donna che, in un primo momento, lo vedeva come un freak. Oppure, potrebbe essere super antipatico come forma di difesa per allontanare le donne, nonostante il suo bell’aspetto. Potrebbe soffrire di una forma estrema di allergia, il che gli fornirebbe un’ottima scusa per restare a casa e non avvicinare gli altri e fungerebbe da rappresentazione simbolica della sua disfunzionalità sociale. Eccetera eccetera.
Scrive Robert McKee, in Story:
Il concetto di dimensione di un personaggio è quello meno capito. Quando facevo l’attore i registi insistevano su “personaggi a tutto tondo, tridimensionali”, io ero d’accordissimo; ma quando domandavo loro cosa fosse esattamente una dimensione e come potevo crearla (per non parlare poi di tre) loro biascicavano qualcosa a proposito delle prove, e poi si allontanavano. Alcuni anni fa un produttore mi fece la presentazione di ciò che riteneva essere un protagonista tridimensionale e lo fece in questi termini: «Jessie è appena uscito di galera, ma mentre stava là si è aggiornato su investimenti e finanza per cui adesso è un esperto di azioni, obbligazioni e titoli. Sa anche fare breakdance. È cintura nera di karate e ottimo sassofonista jazz». Il suo “Jessie” era piatto quanto un desktop: un grappolo di tratti appiccicati a un nome. Decorare con svolazzi un protagonista non significa mostrarne il carattere e attrarre empatia. È possibile, invece, che le sue eccentricità lo isolino e ci tengano lontani da lui.
Per McKee, dimensione significa contraddizione. «Le dimensioni affascinano; le contraddizioni a livello di natura o di
comportamento inchiodano la concentrazione del pubblico. Di conseguenza il protagonista deve essere il personaggio a più dimensioni di tutto il cast per attrarre empatia sul ruolo principale. Se ciò non avviene si decentrerà il fulcro del bene, l’universo immaginario si disperderà e il pubblico perderà l’equilibrio».

McKee fa l’esempio di Amleto, forse il personaggio più sfaccettato della storia, poiché «non è tridimensionale: ha dieci, venti, praticamente infinite dimensioni. Sembra spirituale, finché non si mostra blasfemo. Con Ofelia è prima affettuoso e tenero, poi duro e persino sadico. È coraggioso, e poi codardo. A volte è freddo e cauto, altre volte impulsivo e avventato, come quando, per esempio, pugnala una persona dietro alla tenda senza sapere chi sia. Amleto è spietato e compassionevole, orgoglioso e vittimistico, arguto e triste, stanco e dinamico, lucido e confuso, sano e folle. È di una mondanità ingenua, e di un’ingenuità mondana, una contraddizione vivente di quasi tutte le qualità umane si possano immaginare.
Di contro, un protagonista privo del sufficiente struggimento e non abbastanza sfaccettato potrebbe perdere il confronto con un personaggio secondario. È il caso, secondo McKee, di Rick Deckard (Harrison Ford) in Blade Runner, un personaggio nettamente inferiore al replicante Roy Batty, interpretato dal grande Rutger Hauer. Il risultato è che il pubblico si sentì più vicino a quest’ultimo e, di conseguenza, meno coinvolto nelle vicende dell’eroe. Per McKee questo è l’errore che avrebbe relegato Blade Runner allo status di film cult piuttosto che blockbuster.
Non sono del tutto d’accordo, dal momento che il film in questione ha molte altre pecche in grado di invalidarne l’apprezzamento presso il grande pubblico. Anzi, a mio avviso l’interpretazione di Hauer è uno dei tratti redentori del titolo, in grado di elevarlo nonostante i difetti… e infatti le sue scene sono tra le più memorabili. Tuttavia, è indubbio che metta in ombra il protagonista e ciò non è mai un bene, giacché l’eroe rappresenta il “fulcro del bene” della vicenda.
Abbiamo già parlato, nell’articolo sugli incipit, di come il protagonista debba ispirare empatia nel lettore, nonché dei metodi per riuscire nell’impresa, perciò non mi ripeterò. Ricordate solo le parole di Lajos Egri: «Un personaggio debole non è in grado di sopportare il pesante fardello di un conflitto continuativo. Non può reggere un intero dramma. Siamo costretti, quindi, a scartare personaggi simili nella scelta di un protagonista».
(ancora, fate caso a come il personaggio vada scelto in funzione del dramma, cioè dell’azione drammatica. Un’ulteriore contraddizione da parte di Egri, e una conferma delle parole di Aristotele).
Ciò che è fondamentale ribadire è che l’eroe deve risultare gradevole al pubblico, o non funzionerà mai a dispetto della sua profondità. Questo non significa, badate, che debba essere forzatamente buono, simpatico e carino, anzi! Quegli eroi hanno stufato e sono molti a preferire i protagonisti moralmente ambigui e/o ricchi di difetti. Basti pensare a Paperino, che moltissimi preferiscono a Topolino.
Il punto è che le azioni del protagonista devono essere giustificate, comprensibili, e il lettore deve potersi riconoscere nel medesimo. Se c’è distanza, se c’è un muro tra eroe e lettore, è finita. Questo è l’aspetto più importante in assoluto nella creazione del personaggio principale, senza se e senza ma. Tutto il resto, d’altro canto, perderebbe di senso, poiché a nessuno importerebbe delle sfaccettature di un eroe insopportabile, noioso o fastidioso.

Come Creare i Personaggi Principali e Secondari
Ricordate le parole di McKee? Un character deve essere multidimensionale, cioè ricco di contraddizioni. Come nel caso del protagonista, è un ottimo suggerimento e un buon punto di partenza per la creazione di qualunque personaggio. «Ogni oggetto ha tre dimensioni: profondità, lunghezza, larghezza. Gli esseri umani hanno tre dimensioni in più: fisiologia, sociologia, psicologia. Senza conoscere queste tre dimensioni, non possiamo valutare un essere umano», afferma Lajos Egri ne L’Arte della Scrittura Drammaturgica.
Ciò detto, a differenza dell’eroe gli altri personaggi rivestono ruoli di minore importanza nella narrazione, e tale importanza varia. Questo è un buon discrimine nella creazione di un personaggio: capire quanto quell’attore conti ai fini della storia.
Se il personaggio in questione fa colore, va tagliato. Se si limita a eseguire un’azione per poi sparire, come un negoziante, non va neanche descritto o soltanto en passant; in altri termini, non occorre costruirlo perché non è un attore della storia, come un qualsiasi passante non attiene alla nostra storia personale. Se appare una volta soltanto ma ha un ruolo importante ai fini della trama, va invece sviscerato… ma tenendo bene in conto la sua limitata partecipazione.
Il primo limite nella creazione di un personaggio è, infatti, il tempo. Non credo abbia senso studiare un personaggio particolarmente a fondo, se costui sparisce dopo due, tre, quattro pagine. Ciò detto, occorre che egli risulti verosimile e non generico, perciò non ci si può accontentare di un paio di etichette. «Le particine dovrebbero intenzionalmente essere realizzate come unidimensionali… ma non noiose», afferma McKee.
Coi personaggi principali le cose si fanno più complesse. La chiave, a mio avviso, è il protagonista stesso. Parliamo della sua storia e, sebbene i personaggi siano persone indipendenti dalla sua esistenza, non lo sono ai fini della storia. Pensateci: ciò che viviamo è la nostra realtà, in cui gli altri appaiono diversamente da come sono realmente, ed essi prendono parte alla suddetta realtà solo nel momento in cui entrano nella nostra vita.
In parole povere, un modo ottimale per costruire i personaggi è quello di plasmarli in base all’eroe; ai suoi bisogni, alle sue mancanze, agli ostacoli che deve affrontare… alla storia stessa e all’Arco di trasformazione. Non è una forzatura né un limite perché, come detto, è un aspetto della realtà stessa: le persone che ci servono, in un modo o nell’altro, restano con noi, e le altre le perdiamo di vista.
McKee è dello stesso avviso:
In sostanza è il protagonista a creare il resto del cast. Tutti gli altri personaggi sono nella storia soprattutto per via del rapporto che intrattengono con il protagonista e del modo in cui ciascuno di loro contribuisce a delineare le dimensioni della complessa natura del protagonista. Immaginate il cast dei personaggi come una specie di sistema solare in cui il protagonista è il Sole, i ruoli di sostegno sono i pianeti intorno al Sole e le particine i satelliti che ruotano intorno ai pianeti: il tutto è tenuto in orbita dalla forza gravitazionale della stella centrale mentre ognuno provoca le maree nelle nature degli altri.
Tutti i personaggi devono relazionarsi al protagonista e svolgere un ruolo nella sua vicenda personale, oltre che nella trama generale; devono essere tridimensionali e mostrare, pertanto, contrasti e struggimenti. Aggiungerei che ognuno di essi deve rappresentare il Tema dell’opera. Perché? In che senso? Vediamolo subito.
Se il punto di vista tematico fosse «L’Amore fa bene alla salute», un personaggio potrebbe innamorarsi e sentirsi meglio di conseguenza; oppure, mostrando il rovesciamento, potrebbe lasciarsi con l’amata e subire un contraccolpo a livello fisico; o ancora, potrebbe soffrire di qualche malattia ed essere curato da qualcuno che lo ama, come un familiare o una persona che, chissà, prova sentimenti segreti per lui.
Così facendo raggiungeremmo diversi obiettivi nella qualità globale dell’opera: avremmo un personaggio con una sua storia personale, come una persona vera; un personaggio importante per la trama e per l’eroe; l’ennesima conferma del punto di vista tematico, che deve permeare la narrazione in ogni scelta. Il personaggio stesso risulterebbe meno che mai fuori posto, poiché ci sarebbero dei punti in comune tra la sua identità e quella dell’opera.
L’impianto tematico è, inoltre, strettamente correlato al difetto fatale e ai bisogni dell’eroe. Creare un personaggio tridimensionale ci permette di mettere in luce tali elementi, senza dimenticare che i comprimari stessi necessitano l’uno dell’altro per tirar fuori le proprie contraddizioni (sempre nell’ottica tematica di cui sopra). A tal proposito McKee realizza un disegno complesso dei ruoli, incluso di personaggi secondari bidimensionali e monodimensionali.
Il Personaggio A, per esempio, provoca la tristezza e il cinismo del protagonista; mentre il Personaggio B mette in luce il suo lato arguto e speranzoso. Il Personaggio C ispira le sue emozioni affettuose e coraggiose; mentre il Personaggio D lo obbliga prima a ripiegare spaventato e poi a colpire infuriato. La creazione e il disegno dei personaggi A – B – C – D vengono dettati dalle necessità del protagonista: sono ciò che sono soprattutto per rendere chiara e credibile, attraverso il gioco di azioni e reazioni, la complessità del ruolo centrale.

Lajos Egri, al contrario, consiglia una struttura base da riempire per ogni personaggio degno d’importanza. Personalmente, dubito che ogni voce possa risultare utile, ma lo schema è una buona base di partenza per capire la complessità delle persone a fronte di ciò che appare a prima vista.
Fisiologia | Sociologia | Psicologia |
Sesso: | Classe sociale (bassa, media, elevata): | Vita sessuale, parametri etici: |
Età: | Occupazione (tipo di lavoro, ore, reddito, condizioni, iscrizione al sindacato, atteggiamento verso i capi, propensione al lavoro): | Premessa personale, ambizione: |
Altezza e peso: | Istruzione (titolo di studio, tipo di scuole, voti, materie preferite o meno, inclinazioni): | Frustrazioni, principali delusioni: |
Colore di capelli, occhi, pelle: | Vita familiare (genitori viventi, potere d’acquisto, orfano, genitori separati o divorziati, abitudini dei genitori, livello culturale dei genitori, vizi dei genitori, trascuratezza. Stato civile del personaggio): | Temperamento (collerico, socievole, pessimista, ottimista): |
Portamento: | Religione: | Atteggiamento verso la vita (rassegnato, militante, vittimistico): |
Aspetto (bello, sopra o sotto peso, pulito, ordinato, piacevole, trascurato. Forma di testa, volto e arti): | Razza, nazionalità: | Complessi (ossessioni, inibizioni, superstizioni, fobie): |
Difetti (deformità, anormalità, segni particolari. Malattie): | Posizione nella comunità (leader tra gli amici, nei circoli, nello sport): | Estroverso, introverso, equilibrato: |
Caratteristiche ereditarie: | Affiliazioni politiche: | Abilità (lingue, attitudini): |
Divertimenti, hobby (libri, giornali, riviste): | Qualità (immaginazione, senso comune, gusto, equilibrio): | |
Quoziente intellettivo: |
Costruire un Personaggio Unico
Grazie alle direttrici di cui abbiamo parlato, la creazione di un personaggio non fa più così paura. Ma non finisce qui, perché ci sono altre finezze da cogliere per ottenere il miglior risultato possibile agli occhi del lettore. Ricordate, infatti, che sarà lui il giudice dei personaggi da voi costruiti. Un problema comune, in tal senso, sovviene quando ci sono tanti attori e il lettore finisce per confondersi coi nomi o con l’aspetto di ciascuno di essi.
Un modo per evitare che ciò avvenga è quello di scegliere nomi dai suoni e le iniziali differenti. Tra Mauro, Marco e Mirco potrebbe sorgere confusione; tra Tito, Orazio e Francesco è più difficile. I soprannomi e i diminutivi rendono il tutto più facile, nonché realistico. Inoltre, non è necessario conoscere i vari cognomi, a meno che la trama non lo richieda.
Per l’aspetto fisico vale una regola simile. I mangaka (disegnatori di manga, i “fumetti giapponesi”) sfruttano determinate caratteristiche per rendere i personaggi molto diversi tra loro già a primo impatto. Una di queste è il “contorno”, cioè la silhouette del personaggio; manipolando alcuni tratti come i capelli, il naso e il mento, per esempio, si può ottenere un colpo d’occhio diverso ogni volta.
Per creare differenze i mangaka si concentrano in particolar modo sui capelli, che raccolgono in acconciature a dir poco surreali. Non è ciò che deve fare un autore di narrativa, ovviamente, ma la logica da seguire è la medesima, così che il lettore non fatichi a distinguere, nella sua immaginazione, un personaggio dall’altro. Aggiungere tratti particolari come nei, tatuaggi e accessori aiuta ulteriormente.
A contare davvero, però, restano i dialoghi e le azioni. Un personaggio deve comportarsi in accordo con la sua psicologia, e questo è scontato. Le cose si complicano coi dialoghi, cioè con la “voce” del personaggio in questione. Gestire quest’ultima nel modo corretto può apportare una serie di vantaggi al testo, oltre a potenziare l’iconicità del personaggio.
Un personaggio con una voce caratteristica permette al lettore di capire al volo che sia lui a parlare, facilitando la comprensione ed evitando beat superflui o dialogue tag. Inoltre, aggiunge brio e verosimiglianza alle battute. Non che sia facile ottenere un simile risultato, badate: la parlata potrebbe risultare forzata, surreale, antipatica od ostica al lettore.
Ci sono tanti modi per dare una voce unica a un personaggio. Tra formule dialettali, modi di dire, interiezioni, difetti di pronuncia, slogan e motti le combinazioni sono infinite. A ciò è possibile accostare un’abitudine o un tic a cui è soggetto il personaggio quando parla; potrebbe, per esempio, arricciare il naso, strizzare gli occhi fin quasi a chiuderli o, al contrario, strabuzzarli, ridere in modo inquietante, sputare come un Lama, fischiare e ruttare in sequenza, grattare un foruncolo pustoloso che continua a rigenerarsi e così via.

Il personaggio in questione potrebbe sbraitare in dialetto romanesco quando perde la pazienza, soffrire di coprolalia, parlare come Ned Flanders, fare continui riferimenti al sesso, avere la voce rotta dal fumo, esclamare sempre “è ‘o gas” anche se ha superato i quindici anni, paragonare tutto ai suoi piatti preferiti della cucina cinese, chiamare chiunque “zio” e “zia“, avere la zeppola, balbettare quando si emoziona eccetera eccetera.
Un personaggio che si esprime in modo peculiare è riconoscibile e memorabile. Ciò a maggior ragione se decidiamo di alternare il punto di vista nel romanzo e se il suddetto POV è in prima persona. Ciascun personaggio punto di vista ha, infatti, una voce interiore oltre che “sonora” e il confine si fa assai labile nella prima persona, poiché pensieri e narrazione si fondono in un unico flusso.
Ho già accennato al problema nell’articolo sui punti di vista. Differenziare le voci interiori è ancora più difficile e, al contempo, più importante rispetto alla controparte dialogica. Il personaggio punto di vista diventa, almeno nel capitolo ad esso dedicato, il centro della vicenda e, come tale, deve spiccare sugli altri. Inoltre, non vogliamo che il lettore si confonda con un POV e l’altro, né che trovi piatta, generica e ripetitiva la narrazione a causa delle assonanze nei pensieri dei vari personaggi POV.
Non dimenticate che l’eroe deve essere l’attore più sfaccettato e ricco di dimensioni dell’intero “cast”; la sua voce interiore non può essere da meno. Usare dialetti e quant’altro, qui, conviene poco, perché significa annacquare e farcire la narrazione di piccoli ostacoli. Il risultato è un testo a dir poco stucchevole e difficile da mandar giù. Come fare, dunque?
Per distinguere le voci interiori dei personaggi POV occorre che essi pensino in modo differente, nel senso che seguano percorsi mentali diversi tra loro. Un personaggio potrebbe, per esempio, pensare poco in generale e in modo preciso, pragmatico, lasciando poco adito a dubbi. Il risultato sarebbero periodi più brevi, con una cadenza maggiore e un maggior risalto alle azioni.
Un altro potrebbe, al contrario, avere il “giudizio facile” quando si relaziona con gli altri e, magari, tanti dubbi e fantasie. Qui sarebbe la mentalizzazione a farla da padrona. Un terzo potrebbe notare molti più dettagli dell’ambiente circostante, con un incremento delle descrizioni e un’atmosfera palpabile. Insomma, anche qui le possibilità sono svariate e dipendono dai tratti caratteriali del personaggio in questione. Conoscendolo, sarà più facile capire come egli pensi e come si esprima.
La Genesi dell’Antagonista
Questo comprimario merita una sezione a sé stante. L’antagonista ha un ruolo importantissimo in un’opera di narrativa, poiché funge da contraltare del protagonista. Spesso, l’antagonista è una vera e propria ombra, cioè un’inversione dei valori positivi incarnati dall’eroe; è il caso di molti romanzi di genere in cui, purtroppo, l’antagonista assume il connotato di “cattivo” (villain) della storia. Succede nei fantasy, coi tiranni/draghi/stregoni malvagi; nei polizieschi, coi killer, i mafiosi o i Moriarty di turno; negli horror e così via.
Nelle peggiori narrazioni il cattivo è tale perché sì. È il caso di Voldemort in Harry Potter, il tipico cattivone la cui “brama del male” finisce per seppellire ogni potenziale motivazione. Motivazione che, come esploro in questo articolo dedicato, esiste, ma viene presto snaturata e dimenticata. È il caso dei tanti cattivi dei supereroi e, in generale, di tutti quelli che vogliono distruggere il mondo e amenità simili.
Abbiamo parlato tanto di intelligenza sociale, psicologia umana e quant’altro, eppure gli antagonisti sembrano rifiutare fin troppo frequentemente la loro umanità. La verità è che l’antagonista funge, nelle suddette storie, da strumento per l’affermazione della morale scelta dall’autore. Non che sia un errore; tuttavia, se questo finisce per essere l’unico scopo dell’antagonista, esso non potrà che apparire come una marionetta e non una persona.

Non esistono persone cattive, cioè che fanno il “male” consapevolmente; tutti crediamo di fare la cosa giusta. Per qualcuno la cosa giusta è non mangiare animali per non provocar loro dolore; per qualcun altro, invece, è giusto che la specie superiore si nutra di quelle inferiori, se la natura ha deciso così. Per qualcuno la violenza è sbagliata a prescindere, per qualcun altro occorre esercitarla per prevenirne dell’altra.
Un politico non crede di essere cattivo, nonostante abbia inviato migliaia di soldati in una missione di guerra. Perché? Perché quella guerra occorre, magari, per “mantenere la pace“, cioè per sottomettere a tal punto l’avversario da renderlo innocuo per la propria incolumità; perché la guerra in questione serve interessi importanti, diritti fondamentali, motivazioni nobili o chissà cos’altro; perché nella mente del politico, magari, un popolo più forte è autorizzato a sottometterne uno più debole, nonostante esso si dimostri pacifico. E così via.
Per quanto appaia infame, il politico crede davvero che affamare la popolazione gioverà al paese; che sottrarle la libertà aiuterà a proteggerla; che solo chi può permetterselo debba accedere alle cure mediche; che l’obbedienza sia la chiave di una società felice; che la lettura di certi testi sia rischiosa; che la scuola debba formare schiavi e non persone, o viceversa. Se non lo crede e agisce in tal senso, non è perché è cattivo: la corruzione è dovuta all’interesse e nella gerarchia dei principi del politico, evidentemente, i soldi scavalcano un mucchio di stupide leggi.
Chissà, il politico corrotto potrebbe usare una parte di quei proventi per finanziare ciò in cui crede, per atti di filantropia e chissà cos’altro. Come chiunque, insomma, crede di fare la cosa giusta, non quella sbagliata; crede di fare del bene, non del male, dal suo punto di vista. Si potrebbe, a questo punto, fare un passo in più e affermare come “bene” e “male”, in realtà, non esistano. È la società a dirci di volta in volta cos’è giusto e cos’è sbagliato, cos’è accettabile e cosa va impedito o combattuto.
È da qui che proviene l’incomprensione di fondo. Un antagonista può essere “cattivo” nel senso che commette il male secondo la morale vigente; tuttavia, egli deve credere di star facendo il “bene” secondo i suoi personali principi. Ecco perché Voldemort avrebbe potuto essere un buon antagonista, cioè cattivo nell’ottica dei nostri valori, ma non dei suoi.
Dunque quali sono questi principi così strani? L’antagonista li persegue con coerenza ed efficacia, o si limita a invertire ciò che noi consideriamo il “bene”?

Per creare un buon antagonista è necessario che il lettore inizi a conoscere il suo pensiero, i suoi principi, la sua forma mentis, così che le azioni del suddetto non appaiano cattive e basta ma sensate. Giustificate, in un certo senso. E, badate, un antagonista non deve per forza essere un tiranno malvagio: potrebbe trattarsi di una persona che non nuoce chissà quanto o che non commette neanche “errori” secondo la nostra etica. Ma ciò che fa ostacola l’eroe ed è questo a renderlo un antagonista.
Rimosso l’antagonista, il protagonista può ottenere ciò di cui ha bisogno. In questo senso, l’antagonista funge da trampolino di lancio, da scalino per la trasformazione dell’eroe, da battesimo del fuoco per la sua tempra e risoluzione. Un motivo in più per renderlo speculare al personaggio principale. Dietro il cattivo si cela l’elisir del Monomito, una ricompensa simbolica e, al contempo, una rinascita pregna di nuove consapevolezze.
Tornando al discorso di prima, un antagonista efficace riesce a portare il lettore, almeno per qualche momento, dalla sua parte; a sedurlo col fascino del “male”, a fargli vedere la realtà secondo un’altra ottica. È l’autore a decidere se, in seguito, far pentire il lettore di tale tentazione o se continuare a stuzzicarlo. Nella prima evenienza la storia vira sul didascalico ma, se l’antagonista è strettamente legato al difetto fatale e al passato del protagonista, può servire a rinforzare il punto di vista tematico. Il cattivo incarna, in tal caso, la negazione del Tema della storia.
Un antagonista troppo convincente, invece, rischia di allontanare il lettore dal protagonista, poiché non si può tifare per entrambi. Il rischio si sposta anche sul piano tematico, poiché le azioni dell’eroe dovrebbero rappresentare, almeno nel climax, il senso della vicenda. Se tali azioni sono, però, messe in discussione, è il significato della storia a vacillare, indebolendo l’intera impalcatura. Per inciso, ciò non accade nelle tragedie, in cui, paradossalmente, l’antagonista potrebbe rappresentare l’elemento “positivo” della storia.
Come fare, dunque? È meglio preferire il didascalico o andare sul relativismo? È una linea sottile, ma credo che esista un compromesso. È possibile spingere il lettore tra le braccia dell’eroe nonostante l’antagonista non abbia fatto nulla di “male”. Come? Semplice: è sufficiente umanizzare il cattivo rendendo comprensibili le sue azioni, ma non condivisibili al 100%. Il lettore deve pensare che l’antagonista abbia le sue ragioni, o che sia una persona che sbaglia in buona fede, o che, forse, si comporterebbe così anche lui in una situazione simile.

Forse, però. Fatto sta che le motivazioni più forti e condivisibili rimangono quelle del protagonista. Se entrambi sono vittime di un mondo crudele e generano empatia nel lettore, il protagonista deve ispirare maggior compassione. È, come detto, una linea sottile, ma quello risultante è il migliore dei due mondi possibili: l’impianto tematico resta invariato e la storia resta profonda, sfumata, non didascalica e moraleggiante.
Attenzione: ricordate che il rapporto di forze tra antagonista e protagonista non deve mai pendere per quest’ultimo. Non c’è modo peggiore di uccidere il climax di una storia che vedere l’eroe che sgomina il “cattivo” senza versare una goccia di sudore. Lajos Egri ritiene che i due personaggi debbano essere bilanciati, in modo tale che la loro sorte non appaia scontata e i lettori restino col fiato sospeso; inoltre, uno scontro ad armi pari è molto più soddisfacente di uno impari.
Non sono d’accordo: sono dell’opinione che l’antagonista debba essere più forte dell’eroe. Per Egri, anche quello sarebbe un problema, giacché «se un uomo grande e grosso maltratta un piccoletto proviamo un senso di indignazione, ma non attenderemo certo col fiato sospeso l’esito di uno scontro così impari. Sappiamo da subito come andrà a finire». Il che è… falso. Non ci aspettiamo che l’eroe perda, di solito. Anzi, maggiore è la vicinanza tra i due attori, meno dubbi avremo sull’esito della competizione. L’eroe ne uscirà vittorioso per un soffio.
Del resto, in una narrazione degna di questo nome noi siamo l’eroe, e noi raramente pensiamo di avere la peggio, anche se l’avversario ci supera in ogni aspetto. Una volta in ballo subentra la speranza, o qualsiasi lotta è persa in partenza. È l’istinto di autoconservazione. Inoltre, l’eroe potrebbe diventare man mano più forte nella narrazione, come spesso è il caso (espressione simbolica della sua crescita e maturazione). O ancora, pensate a Davide e Golia. Un piccoletto che sconfigge un gigante apparentemente invincibile… può esserci un esito più soddisfacente? Se così non fosse, perché avremmo hobbit, maghetti adolescenti e bambocci vari che si misurano coi Signori del Male?
Ah, a proposito…

Se v’interessa l’argomento, ricordate di fare un salto sulla rubrica Viva i Cattivi!
Creare Personaggi Fantasy, Errori & Consigli
La creazione di personaggi fantasy è spesso oggetto di dibattito per una serie di comprensibili, e alquanto ingenue, motivazioni. Nel contesto di un mondo fantastico molti si chiedono: come posso prendere spunto da persone reali se qui abbiamo mostri, maghi, alieni e specie umanoidi inesistenti? Come posso creare un buon personaggio che sia un orco/nano/elfo/chissà cosa? Che tipo di personaggi dovrei includere nella compagnia dell’eroe e come dovrebbero relazionarsi l’uno con l’altro? Ma soprattutto, come dovrebbero essere vestiti?
Molte di queste domande scaturiscono da un errore di fondo. Come abbiamo già avuto modo di specificare in altre sedi, il fantastico non è irreale ma comporta la costruzione di una realtà alternativa che, volenti o nolenti, non può che rielaborare la nostra. Il nostro mondo rimane la fonte di ogni ispirazione, perciò non abbiamo di che preoccuparci. I personaggi fantasy restano persone e debbono comportarsi come tali… a meno che non siano qualcosa di diverso.
Nei punti in cui il mondo fantastico diverge da quello reale dovremo agire di conseguenza. Se il protagonista non è un homo sapiens ma un homo piscis, la sua mentalità dovrà esserne influenzata in qualche modo. Partite da una base a voi familiare e chiedetevi: in che modo il fatto di vivere in acqua, avere delle pinne ecc. potrebbe aver cambiato questa persona? Come potrebbero funzionare la società, l’etica, i costumi e le abitudini di questa specie?
Se non vi accontentate di risposte banali e frettolose, scoprirete che ogni elemento ha delle ripercussioni particolarmente profonde.
Usate la logica. Si dice che sia il world-building a separare un buon fantasy da uno mediocre e il trucco è proprio questo: riuscire a restare realistici, cioè verosimili, nonostante l’assurdo che impazza in ogni elemento della narrazione… e i personaggi non sono esenti da questa affermazione. Dunque, come creare un buon personaggio fantastico che sia un vampiro/lupo mannaro/khajiit e così via? Dipende da come avete immaginato i vampiri, i lupi mannari e i khajiiti nel vostro mondo fittizio. Se il personaggio in questione risulta coerente all’ambientazione e risulta sfaccettato, siete a buon punto.
Lo stesso vale per i tratti caratteristici, gli abiti indossati, il modo di parlare e così via. Se il personaggio fantastico diverge dalla norma della sua specie, allora dovete giustificarlo in qualche modo. Per esempio, un vampiro che sopravvive bevendo l’emolinfa degli insetti (che tritura a migliaia grazie a una sorta di allevamento o non ce la farebbe) potrebbe arrangiarsi così perché la sua coscienza gli impedisce di nuocere agli umani; perché è allergico al loro sangue a causa di una malattia autoimmune; perché ha troppa paura di attaccare le persone e così via.
Per quanto riguarda la costruzione di specie fantastiche in generale, chiedetevi quali pressioni biologiche abbiano subito e come potrebbero averne alterato l’evoluzione. Nella fantascienza, un world-building particolarmente competente prevede la creazione di interi pianeti scientificamente possibili, con tanto di creature verosimili in quel determinato contesto. I suddetti alieni devono poter prosperare in un ambiente sottoposto a una certa forza gravitazionale, variazione di temperature, atmosfera e così via.
Ancora, la parola d’ordine è verosimiglianza. Una specie priva di udito e che comunica attraverso le vibrazioni del terreno non potrà comportarsi e pensare come noi. Questo è l’errore che commettono tanti scrittori di fantasy e fantascienza impreparati: avere razze fantastiche o specie aliene che differiscono da noi solo a livello estetico. È un duplice errore, perché corpo, mente, abitudini ed evoluzione sono strettamente collegati; inoltre, perché inserire tali specie se non servono alcuno scopo?
Come abbiamo già discusso in precedenza, i tratti dei personaggi che aggiungono colore e basta sono da aborrire. Dunque, i vari orchi, nani e alieni dall’aspetto particolare e il comportamento umano potrebbero essere semplicemente… umani. È l’errore che commette Silverberg ne Il Castello di Lord Valentine; errore che ho attribuito a un ingenuo antropocentrismo da parte dell’autore.
Per fare un esempio, ne La Spada Spezzata Poul Anderson svolge un lavoro migliore rispetto a Tolkien, in fatto di specie fantastiche. Nonostante l’ispirazione comune, la razza degli elfi dipinta da Anderson mostra una psicologia di gran lunga più peculiare, ambigua e aliena rispetto a quella di Tolkien; non ci sono sciocchi compromessi né semplificazioni. E ciò, in fin dei conti, si riflette nell’impianto tematico della storia, anch’esso di gran lunga più sfumato rispetto al manicheo Il Signore degli Anelli.
Un altro esempio di razze fantasy ben fatte si può trovare nella serie di videogiochi Dragon Age. Tra esse spiccano, a mio avviso, i Qunari: una razza di omaccioni cornuti dalla pelle color metallo che seguono il Qun, un codice basato su antiche scritture. Il Qun è un mix di Corano, Bushido e della Costituzione degli Spartani… e infatti la società qunari rispecchia tali precetti. I Qunari si comportano e pensano in modo totalmente diverso rispetto a tutte le altre razze e hanno una morale opposta a quella occidentale (attuale).

È importante ricordare, infatti, che la psicologia dei personaggi è anche (soprattutto?) un prodotto della comunità in cui vivono, oltre che della loro biologia. Una società fantasy coi propri costumi, tradizioni e valori avrà impartito una morale, un modus vivendi e pensandi ai suoi cittadini; non si può fingere che tutto ciò sia uguale per ogni singolo popolo, o quasi, di un mondo fantastico. Parlo del “quasi” per l’eccezione degli orchi e goblin di turno, bestie assetate di sangue che, ancora, risultano fin troppo spesso surreali e banali.
Abitando in un mondo ormai globalizzato, ci si dimentica spesso che questa non è l’unica soluzione possibile, né la normalità. Ecco perché tanti fantasy presentano improbabili mischioni in civiltà simil-medievali o, quando provano a creare mondi fatti di popoli e confini, tutti appaiono disposti a venirsi incontro per combattere il solito nemico comune, ridotto a mostro o cattivo dalla stessa mente dell’autore (nella quale avviene la demonizzazione o reductio ad Hitlerum a cui è abituato ad assistere).
Il nemico non deve per forza essere il Saddam/Gheddafi/Assad che vediamo in televisione. Può esserlo, ma dal suo punto di vista, non da quello del nemico! Ne abbiamo già parlato nella sezione dedicata all’antagonista, ma giova ripeterlo. Il cattivo, a maggior ragione nei fantasy, deve credere di fare del “bene”, di essere nel giusto, come tutti i “buoni” e i cosiddetti “malvagi” di questo mondo.
A tal proposito, un altro errore che tendono a commettere gli scrittori di narrativa fantastica è quello di costruire personaggi smaccatamente buoni o cattivi. Non so il motivo di questa scelta. Sarà per spirito di emulazione verso i maestri del genere, come Tolkien; per la vicinanza del genere con fiabe e miti; perché si tratta di romanzi che hanno, spesso, un target giovanile… sia come sia, abbiamo già discusso del perché sia un errore.
Per quanto riguarda l’eroe, uno stereotipo della narrativa fantastica vuole che egli sia il prescelto, il predestinato, colui che possiede l’unico oggetto o tratto o potere in grado di sconfiggere il nemico e riportare il mondo allo stato di grazia. Il motivo di tale stereotipo è più facile da rintracciare, perché si fonda su ciò che abbiamo trattato nell’articolo sugli Incipit: l’abilità o competenza del protagonista, che deve consentirgli di agire proattivamente per l’ottenimento dei suoi obiettivi.
L’idea della predestinazione è, semplicemente, una trovata pigra e comoda per legittimare l’eroe ai nostri occhi, permettergli di affrontare le sfide a lui poste e, così, diminuire il rischio di passività.
E voi che ne pensate? Come gestite i personaggi delle vostre storie? Ditemi la vostra nei commenti!
Se avete apprezzato l’articolo, non dimenticate di leggere gli altri della rubrica Scrivere una Storia!
Una risposta
Ottimo articolo che, come al solito, da spunti su cui riflettere. Personalmente odio i personaggi che non hanno carattere e che subiscono tutto quello che la storia vuole. Un personaggio ben caratterizzato, con una propria identità, un proprio passato e una propria “coscienza”, che partecipa alla sua storia, riuscirà inevitabilmente a trascinare il lettore nelle sue vicende. Pensando ai libri letti e ai film visti concordo con te quando parli di antagonista, e di quanto sia sottile la linea per ottenere un’antagonista equilibrato. Detesto quando un cattivo si comporta da cattivo “senz’anima”, è un atto di pigrizia. Anche il cattivo è un personaggio, ed essendo il secondo più importante a livello di storia, anche lui dovrebbe avere la sua bella dose di caratterizzazione. Capisco che un’antagonista è ben fatto quando provo empatia per lui, e non disprezzo le sue azioni, ma anzi sono portata a capirle e giustificarle. Purtroppo smesso mi è capitato di provare molta più empatia per il cattivone che per il protagonista, e questo come hai analizzato è segno di una costruzione sbagliata del personaggio secondo me. Gus Fring è l’esempio perfetto, cammina costantemente su questa linea tra giusto e sbagliato, tra bene e male, provi simpatia per lui e odio a volte, ma sappiamo benissimo che lui è il bad boy. 🙂