In questo articolo analizzo la struttura narrativa di un film a scopo di esempio. Per comprendere appieno quanto segue, consiglio caldamente la lettura completa della rubrica Scrivere una Storia!
Il Plot di Joker
Joker è un film del 2019 diretto da Todd Phillips e basato sull’omonimo personaggio della DC. Il protagonista è impersonato da Joaquin Phoenix, che ha perso ben 24 chili per ricoprire il ruolo. La pellicola ha riscosso grande successo e polemiche, a causa di alcune implicazioni socio-politiche denunciate da una parte della critica.
Joker vanta una splendida colonna sonora realizzata dalla violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir, già conosciuta per Soldado e la miniserie Chernobyl; una fotografia d’eccezione da parte di Lawrence Sher e notevoli influenze scorsesiane, da Taxi Driver a, soprattutto, Re per una notte. Il film ha vinto il Leone d’oro alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, due Golden Globe e due premi Oscar (miglior attore e miglior colonna sonora) su undici candidature, tra cui quella per il miglior film.
Qui la trama (con spoiler) secondo Wikipedia:
«In una Gotham City sempre più preda del degrado e della disuguaglianza sociale, Arthur Fleck è un individuo profondamente alienato che vive con l’anziana madre Penny in un appartamento dei bassifondi: oltre a una perenne depressione, l’uomo soffre di un raro disturbo che gli provoca improvvisi e incontrollabili attacchi di risate, specie in momenti di forte tensione. Il suo sogno sarebbe quello di diventare un cabarettista come il suo idolo, il presentatore televisivo Murray Franklin, ma la mancanza del talento necessario lo costringe a guadagnarsi da vivere come pagliaccio. La sua squallida routine è risollevata solo dalle fugaci visioni di Sophie, la vicina di casa di cui si è invaghito dopo che lei gli ha rivolto una parola gentile in ascensore.
Mentre il noto miliardario Thomas Wayne si candida a sindaco dopo che è stata diffusa la notizia di grossi tagli alla spesa pubblica, tra cui il servizio di assistenza sociale di cui Arthur beneficiava, durante un turno di lavoro quest’ultimo subisce un pestaggio da parte di alcuni teppisti: saputo della disavventura, un collega gli presta una pistola per difendersi ma questa gli cade di tasca durante un’esibizione per i bambini ricoverati in un ospedale pediatrico facendogli perdere il posto. Quella stessa notte, mentre torna a casa in metropolitana ancora truccato da pagliaccio, Arthur viene preso di mira da un gruppo di giovani yuppie a causa della sua condizione ma stavolta estrae la pistola e li uccide.
L’identikit dell’assassino, unito al fatto che le vittime fossero degli impiegati di Wayne e che proprio questi definisca dei “clown” chi gode della loro morte solo perché più poveri di loro, fa sì che sempre più persone tra le classi sociali più disagiate si identifichino nel misterioso giustiziere e protestino mascherati da pagliacci contro Wayne. Il senso di rivalsa scaturito dall’omicidio dà ad Arthur la fiducia necessaria per dichiararsi a Sophie, con cui comincia una relazione, e per fare il suo primo provino come cabarettista; poco dopo, aprendo una delle tante lettere rispedite al mittente che la madre scrive in continuazione a Wayne, Arthur scopre che quest’ultimo potrebbe essere il padre che non ha mai conosciuto per via di una sua relazione illecita con la donna, che lavorava per lui come segretaria negli anni cinquanta.
Allontanato da Villa Wayne dal maggiordomo Alfred dopo aver scambiato qualche parola con il piccolo Bruce, Arthur riesce a infiltrarsi a un evento di beneficenza di Wayne per chiedergli spiegazioni, ma il magnate afferma che la donna non solo sia una malata mentale ossessionata da lui che ha inventato tutto, ma che Arthur non sia neanche suo figlio: avvilito, quest’ultimo è poi costretto ad assistere a Franklin che deride il suo malriuscito provino in diretta TV. Recatosi all’ospedale psichiatrico Arkham Asylum per capire come stanno le cose, Arthur scopre da un referto che Wayne aveva ragione: sua madre soffre di disturbi psichici e, dopo averlo adottato da piccolo per far sì che sembrasse il figlio di Thomas, ha lasciato che l’uomo con cui conviveva abusasse più volte di lui, evento che lo ha traumatizzato per sempre causando anche la sua risata. Tornato a casa si rende inoltre conto che la sua malattia è peggiorata a tal punto da aver allucinato ogni suo momento insieme a Sophie, per la quale è un completo estraneo e che ormai la polizia lo ha identificato come l’assassino dei tre broker.
Senza più nulla da perdere, lascia l’appartamento di Sophie dopo aver ammesso di aver avuto una brutta giornata e si rintana nel suo appartamento nel quale, dopo aver ucciso Penny (ricoverata in ospedale per un ictus) elimina con delle forbici anche il collega che gli aveva prestato la pistola (che aveva seminato maldicenze su di lui presso il suo ex datore di lavoro). Arthur realizza poi un nuovo trucco da pagliaccio e si rinomina Joker (epiteto con cui il presentatore lo aveva apostrofato nella sua trasmissione) accettando la proposta di Franklin di apparire in un episodio del suo show con l’intenzione di suicidarsi in diretta. Mentre la più grande manifestazione dei clown anti-Wayne monta fuori, la situazione in studio trascende e Arthur, dopo aver rivelato di essere lui l’assassino della metropolitana, accusa Franklin, Wayne e i gothamiti come loro di essere i responsabili di ciò che è diventato, per poi uccidere il presentatore in diretta.
Il gesto scatena la folla, che mette a ferro e fuoco la città, e poco dopo Wayne e sua moglie Martha vengono uccisi in un vicolo davanti al figlio da uno dei clown. Arthur, arrestato per gli omicidi commessi, viene inizialmente fatto scappare dalla volante della polizia che lo aveva preso in custodia, dalla folla, che distrugge la volante tamponandola con un ambulanza e uccidendo il guidatore. Arthur, svenuto per l’incidente, si sveglia vedendo la gente che lo acclama, sale sulla volante distrutta e balla per la folla per il quale è un idolo, e con il suo stesso sangue si disegna un sorriso sulle labbra. Successivamente viene rinchiuso all’Arkham Asylum: qui trova una nuova psichiatra, che gli chiede di raccontarle la barzelletta che lo ha spinto a ridere tra sé e sé; dopo averle risposto che non l’avrebbe capita, Arthur si mette a correre tra i corridoi per sfuggire agli infermieri lasciando dietro di sé una scia di impronte di sangue, probabilmente della psichiatra stessa da lui appena uccisa».

Un Film di Supereroi?
L’interpretazione del protagonista da parte di Joaquin Phoenix ha colpito tutti, nel bene e nel male. C’è chi è rimasto vittima della propria sensibilità; c’è chi è rimasto scosso positivamente da tanto pathos; c’è chi ha trovato il personaggio un tantino troppo “pazzo”, soprattutto rispetto ai canoni, veri o presunti, del Joker dei fumetti.
Occorre una precisazione: non sono un fan della DC, della Marvel, dei cinecomics e così via. Non provo alcun interesse a riguardo e la mia visione di Joker è stata priva di preconcetti. Un’opera, del resto, dovrebbe essere valutata in base a com’è stata concepita: singolarmente, se si tratta di una storia singola, e diversamente, se la storia si frammenta in diversi prodotti (un serial, una trilogia ecc.). Joker è molto chiaro in proposito e fa della sua unicità motivo di vanto, nonché una delle ragioni del suo successo.
È inusuale, dal momento che molti film Marvel, per esempio, sono a malapena guardabili se presi singolarmente, soprattutto da un profano. Scorsese affermò, lo stesso anno in cui uscì Joker, che i film Marvel non sono cinema, ma parchi a tema. Fu sommerso dalle critiche, e infatti diceva il vero: i film di supereroi realizzano le fantasie degli amanti dei franchise. Ricreano, come certi diorami natalizi da palle di vetro, gli scenari e le situazioni sognate dai giovani fan.
Nei film di supereroi i personaggi sono sagome, non persone reali, e queste sagome si danno battaglia in un safe space con qualche variazione sul tema. Non c’è la minima traccia di verosimiglianza, di visceralità, rotture interiori, visioni della vita che si scontrano e sintesi, nuove interpretazioni della realtà che nascono. No, perché della realtà stessa non rimane nulla. Del resto, nel mondo non vincono i buoni, ammesso che esistano i buoni e i cattivi.
La realtà non è didascalica e moralista ma crudele, inaspettata, rischiosa, stupefacente… tutto ciò che film del genere non possono essere, proprio come in un parco giochi il “brivido” è artefatto e nessuno può volare giù dalle montagne russe. I film di supereroi devono accontentare tutti, devono piacere a tutti i fan e, pertanto, non possono prendere posizione. Sono un gigantesco e costoso cosplay; una fiera, un evento, non delle storie fatte di esperienze umane. Semmai, sono una parodia delle esperienze umane.
Ecco, Joker è l’opposto di tutto questo. In Joker non c’è il bathos tipico dei cinecomics, ma vero pathos, vero dramma. Il film ha sconvolto il pubblico per tanti motivi, e questo è senz’altro uno di essi: Joker è vero. Le emozioni sono carnali, la sofferenza è tangibile, la violenza è inaspettata ed efferata. Non ci sono sconti, remore, limiti: il film si preoccupa di narrarci la storia di un uomo, non di soddisfare le nostre fantasie sul personaggio. Non intende confortarci o dirci, per l’ennesima volta, cos’è giusto; non vuole validare le nostre certezze morali o fornirci fantasie di potere.
Joker è precisamente il villain dei film di supereroi e per questo, a dispetto del personaggio di cui parla, non è un film di supereroi. Le parole di Scorsese non potrebbero mai trovare fondamento in questo film, e presto vedremo insieme il perché. Una premessa, prima di iniziare: l’analisi contiene numerosi spoiler, perciò rinviate la lettura se non avete ancora visto il film.
Joker – Atto Primo
Il film inizia mostrandoci immediatamente il protagonista, Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), truccato da pagliaccio e alle prese col suo sorriso. È una scena emblematica, dal momento che riguarda il Tema portante della storia, come vedremo in seguito. Ed è un riferimento al futuro che aspetta il nostro Arthur. La simmetria tra inizio e fine è un elemento ricorrente nelle opere ben strutturate; ricordate i frattali di John Yorke?
Nel frattempo, un notiziario ci spiega la situazione: la città di Gotham è in preda al crimine, al caos, alla povertà… ed è in totale decadenza. Il ruolo introduttivo del notiziario è tipico e passa in sordina, ma ci aiuta a comporre un quadro a colpo d’occhio dell’ambientazione. Lo squallore prende vita quando, subito dopo, il povero Arthur viene derubato del suo cartellone pubblicitario e pestato selvaggiamente da un branco di ragazzini.
Col title drop assistiamo alla prima scena di violenza ingiusta perpetrata nei confronti di Arthur. L’inquadratura che si allarga e le note lugubri, stranianti e dissonanti della colonna sonora impostano immediatamente il tono della storia. E qui troviamo il primo capovolgimento, altro elemento ricorrente del film: il povero clown viene derubato e insegue i ragazzini, ma le parti s’invertono di colpo e sono loro a braccare il malcapitato. Sembra uno skit comico, ma l’effetto è tutt’altro che comico.
È interessante notare come Arthur ingoi il rospo e, in seguito, giustifichi l’accaduto. «Erano solo dei ragazzi, dovevo lasciar perdere». Sembra che il Nostro sia abituato a vessazioni di questo genere, e che le medesime non riescano a minarne lo spirito. Ciò che lo colpisce di più è la sfiducia del suo capo, che non crede alla sua storia e gli chiede di ripagare il cartellone.
Il film introduce subito uno dei tratti distintivi di Arthur: la sua risata patologica, altra sofferenza ingiusta che gli procura un sacco di grane e lo relega ai margini della società. Ritroviamo quindi il sorriso ma, ancora una volta, con un’inversione: Arthur sembra ridere di gusto, eppure… è l’esatto contrario. Vorrebbe soffocare quella risata ed essa si tramuta, dopo qualche minuto, in smorfie di sofferenza e colpi di tosse.
La sceneggiatura inizia a costruire l’empatia per il povero Arthur fin dalle prime battute, e continuerà per un bel po’. Rientrato a casa, vediamo come il Nostro si prodighi per mantenere e aiutare la madre malata, con cui convive. Dai suoi sforzi iniziamo a capire che, nonostante tutto, Arthur cerca di lottare con la vita, invece di piangersi addosso. Non ne avrebbe il tempo, del resto. E guardando un programma TV, una sorta di Tonight Show con Murray Franklin (Robert De Niro) come conduttore, fantastica di essere acclamato, di essere amato dal conduttore stesso, che vede come una sorta di padre putativo.
Arthur fa una gran pena, al limitare del patetico e del melodrammatico, e mostra un’altra caratteristica interessante: l’ingenuità, la purezza del suo animo. Nonostante lo schifo che investe la sua vita, Arthur sogna di diventare un comico, di essere apprezzato e accettato; di essere una persona normale, nonostante non riesca minimamente a comportarsi come tale, soprattutto a causa della sua malattia mentale. Del resto, la madre lo chiama “Happy” e, afferma Arthur: «Mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo».
Le ingiustizie che il Nostro subisce al lavoro e l’ambientazione tetra e squallida continuano a farcelo compatire. A proposito di ambientazione, è interessante come il film non cerchi di dissimulare di essere ambientato a New York, nonostante la città venga chiamata “Gotham“. È un altro capovolgimento: il simbolo del benessere e della “meraviglia” statunitense è usato, nel film, come emblema del degrado, della povertà, della solitudine e dell’oppressione dell’anima umana.
E funziona alla grande! La fotografia e le scenografie fanno un ottimo lavoro grazie a certi dettagli e chiaroscuri, ma sono i grattacieli, gli slum e il cemento soffocante del Moloch newyorchese a fare la differenza. Del resto, lo stesso sogno americano è capovolto in Joker, poiché Arthur aspira ingenuamente allo star system ma non ne diventa parte e vive nella miseria più totale. Ne parleremo meglio più tardi.
Arthur finisce per spiare una ragazza da cui è attratto, a mo’ di stalker, tanto ha bisogno d’amore. È inquietante, ma il lavoro svolto dalla sceneggiatura ce lo fa osservare con gli occhi della pietà, piuttosto che con quelli del disgusto. Abbiamo, dunque, lo status quo del nostro protagonista, ed è il momento che la storia prenda piede…
… Cosa che accade quando un collaboratore, Randall, regala ad Arthur una pistola, così che possa difendersi («perché sono tuo amico»). Il nostro eroe, però, la fa cadere per errore durante il suo numero in un ospedale pediatrico (altra scenetta tragicomica) e viene licenziato per via telefonica. Durante la telefonata, Arthur viene a sapere della menzogna di Randall: il suo “amico” ha detto al capo, infatti, che Arthur avrebbe provato a comprare da lui la sua calibro 38 la settimana precedente.
È un duro colpo, per Arthur… che dà una testata alla cabina telefonica e ne incrina i vetri. È una scena altamente simbolica, perché si tratta del primo crack nelle convinzioni e nel sistema di sopravvivenza del protagonista. È l’Incidente scatenante, il momento in cui la vita ordinaria di Arthur viene spezzata e che innesca un conflitto interiore nell’uomo. Non solo, infatti, il poveretto ha perso il lavoro, ma è stato tradito da qualcuno che considerava “amico”.
Nella scena successiva, Arthur viene aggredito in metropolitana. I colpevoli sono tre borghesi di Wall Street, spregiudicati e violenti. La scena è la seguente: i tre importunano una ragazza, l’unica altra astante nel vagone a quell’ora di notte, e Arthur, vestito da pagliaccio poiché di ritorno dal lavoro (dopo il licenziamento), ha una delle sue crisi.
La risata di Arthur è spaventosa in quel frangente: fosse stato un altro film (IT, per esempio) avremmo temuto per la sorte dei tre yuppies. Ma sono loro ad avvicinarsi ad Arthur, con fare inquietante e cantando una canzone… e iniziano a pestarlo a morte. È a quel punto che Arthur estrae la pistola e apre il fuoco, uccidendoli.
La scena non è solo girata benissimo, ma è geniale: viene ribaltata per ben due volte (ricordate il capovolgimento?) e lo scoppio di violenza da parte di Arthur, oltre a essere realistico e d’impatto, è pienamente giustificato agli occhi dello spettatore. Ha ucciso, ma stiamo facendo il tifo per lui. Ecco cosa accade quando si costruisce l’empatia per il protagonista nel modo giusto, e ordinando gli eventi nel giusto ordine.

Dopo il triplo omicidio, Arthur corre a nascondersi, agitatissimo, e inizia a ballare in un bagno pubblico. Il ballo stona con la violenza appena commessa e il sangue di cui è intriso, come sottolineano il violoncello dissonante di Hildur e le voci angeliche, ma Arthur è un uomo fatto di contrasti, Joker è un film fatto di contrasti, la realtà è fatta di contrasti. Il ballo sembra calmarlo e ha un sapore liberatorio; del resto, la violenza stessa è stata una liberazione da parte di Arthur che, nelle scene successive, si sente ringalluzzito da essa: bacia la ragazza che gli piace e prova a realizzare il suo sogno di diventare uno stand up comedian.
L’omicidio dei borghesi rappresenta senz’altro il Richiamo all’azione della struttura di Joker. È il momento in cui Arthur prende parte al processo di cambiamento ormai iniziato, invece di rifuggirlo. Potrebbe ingoiare il rospo per l’ennesima volta, ma qualcosa lo spinge a pensare e comportarsi in modo diverso. Tuttavia, egli non abbandona il sogno, l’ingenuità, il suo bisogno di normalità e accettazione, ma ora crede, invece, di meritare tutto ciò e di poterlo raggiungere, perché si rende conto di valere quanto e più degli altri. Non me ne voglia Totò, ma la violenza, in Joker, è una livella.
A una nuova seduta con la sua terapista, Arthur mostra tale cambiamento. Non si limita a cercare di controllare la sua risata, non appare come un uomo distrutto: stavolta, Arthur si accorge dell’assenza mentale della sua terapista e pretende di essere ascoltato. «Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente… ma esisto, e le persone iniziano a notarlo», afferma. Grazie alla violenza, Arthur ha cessato di essere invisibile.
La terapista, però, lo ferma e la scena si ribalta. Il governo ha tagliato i fondi ai servizi sociali: è la loro ultima seduta. «A loro non importa nulla di quelli come te. Né di quelli come me», aggiunge. È una bordata al rinnovato entusiasmo di Arthur, che si chiede come farà coi medicinali e con chi parlerà dei suoi problemi. È uno dei Momenti determinanti che mettono a nudo la realtà delle cose, nonché il difetto fatale di Arthur.
Il caso dei tre borghesi scuote l’opinione pubblica. In una Gotham divisa tra ricchi e poveri, questi ultimi solidarizzano col killer e iniziano a mascherarsi da clown per protesta contro l’establishment. Da parte loro, istituzioni e media parlano per settimane della strage, inorriditi, e il candidato sindaco Thomas Wayne ne fa una battaglia per riportare Gotham alla “normalità”. Sono proprio le affermazioni classiste del miliardario Wayne (che parla di “invidia” ed etichetta come “clown” tutti quelli che non hanno combinato niente nella vita) a causare le sollevazioni di cui sopra.
Arthur scopre che, a detta di sua madre Penny, sarebbe il figlio illegittimo di Thomas Wayne, che non avrebbe riconosciuto l’unione per salvare le apparenze. La madre di Arthur è una ex-dipendente di Wayne ed è ossessionata da lui; continua a scrivergli lettere su lettere senza ottenere mai risposta. Arthur vuole vederci chiaro; del resto, i suoi bisogni interiori lo spingono a cercare la verità, dal momento che ha sempre sognato un padre e Wayne rappresenterebbe il suo ingresso nella società, la sua accettazione. Wayne sarebbe la soluzione a tutti i suoi problemi.
Arthur si reca, quindi, alla tenuta Wayne, dove incontra il giovane Bruce, figlio di Thomas e, nell’immaginazione di Arthur, suo probabile fratellastro. Nonostante il nostro eroe si dimostri affabile e affettuoso col bambino, viene trattato come un appestato e gli viene detto che sua madre è matta e l’ha riempito di fandonie. Arthur rifiuta di credere a quelle parole e non si dà per vinto.
È il primo punto di svolta di Joker, il Risveglio. L’idea che tutto sia inutile e falso, che la vita che sogna non esiste, inizia a strisciare dentro Arthur. La sua inconsapevolezza cede il passo a una fase di resistenza interiore: invece di lasciar perdere, Arthur si aggrappa alla possibilità di essere il figlio di Wayne con tutte le sue forze. È un’idea remota, folle, ma è tutto ciò che rimane al suo difetto fatale, al suo bisogno di normalità e accettazione.
Se così non fosse, infatti, Arthur sarebbe finito. Non tanto e non solo perché vedrebbe sfumare quella speranza, ma perché ciò comprometterebbe la figura di sua madre, che rappresenta il fulcro del “bene”, dei valori e della società nel suo cosmo interiore. Come se non bastasse, due detective interrogano Penny e scatenano una crisi nella povera donna, che viene ricoverata. Sembra che Arthur sia sospettato e che i detective siano sulla pista giusta. Al solito, anche loro lo trattano senza il minimo riguardo… e la scena termina con un elemento comico: Arthur che sbatte contro la porta a vetri.
Joker – Atto Secondo
Così inizia il Secondo Atto, con la Spinta verso il punto di rottura. Arthur è passato dal Mondo Ordinario all’ignoto del Mondo Straordinario, in cui le certezze vacillano, i sogni muoiono e le cose non sono come sembrano. La sua tensione interiore si tende sempre di più, la sua visione della vita non trova più appigli.
In ospedale, lo show di Murray mostra uno spezzone dello spettacolo di stand up comedy di Arthur: era talmente “ridicolo” che qualcuno lo aveva ripreso e segnalato alla trasmissione televisiva. Il presentatore e il pubblico si prendono gioco di Arthur, della sua performance e dei suoi sogni, ignari, tra l’altro, del disturbo di cui soffre. Ciò spezza il cuore di Arthur e provoca un risentimento profondo nei confronti di Murray, che il Nostro vedeva come un padre putativo, un punto di riferimento e arrivo (il comico di successo che sarebbe voluto essere).
In seguito, Arthur riesce a intrufolarsi a un evento di beneficenza, dove incontra Thomas Wayne. Questi lo respinge, conferma la pazzia della madre e gli dice che è stato adottato, ma Arthur non vuole sentire ragioni e… si becca un bel cazzotto in faccia (l’ennesimo sopruso ingiustificato). Subito dopo, il nostro riesce a scoprire le carte che attestano la sua adozione e gli abusi che l’ex compagno di Penny avrebbe commesso nei suoi confronti, avallati dalla madre stessa (già delirante all’epoca).

Insomma, sembra che l’amata Penny sia la causa della malattia mentale di Arthur, in fin dei conti.
Empatia, empatia, empatia. La sceneggiatura non cessa un attimo di vessare il povero Arthur, di farci provare i suoi tormenti, di renderlo l’agnello sacrificale di un sistema ingiusto. Il film non ci dice quale sia la verità: non sappiamo se Wayne, con la sua influenza, abbia manomesso le carte, come afferma Penny, né di cosa sia realmente responsabile. Ciò che emerge, però, è la totale responsabilità della donna.
Crollano tutte le illusioni. La fidanzata di Arthur non sa nemmeno chi sia: la loro relazione era uno dei sogni a occhi aperti di Arthur, una delle sue pazze allucinazioni. Tale rivelazione avviene fuori POV, in modo assai sgraziato e diretto nei confronti dello spettatore, così da fugare ogni dubbio. Eppure, non sembra sia bastato: molti non avevano capito che si trattasse di una relazione immaginaria, nonostante la scena esplicativa.
Il cervello delle persone è talmente malandato che alcuni hanno ipotizzato l’omicidio della ragazza da parte di Arthur, nonostante non esista alcuna scena o indizio in proposito. In ogni caso, la caduta di stile da parte della sceneggiatura conferma l’intuizione della stessa: le scelte “democratiche” non hanno senso in un’opera del genere. A questo punto, però, si poteva anche evitare un errorino del genere.
Niente carriera, niente successo, nessun amore, nessun affetto… la realtà finalmente si rivela per quello che è e dissipa quelle poche, ingenue speranze a cui Arthur si aggrappava. La tensione si spezza, la Spinta verso il punto di rottura arriva alla rottura. Il sogno americano è una farsa per quelli come lui. Arthur torna da Penny, sul letto di ospedale, e rivela ciò che ha capito: «Mi hai sempre detto che la mia risata era un disturbo… ma questo è il vero me». Arthur ha sempre soffocato la sua risata, l’ha sempre respinta invece di accettarla. Invece di accettare la sua anormalità.
In una scena precedente, Arthur aveva appuntato la seguente frase sul suo diario: «La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi». La risata è Arthur, per quanto essa possa apparire inadeguata a quelli che lo circondano. Si arriva, così, alla rivelazione finale, al Momento di illuminazione, al midpoint dell’opera: «Ho sempre pensato alla mia vita come a una tragedia. Adesso vedo che è una commedia». E Arthur soffoca Penny con un cuscino.
È una scena forte e simbolica. Uccidere Penny, la madre che l’ha generato e con cui si è sempre identificato, significa uccidere il vecchio Arthur. È un omicidio/suicidio, l’atto propedeutico alla successiva rinascita. Per inciso, è interessante (e patetico) notare come tutte le frasi importanti del film siano state ripulite dalle parolacce nella traduzione italiana.
Tornando a noi, l’affermazione proferita da Arthur è estremamente significativa. Lui ha sempre pensato di essere un emarginato, un anormale; è ciò che la società ha continuato a ribadire in un modo o nell’altro. Del resto, ha vissuto da schifo, ai margini, violentato e bistrattato. Ma era una bugia. È la società ad averlo trasformato, masticato e sputato: non è nato con quella malattia, gliel’hanno causata.
Arthur capisce di aver vissuto nella menzogna per tutta la vita. La televisione dice il falso; i media dicono il falso; le istituzioni, la società, il sogno americano… tutto ciò in cui credeva era una balla, incluso l’amore della madre. Arthur capisce che non sarà mai uno di loro, che non verrà mai accettato, non avrà mai successo. E tutto ciò è ironico; la sua vita è ironica, perché è un capovolgimento. “Happy”, del resto, odiava la sua risata. Era portato a odiarla, ma non avrebbe dovuto.
Questa rivelazione libera Arthur. Come lui stesso ammetterà, non ha più nulla da perdere. E adesso che è davvero libero può condurre il dramma come meglio crede. È libero di trasformare la tragedia in commedia, in una storia divertente e ricca di risate, priva di quei freni che hanno perso qualunque validità ai suoi occhi. Del resto, la violenza gli ha insegnato che sì, è possibile fare ciò che si vuole. Da qui inizia la storia di Joker, attraverso una serie di scene ispirate a Re per una notte e Taxi driver, tra le varie citazioni.
Un’assistente di Murray chiama Arthur per invitarlo alla trasmissione. Pare che il pubblico abbia risposto così bene allo spezzone del suo spettacolo da volerlo vedere dal vivo. È chiaro che intendono solo percularlo in mondovisione; vogliono umiliarlo, calpestarlo ancora una volta. Lui lo sa e accetta: intende suicidarsi in diretta con un’ultima battuta, spiazzando tutti come un vero trickster. E così, inizia a truccarsi e prepararsi.
L’omicidio di Randall è il primo atto di un uomo libero. Un omicidio inebriante e perfino comico: la scena del nano che non riesce ad arrivare alla maniglia della porta ripropone il capovolgimento di tono e di valori. Ci sono le tinte della tragedia, sì, ma si tratta di una commedia (o una tragicommedia, se vogliamo). È come se il film ci stesse dicendo che sì, la violenza e l’omicidio possono essere divertenti.
Arthur sembra in estasi dopo l’omicidio: siede nella pozza di sangue di Randall e chiude gli occhi, rilassato. È la Grazia: il momento in cui il nostro eroe, per la prima volta, si trova in pace con sé stesso, grazie alla rinnovata lucidità d’animo e visione del mondo acquisita nel Momento di illuminazione. La scena della scalinata, poi, rappresenta la nascita ufficiale di Joker, la sua prima uscita in pubblico, alla luce del sole. È anch’esso un momento di Grazia.
Il pezzo upbeat di Gary Glitter introduce la discesa del nostro eroe, simile all’ingresso di un attore e simbolica della sua discesa nella follia. Non è un caso che la cima della scalinata sia ammantata di luce. Hildur spezza la commedia col suo violoncello, destabilizzando e distruggendo, trasfigurando e capovolgendo. Da commedia a tragedia, da tragedia a commedia… e la solennità delle note, accompagnata dal ballo, sottolinea l’importanza del momento. Signori e signore, Joker!
A questo punto, il Nostro viene braccato dai detective in un inseguimento a perdifiato (in cui, tra l’altro, rischia la vita). È la Caduta: ora che il suo nodo interiore è stato sciolto, i problemi dell’eroe tornano a galla più forti di prima. Fortunatamente, Joker riesce a disfarsi dei suoi inseguitori nella metropolitana, seminando il caos con estrema soddisfazione.
Proprio quel giorno, infatti, i riottosi travestiti da clown si stanno riunendo per un’oceanica manifestazione sotto i palazzi del potere. Come la psiche di Arthur, la società stessa è ormai una polveriera pronta a esplodere. Il modo in cui la città rispecchia Joker e viceversa è un colpo da maestro, poiché permette di sottolineare lo stato d’animo del protagonista con efficacia. I detective, dal canto loro, uccidono un innocente durante l’inseguimento e vengono pestati quasi a morte dalla folla inferocita.
La scena è interessante per vari motivi. Oltre a essere d’impatto e ben realizzata, essa mima l’apertura del film, quando il povero Arthur insegue i ragazzini e viene colpito dal cartellone, per poi essere pestato dal branco. Ebbene, ciò che succede tra Joker e i detective è la stessa identica cosa. Stavolta, però, è Joker a fregare la società e non il contrario. Inoltre, la maschera sul cestino della spazzatura sottolinea come Arthur si sia liberato, finalmente, della Persona (in senso junghiano) che ha indossato per tutta la vita.
Una volta in camerino, pronto per la puntata, Arthur viene avvicinato da Murray e il suo collaboratore (il comico Marc Maron). Quest’ultimo lo tratta come un pazzo ed è scettico della sua partecipazione, ma Murray è convinto che funzionerà… sebbene neanche ricordi di averlo chiamato Joker (talmente è poco importante la sua esistenza). Il nostro eroe è diverso, in questa scena: sembra tornare l’Arthur del passato, a cospetto del suo padre putativo Murray.
Subito dopo la conversazione, Joker si lascia cadere sulla sedia e punta la pistola sotto il mento. Forse intende fare delle prove del suo suicidio in diretta; forse gli è balenata l’idea di uccidersi immediatamente; forse si sta solo rilassando, o ci sta pensando. Non possiamo saperlo. Quello che vediamo, però, è un Joker spento, meno entusiasta del solito.
È, a mio avviso, l’Esperienza di morte, o 2° turning point: il nostro eroe fronteggia l’emblema della società e dell’autorità, la figura che idolatrava in passato e verso cui prova un certo timore reverenziale. Joker è tornato Arthur di fronte a Murray, come se fosse stato sconfitto; come se tutto ciò che ha fatto fosse stato inutile. Si entra, così, nel Terzo Atto.
Joker – Atto Terzo
La Discesa inizia nella scena seguente, quando, dietro le quinte, Joker assiste allo spettacolo infame che lo vede vittima dell’ilarità altrui.
Murray e gli ospiti in studio si prendono gioco dei suoi spezzoni di stand up comedy prima di invitarlo sul palco. Joker osserva la scena con uno sguardo vitreo e un’espressione fredda: la rabbia sta montando dentro di lui. Si sente tradito, ancora una volta, dal suo amato Murray. È di nuovo, agli occhi di tutti, l’Arthur strambo, ridicolo, emarginato, vessato e ripudiato da chi gli si crede superiore.
Per inciso, è possibile interpretare questa scena come l’Esperienza di Morte e la successiva come l’inizio della Discesa. Alcuni elementi della struttura da me riportati possono essere scambiati o spostati, ma solo di una scena o due; del resto, ciascuno step sfuma e si fonde col successivo senza soluzione di continuità.
Dietro il sipario, Hildur suona la sua sinfonia dissonante e Joker balla in modo inquietante… finché il sipario non si apre e il ballo diventa frizzante, simpatico, e la musica da cabaret rimpiazza la violoncellista. Ancora, capovolgimento. Ancora, tragedia e commedia. È interessante notare come, prima di entrare in scena, le movenze e la fisicità di Joker lo riavvicinino all’Arthur che abbiamo visto nelle prime fasi del film, per poi cambiare di punto in bianco una volta sul palco.
Come previsto, l’intervista di Arthur/Joker non è altro che un pretesto per prenderlo in giro. Il trucco da pagliaccio non ha nulla a che fare con la protesta che imperversa là fuori e Joker afferma di non voler trasmettere alcun messaggio politico… eppure, la conversazione inizia a scaldarsi da quel punto di vista. Joker sa che dovrà ammazzarsi, ma comincia a ripensarci. Aprendo il suo quaderno delle battute, l’occhio gli cade su una frase che scrisse in passato: “Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita“.
E che senso avrebbe, se la facesse finita proprio lì, in quell’istante? Il vecchio Arthur si suiciderebbe; del resto, vive in una tragedia. Lo farebbe per colpire la società, da cui è comunque soggiogato. Beh, non il nuovo Arthur. È il Momento di trasformazione, il momento in cui Joker prende una decisione diversa rispetto a quella che avrebbe preso in passato. Decisione che conduce al climax della storia e alla dimostrazione della sua metamorfosi.
Joker vuota il sacco: è stato lui a uccidere i tre ragazzi. Murray gli chiede come può credergli; «Niente può più ferirmi», risponde Joker. «Non ho più nulla da perdere, perché la mia vita è una commedia». Murray gli chiede, in tono retorico, se uccidere delle persone lo faccia ridere, e Joker risponde: «Sì. E sono stanco di fingere che non sia così». E dice il vero, perché uccidere quei tre lo ha reso davvero felice. Come uccidere Randall.
Murray lo incalza, disgustato, e Joker si scalda. «Voi decidete cos’è giusto e cos’è sbagliato, allo stesso modo di cosa fa ridere oppure no». Joker fa riferimento ai media, al sistema, all’establishment… e, senza neanche volerlo, il discorso prende una piega politica. «Credete che Wayne si metta nei panni di uno come me?». Finché, la scena madre: «Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io che cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti!».

E uccide Murray. È il climax della storia.
È sovversione al massimo livello, […] senti l’atmosfera in sala che cambia. […] La cosa profonda è questa: non è solo suspense, non è solo affascinante ed eccitante, il regista capovolge il pubblico, perché il Joker è un matto del cazzo, e il personaggio di Robert De Niro nel talk show non è il tipico cattivo di un film. Sembra uno stronzo, ma non è più stronzo di David Letterman. Non merita di morire. È solo uno stronzo spiritosone da talk show. Eppure, mentre gli spettatori guardano il Joker, vogliono che uccida Robert De Niro. Vogliono che tiri fuori quella pistola, gliela ficchi nell’occhio e gli faccia saltare quella cazzo di testa. E se il Joker non l’avesse ucciso? Ti saresti incazzato. Questa è sovversione ai massimi livelli! Spingono il pubblico a pensare come un fottuto lunatico, a volere quello che non vorrebbe. Lo spingono a mentire: “No, non deve succedere!” E invece è una cazzo di bugia, eccome se lo vuole!
Quentin Tarantino (da un podcast di Empire Magazine)
La trasmissione viene interrotta (in uno dei televisori vediamo una guardia che placca Joker) e ritroviamo il Nostro in un’auto della polizia. Fuori, Gotham è devastata dalla guerriglia urbana, messa a ferro e fuoco dai manifestanti, tutti mascherati da clown. Lui è in manette, eppure ha un’espressione placida sul volto e risponde in modo ironico al disprezzo dei poliziotti: è libero, nonostante tutto. È l’ennesimo capovolgimento.
Ma i ribaltamenti non sono finiti: la quiete viene infranta da un incidente automobilistico di estremo impatto, in cui è coinvolto il nostro Arthur. I manifestanti lo estraggono dalle lamiere e lo ergono a mo’ di simbolo, di Santo, di martire. Thomas Wayne viene ucciso da un balordo, davanti agli occhi del piccolo Bruce. La musica s’inverte per l’ennesima volta e Joker balla tra le fiamme: è il suo trionfo, il suo successo… eppure, le note drammatiche di Hildur continuano a farci tremare.
È la Risoluzione di Joker, in cui vediamo le implicazioni della trasformazione di Arthur, gli effetti dell’elisir con cui egli ha benedetto il mondo. L’elisir della violenza, mi verrebbe da dire, che ha liberato quelli come lui da una masquerade durata troppo a lungo. Ricordate? Gotham è lo specchio di Joker.
La scena di chiusura ci mostra il nostro eroe in manicomio. Ormai non gli importa più di essere accettato, e il fatto che si rifiuti di comunicare la sua battuta alla strizzacervelli conferma la trasformazione. «Tanto non capiresti». Subito dopo lo vediamo correre al rallentatore, sulle note allegre di That’s Life di Sinatra, nei corridoi dell’Arkham Asylum. Ha le suole sporche di sangue (presumibilmente della strizzacervelli, ma non ci è dato saperlo) e alcune persone tentano di bloccarlo.
The End.
Lo specchietto della struttura è il seguente:
Atto I (Inconsapevolezza) | Atto II (Esaurimento e consapevolezza) | Atto III (Rinnovamento) |
Incidente scatenante: il licenziamento e il tradimento di Randall | Spinta verso il punto di rottura: il tradimento di Murray; la scoperta delle bugie di Penny; la verità sulla relazione con Sophie | Discesa: l’umiliazione allo show televisivo |
Richiamo all’azione: l’omicidio dei tre ragazzi | Momento di illuminazione: l’epifania all’ospedale e l’omicidio di Penny | Momento di trasformazione: Joker rifiuta di suicidarsi e… |
Momento determinante: le parole della terapista; le parole di Sophie | Grazia: l’omicidio di Randall e il ballo sulla scalinata | Climax: … uccide Murray |
Risveglio (primo turning point): la visita alla tenuta Wayne | Caduta: l’inseguimento in metropolitana | Risoluzione: Gotham in fiamme e la folla che acclama Joker |
Esperienza di morte (secondo turning point): l’incontro con Murray e il ritorno del vecchio Arthur |
Tragedia & Commedia – L’Impianto Tematico di Joker
Joker tocca tanti argomenti: povertà, malattia mentale, abbandono, solitudine e isolamento. Parla della metropoli, del ruolo della violenza, delle proteste popolari, della stand up comedy, del classismo e del capitalismo e così via. Approfondiremo alcuni di questi aspetti, ma nessuno di essi rappresenta il Tema portante della storia. Quello ha a che fare, a mio avviso, con la Commedia e la Tragedia, sul cui dualismo si struttura l’intera impalcatura dell’opera.

Abbiamo visto come il film operi una serie di capovolgimenti, o inversioni/sovversioni. Musica, direzione, luci… quale che sia il meccanismo, le inversioni in questione riguardano il significato e il tono delle scene, che rimbalzano da un estremo all’altro. Tragico e comico. Deprimente e gaio. Gli elementi di contrasto sono tantissimi e confermano la cura della sceneggiatura (nonché della regia).
Il cuore di Joker risiede in quest’affermazione: «Ho sempre pensato alla mia vita come a una tragedia. Adesso vedo che è una commedia». I punti di svolta dell’opera riguardano tutti, nessuno escluso, tale capovolgimento. Accade quando Arthur viene picchiato dagli yuppies e compie il triplo omicidio; quando scopre la verità sulla sua amata madre e la uccide; quando si presenta allo show per suicidarsi e uccide Murray.
Sembrava una tragedia, l’ennesima vessazione, e invece la violenza dei tre borghesi si tramuta nella loro esecuzione e nella rivalsa di Arthur. Sembrava una commedia, un padre ritrovato e l’ingresso in società per Arthur, e invece era la tragica storia di un bambino vittima di abusi. Sembrava una tragedia comica, un suicidio ironico di punto in bianco in mondo visione, una sorta di tiro mancino… e invece era una commedia tragica, una storia di rivalsa costellata di cadaveri.
È interessante notare come, con l’avanzare della narrazione, il passaggio da tragedia a commedia e viceversa si faccia sempre più frequente, fino a verificarsi più volte nella stessa scena, fino a unire i due elementi e renderli irriconoscibili l’uno dall’altro. Tale sintesi raggiunge il suo apice nella scena finale: la corsa del nostro eroe in manicomio, in seguito al presunto omicidio della strizzacervelli, è costruita come una scenetta comica. Lo stesso Joker sembra allegro.
Eppure, sappiamo come non ci sia nulla di allegro in quella situazione. È paradossale ed è difficile esprimere a parole cosa si prova in quel frangente. Il film mette a soqquadro tutti i punti di riferimento e sembra dirci che tragedia e commedia sono due facce della stessa medaglia; che la realtà è crudele comunque la si guardi e non c’è sogno che tenga, ma che per questo non dobbiamo prenderla troppo sul serio. Arthur l’ha capito: la vita è una farsa, uno spettacolo al massacro, e ciò l’ha reso Joker. Del resto, la comicità stessa è violenza, offesa, nichilismo, distruzione. È un altro dei temi affrontati dal film.
La risata, nella forma dell’ironia e del sarcasmo, è un metodo destrutturante di difesa. Non è un caso che il popolo ebraico abbia sviluppato, nel tempo, un certo humour. Ma difesa da cosa, di preciso? Joker, attraverso le vicissitudini di Arthur Fleck, parla proprio di questo: di come l’ordine precipiti nel caos, di come i sogni si rivelino menzogna, di come in tanti, a dispetto di ciò che vediamo in televisione, vivano in una dimensione di infelicità perenne.
«La vita è una commedia per quelli che pensano, e una tragedia per quelli che sentono», diceva Jean Racine. Forse, il modo migliore per definire la realtà che viene svelata da Arthur Fleck è “la commedia della tragedia della vita“. È una recita comica, dissacrante, folle e demenziale per certi versi, ma profondamente tragica. In La Nascita della Tragedia, Nietzsche cita l’incontro tra Re Mida e il satiro Sileno:
L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto’.
Nel midpoint della storia, Arthur si rende conto che la società da cui cerca di farsi accettare è la causa della sua malattia, cioè di ciò che lo rende un emarginato. Fino ad allora, ci aveva provato con tutte le forze e non aveva ascoltato chi l’aveva messo in guardia. Probabilmente, avrebbe continuato a tentare nonostante i fallimenti… se non avesse visto oltre la coltre di menzogne.
La realtà, per Nietzsche, è un «mondo sciolto e scatenato», e lo diventa anche per Arthur. Del resto, il nostro eroe passa dalla «morale degli schiavi» a quella dei Signori, perché cessa di subire quelle imposizioni morali elaborate per sottometterlo e diventa egli stesso creatore di valori. In altri termini, ciò che funziona per lui diventa buono… nonostante cozzi col resto della società. È la trasvalutazione di tutti i valori. E che dire del ballo?
«Io vi dico: bisogna aver ancora un caos in sé per poter generare una stella danzante».
(…)
«Io non potrei credere se non in un Dio che sapesse danzare».
Così parlo Zarathustra, Friedrich Nietzsche
Joker è intriso di nichilismo nicciano ed è impressionante che un’opera di massa proponga al pubblico una simile visione. In una società profondamente manichea come la nostra, erede del cristianesimo nonostante le apparenti divergenze, mettere in dubbio l’idea di giusto e sbagliato, luce e ombra, nonché i tabù sulla violenza, è un atto rivoluzionario. Non è un caso che ci siano state conseguenze… ma ne parleremo dopo.

Tornando a noi, una volta compresa la vera sostanza del mondo, Arthur si tramuta in Joker e cessa di struggersi. Rimuove la maschera impostagli dalla società e si scatena; torna visibile, ritrova la sua dignità. La premessa sembra dirci, insomma, che «Abbracciare la Commedia della Tragedia della vita ridona significato all’esistenza».
Ciò che si oppone alla rivelazione di Arthur è il suo bisogno di normalità e accettazione. La fiducia di Arthur nella società e la speranza, l’illusione, il sogno in cui continua a crogiolarsi non fanno che rimandare la sua metamorfosi. Sappiamo, del resto, che la situazione è critica e non può durare: Arthur perde il lavoro, perde l’assistenza dei servizi sociali e dei farmaci… perde sé stesso e i suoi (pochi) punti di riferimento, quando scopre la verità su sua madre Penny.
Arthur non fa che perdere di scena in scena, fino a spogliarsi del tutto. Se qualcosa non cambiasse nel suo approccio alla vita, possiamo ben immaginare la naturale evoluzione degli eventi: per Arthur sarebbe la fine. E ciò che lo ancora a questo sistema di sopravvivenza ormai morente, come abbiamo detto, è quel bisogno di accettazione e normalità, che rappresenta il suo difetto fatale.
L’accettazione darebbe un senso alla misera vita di Arthur. Del resto, un’esistenza tanto squallida non si giustifica da sola. Tale fatal flaw conduce all’Ostacolo, cioè all’applicazione del difetto nel conflitto esterno. Il bisogno di accettazione di Arthur è causa della sua fiducia nella società e nei suoi valori. Non il contrario, attenzione: non è il conformismo a provocare in noi il terrore di rimanere soli, esclusi e impotenti.
Il film implica che la madre abbia contribuito alla fiducia di Arthur nel sistema. Lei lo chiama Happy e gli ripete, sin da quando era piccolo, che il suo scopo è portare felicità e risate tra la gente. Arthur è, del resto, un puro: è educato, sensibile, gli piacciono i bambini. Vuole solo portare gioia nel mondo. E invece, la natura gli abusi l’hanno piagato con una malattia mentale. E invece, assistiamo alle prepotenze e alla violenza che subisce dalla società per buona parte del film.
L’Ostacolo rappresenta, a sua volta, l’impedimento alla risoluzione del Plot. Sappiamo che, secondo il punto di vista tematico, Arthur deve abbracciare la realtà tragicomica della vita per risolvere il conflitto esterno e salvarsi dalla sua squallida e precaria situazione. Ebbene, per farlo egli dovrà iniziare a fottersene di quelle norme, regole e limiti imposti dalla società e a suo uso e consumo. Dovrà, letteralmente, superare l’Ostacolo, ovvero la fiducia nella società e nei suoi valori.
Il superamento del difetto fatale, invece, conduce all’obiettivo interiore del Tema, cioè al Subplot. Per cambiare, Arthur deve capire che sta vivendo un sogno; un sogno creato ad arte per tenerlo in uno stato di miseria e sottomissione.
Il conflitto interno del nostro eroe è molto semplice: Arthur lotta per essere qualcuno che non è e per ottenere il riconoscimento della società. Riconoscimento che non arriva e lo fa sentire inadeguato. La “normalità” che cerca, del resto, non gli appartiene. Per sciogliere tale conflitto, dunque, Arthur deve capire che accettazione e normalità sono una menzogna, almeno per quelli come lui. È proprio ciò che realizza nel midpoint dell’opera.
Ecco lo specchietto dell’impianto tematico:
Soggetto/Tema: Tragedia e Commedia | Premessa/Punto di vista tematico: Abbracciare la Commedia della Tragedia della vita ridona significato all’esistenza |
Plot (obiettivo esterno del tema): Fottersene della società e della sua morale (nonché comicità!) | Subplot (obiettivo interiore del tema): Capire che accettazione e normalità sono una menzogna |
Ostacolo: La fiducia nella società e nei suoi valori | Fatal Flaw: Il bisogno di accettazione e normalità (per validare la propria esistenza) |
Contesto: solitario alienante deprimente classista squallido ingiusto falso | Tratti del Personaggio: ingenuo buono sensibile depresso malato sognatore debole e passivo |
Le Critiche del Pubblico…
Questa è la genialità di Joker: il film non ci narra di un Arco mancato, di una caduta, del fallimento di un uomo nella sua quest, ma del suo successo su delle basi tematiche negative.
In pratica, qui non si tratta di “salvare il mondo”, ma di “distruggere il mondo”. Arthur/Joker dovrebbe essere un antieroe che sbaglia ma, ai fini della struttura e dell’impalcatura tematica, è un eroe che commette il bene. È come assistere a una storia dal punto di vista del cattivo. E di un vero cattivo, non uno di quei bad boys a cui siamo abituati. Una persona che ha dei principi opposti a quelli propugnati dalla società; una persona che vince grazie a una morale opposta a quella vigente… e per cui facciamo il tifo!
È questo che non va giù a tante persone. Si tratta di un eroe così disallineato ai valori dell’opinione pubblica da risultare malvagio in relazione ad essi, cioè a parametri esterni alla pellicola. Eppure, come abbiamo detto, non è un villain; o meglio, non lo è in Joker, poiché la storia è narrata dal suo punto di vista. Lo è nel mondo esterno e nella lore di Batman.
È chiaro che il film veicoli messaggi ambigui per il nostro modo di vedere. Non è una vera pecca, ovviamente, e di errori Joker ne ha ben pochi. Uno di questi riguarda la lunghezza del primo atto e della costruzione dell’empatia, a dispetto dell’economia globale della storia.
Non è un caso che molti abbiano lamentato una certa lentezza in Joker. Dilatare a tal punto il primo atto e ritardare gli eventi ha avuto, purtroppo, un contraccolpo sulla godibilità del film. Tuttavia, non è una scelta priva di meriti, perché una storia del genere si regge interamente sull’empatia per il protagonista. Se così non fosse stato, probabilmente non avrebbe esercitato un tale impatto, non avrebbe sedotto milioni di persone al fascino del “male”.
Ecco perché la sceneggiatura si focalizza a tal punto sulle pene di Arthur. Qualche ingenuo pensa che il film sia debole e tutto il merito si debba alla recitazione di Phoenix, ma non è così. Potremmo dire che l’intera storia sia una profonda e gigantesca costruzione dell’empatia dell’eroe, poiché questa continua perfino nel secondo e terzo atto. È un character study, un’introduzione senza fine, un incipit che allunga i tentacoli fin nel finale e ciò compromette, per ovvie ragioni, l’apprezzamento di una fetta di pubblico. Piccola, per fortuna.

Un’altra fetta non ha gradito Joker per la troppa violenza, o per la troppa sofferenza. Anche questo è un classico: le persone che si auto-limitano a causa delle proprie fisime e sensibilità ci sono sempre e non sono poche. Non è un problema del film, anzi: edulcorare la violenza avrebbe danneggiato il realismo e, di conseguenza, l’impatto e l’onestà della storia. Avremmo avuto un altro cinecomic.
A tal proposito, c’è chi si è lamentato del (presunto) scollamento tra il Joker del film e quello “tradizionale”. Alcuni fan non hanno digerito il film per questo motivo; si sono sentiti traditi, non hanno trovato il personaggio che conoscevano e sognavano. Abbiamo già parlato di questo argomento in riferimento alla Marvel e ai cinecomics: le persone che la pensano così non volevano un vero film, ma l’ennesimo conforto. L’ennesimo cosplay.
È interessante quanto detto da Phoenix in proposito al suo Joker e alla sua interpretazione. Ne parla in varie interviste, tra cui quella ad Access Hollywood e quella su «Il Venerdì di Repubblica» del 14 Agosto 2019. Il seguente è un “collage” di risposte che si trova in rete.
Ho perso quasi 25 chili. Ogni giorno mi alzavo con la paura di essere ingrassato: è una situazione assurda, quasi una malattia. Ma ho scoperto che senza tutto quel peso addosso ero molto più fluido, potevo fare movimenti che prima non sarei stato in grado di fare. Il lato negativo è che ero spesso di cattivo umore, sempre affamato e abbastanza debole. Però alla fine era proprio quello lo stato d’animo giusto per il Joker, uno che cerca di combattere i suoi seri problemi psicologici. La risata che incarna la fragilità del suo stato d’animo. È una risata dolorosa che nasce dal fondo dell’anima, disperata, più triste che felice. E poi il modo in cui si muove: ci sono momenti in cui danza in modo così leggero che sembra sollevarsi dalla tristezza del mondo in cui vive. Per questo mi sono ispirato a Ray Bolger, lo spaventapasseri de Il mago di Oz. Adoro il fatto che il suo personaggio risplenda attraverso la danza, la musica, le note, i solfeggi. Il mio Joker ha dei movimenti un po’ meccanici, un modo di gesticolare e muovere la testa che denota un’arroganza quieta prima … della tempesta. Spesso combinavo danza moderna e musica disco: il bello del Joker è che è davvero imprevedibile
Non mi sono ispirato a nessun Joker. Però mi ricordo benissimo Jack Nicholson nel Batman di Tim Burton. E il bravissimo Heath Ledger. Ma ho preferito prepararmi senza fare riferimento a nessun lavoro precedente, neanche ai fumetti o serie tv. Volevo creare il mio Joker. Che fosse frutto della mia immaginazione. O della mia pazzia. Non è un film sui soliti supereroi, cattivi e umani con poteri speciali. A me i personaggi ispirati ai fumetti piacciono perché hanno problematiche reali, le stesse che abbiamo noi. Joker è proprio questo: uno di noi. Non ha padre, non ha amici, è ansioso, depresso, un lavoro infimo. Ha subito dei traumi ed è stato anche abusato da bambino… Poveraccio… Ha tutti i problemi di questo mondo. Non è stato né piacevole né facile entrare nella sua testa… ma sono orgoglioso di averlo conosciuto…
Il concetto è abbastanza chiaro: Phoenix (come il resto della crew, stando ai risultati) non voleva fare un film sui supereroi. Voleva fare un film. E questo ci porta all’argomento successivo, strettamente correlato a quello attuale.
… e della Critica
Oggi, Joker è ricordato come un film pluri-acclamato e di grande successo, ma non è sempre stato così. La critica e l’opinione pubblica reagirono malissimo all’uscita del film. Tante testate concordavano su un punto: Joker «promuove la violenza», dicevano, e il film fu penalizzato per questo. Non avevano completamente torto, sebbene faccia ridere che l’opera dovesse risentire del loro moralismo.
Da wikipedia:
La visione del film è stata vietata ai minori di 17 anni negli Stati Uniti da parte della Motion Picture Association of America a causa di «comportamenti inquietanti, violenza, linguaggio scurrile e contenuti sessuali», mentre in Italia ha ricevuto un divieto ai minori di 14 anni. In Cina il film non è stato distribuito perché considerato pericoloso per l’ordine pubblico.
Qualcuno ricorderà l’allerta per l’uscita del film, in USA, dovuta al timore di sparatorie, con l’esercito pronto a presidiare le sale, il divieto delle maschere, i metal detector, i cinema blindati e così via.
Ci hanno detto che è violento, malato e moralmente corrotto. Ci hanno detto che la polizia sarà presente a ogni proiezione questo weekend in caso ci siano “problemi”. Il nostro paese è in preda alla disperazione, la Costituzione è a pezzi e un pazzoide proveniente dal Queens ha accesso ai codici nucleari – ma per qualche motivo è di un film che dovremmo avere paura. Io proporrei il contrario: il pericolo più grande per la società sarebbe se non vedeste il film. Perché la storia che racconta e i problemi che affronta sono talmente profondi e necessari che se distogliete lo sguardo da questa grande opera d’arte vi perderete il dono dello specchio che ci offre. Sì, c’è un clown turbato in quello specchio, ma non è da solo – noi siamo lì, di fianco a lui.
Michael Moore
A testimonianza di ciò rimane, sull’aggregatore Rotten Tomatoes, un punteggio del 68% di gradimento da parte della critica (nel 2021), frutto di centinaia di recensioni al vetriolo. È un punteggio riservato a film men che mediocri, o incompresi e di nicchia. Non è il caso di Joker: come abbiamo visto, la sceneggiatura è costruita in modo classico e, infatti, funziona. Joker è stato un blockbuster, è diventato il film vietato ai minori con i migliori incassi in assoluto ed è, per ovvi motivi, un prodotto di massa.

Del resto, nonostante le polemiche, l’impianto tematico, l’influenza dei critici eccetera, il film gode di un punteggio pari all’88% di gradimento da parte del pubblico (2021) sul medesimo sito. Sull’aggregatore Metacritic, Joker ha un punteggio di 59 basato su 60 recensioni dei critici, e di 90 basato su 7155 recensioni degli utenti (2021). Insomma, è evidente che ci sia qualcosa sotto… ed è sufficiente leggere qualche trafiletto per confermare la penalizzazione a cui accennavamo in precedenza.
Is this movie really just the biggest-budget Ben Shapiro video? To what extent will misogynistic creeps “feel seen” in this film? Well, for most of its run time, it isn’t quite the alt-right manifesto some of the pre-release discourse suggested. It’s really just a drama about a mentally ill man with no friends who is targeted by bullies, lives with his mother, is ignored by the attractive woman down the hall and only finds purpose in mass murder.
Wait, I know that sounds like it is sympathy for the incel, but Fleck’s anger, for most of the movie, stays rooted in his own circumstances. He isn’t really railing against PC culture or how he’s owed anything, like a guy who won’t stop talking about Jordan Peterson. It’s more of a generic “My life sucks!” cry than an “Our life sucks, brothers!”
In the final reel, though, there is some angry monologuing, and some of those “Nobody cares!” talking points come through, but the writing is too vague and incoherent to really land a point.
– Jordan Hoffman, the guardian
“Joker” is an intensely racialized movie, a drama awash in racial iconography that is so prevalent in the film, so provocative, and so unexamined as to be bewildering. What it seems to be saying is utterly incoherent, beyond the suggestion that Arthur, who is mentally ill, becomes violent after being assaulted by a group of people of color—and he suffers callous behavior from one black woman, and believes that he’s being ignored by another, and reacts with jubilation at the idea of being a glamorous white star amid a supporting cast of cheerful black laborers. But, unlike the public discourse around the Central Park Five, and unlike the case of Bernhard Goetz, and unlike the world, the discourse in “Joker” and the thought processes of Arthur Fleck are utterly devoid of any racial or social specificity.
– Richard Brody, New Yorker
As many have noted, Arthur’s a classic incel candidate, an involuntary celibate steeped in resentments and dreams of the good life, with a beautiful woman by his side and a more civil and just society. In his aggrieved urban-white-male rage, he can sit at the same poker table as the guy from “Falling Down,” next to Travis Bickle from the genuinely, profoundly ambiguous and unsettling “Taxi Driver.” Early on Arthur incel-stalks his neighbor (Zazie Beetz, playing a symbol of what Arthur cannot have, rather than a human being). Later, at the social service agency office about to close up for good, the weary social service worker (Sharon Washington) lays it out for him, in a typical sledgehammer line: “They don’t give a —t about people like you, Arthur.”
Warner Brothers doesn’t want any trouble at the theaters when “Joker” opens; nobody does, I hope. The film, the studio declared in a statement, is not “an endorsement of real-world violence of any kind.”
Let’s say it isn’t. So what is it, then?
– Michael Phillips, Chicago Tribune
Scene after scene makes the same point: that Phoenix’s Arthur, a clown and aspiring stand-up comedian living in semi-poverty with his elderly mother (Frances Conroy), is a really freaky dude. He’s undernourished to the point of emaciation; Phoenix, who not long ago bulked up for his role as the hitman in You Were Never Really Here, has lost so much weight since then that he looks alarmingly gaunt. As a laminated card Arthur carries around with him explains, he has a condition that causes him to periodically break into painful-sounding bursts of compulsive laughter, often with the choking sound of someone sobbing. Gradually, as he discovers that killing is the only thing that gives him a sense of purpose, meaning, and beauty—a state of mind Phoenix conveys by following or preceding each murder with a sinuous, balletic dance—the pity that the first third of the movie strained so hard to evoke from the viewer turns to disgust. The rest of the movie wallows in that disgust, seeming to relish the bathos of its own protagonist’s abjection and isolation.
– Dana Stevens, Slate
Step away from Joker. Step away, and step away now, if you know what’s good for you. It may be a masterpiece or it may be irresponsible trash — there is some controversy here — but either way it is so bleak and so dark and so upsetting the words ‘bleak’ and ‘dark’ and ‘upsetting’ don’t really cover it, and you may never be able to sleep again.
– Deborah Ross, the Spectator
Una nota: non so quanti critici citano, nella lunga lista dei difetti immaginari, la somiglianza tra Joker e Re per una notte di Scorsese. È interessante notare come un film non più che discreto e completamente dimenticato (o, per meglio dire, mai considerato) dalla critica sia tornato sulla bocca di tutti. In realtà, ricordo che eravamo in pochi ad aver tratto il parallelismo all’uscita di Joker, perché Re per una notte non è mai stato tanto popolare.

Spendo giusto due parole in merito: sebbene Joker sia ricco di richiami e non ne faccia mistero, è indubbio che la vicenda di Pupkin abbia influenzato il film più del resto. Tuttavia, ci sono profonde differenze tra le due opere, non solo a livello di trama ma, cosa più importante, a livello tematico. Pupkin e Arthur non potrebbero essere più diversi: il primo è un pazzo pericoloso che si crede un grande comico e a fine film (SPOILER) riesce pure nel suo intento.
Arthur, al contrario, non è fuori dal mondo: sogna e lotta, sì, ma non crede di essere un genio della comicità, né è un folle di natura come Pupkin. Come il film ci dimostra più volte, Arthur è stato reso ciò che è dalla società; i pazzi sono intorno a noi, non dentro di noi. Arthur è una vittima, Pupkin è un carnefice. Inoltre, l’epilogo delle loro storie assume tutt’altro significato.
Lo stesso si potrebbe dire di Taxi Driver. Alla fine (SPOILER), Travis Bickle diventa un eroe. Siamo tutti d’accordo che abbia fatto la cosa giusta, ma nella realtà verrebbe sbattuto in galera. E invece…
Tornando alla recensioni, non siate sorpresi: i critici sono sempre stati gatekeepers, guardiani della soglia al soldo del sistema. Essi sono il prodotto del sistema: difenderlo è nella loro natura. Che si tratti di libri, film o videogiochi, il compito di questi opinionisti è sempre stato quello di veicolare le vendite e riportare ogni slancio alla normalità. I contenuti artistici o tecnici sono decisamente al di fuori della loro portata. Non è un caso che, negli anni, la disparità tra il gradimento della critica e del pubblico sia andata aumentando in tutte le forme di media.
Oggi sono relativamente in pochi ad affidarsi alle opinioni dei critici, e questo è un gran bene.
Va detto che, col tempo, le cose si sono normalizzate. In parte, ciò si deve alle numerose uscite del regista, Todd Philips, e di Joaquin Phoenix, che hanno cercato di stemperare le polemiche relative al film. La retorica politicamente corretta ha raggiunto nuove vette quando Phoenix si è fatto arrestare durante una manifestazione contro il cambiamento climatico, o quando ha parlato di “razzismo sistemico” ai BAFTA del 2020.
Una delle critiche più frequenti rivolte a Joker, da parte dei critici, riguarda proprio questo argomento. «Did we really need a brutal movie about a white terrorist figure who uses gun violence to enact revenge on the society that rejects him? And did we need it now?», si chiede refinery29 nel suo articolo Joker: Do We Need A Movie About A Violent White Man? Come riporta Slate, «The opening scene, in which Arthur, who’s peacefully but unhappily twirling a sign for a discount store, is taunted and then beaten by a gang of Latino-coded thugs, draws directly on the narrative of white persecution so effectively weaponized by Donald Trump».
Alla cerimonia degli Oscar del 2020, Phoenix è riuscito ad accontentare tutti: ha accennato all’ineguaglianza di genere, al razzismo, ai diritti LGBT, a quelli degli animali… con particolare attenzione a questi ultimi, essendo un vegano ambientalista (We feel entitled to artificially inseminate a cow and steal her baby, even though her cries of anguish are unmistakeable. Then we take her milk that’s intended for her calf and we put it in our coffee and our cereal). È riuscito perfino a infilarci il suo defunto fratello.
Una frase da lui proferita è particolarmente interessante: «I have been a scoundrel all my life, I’ve been selfish. I’ve been cruel at times, hard to work with, and I’m grateful that so many of you in this room have given me a second chance». Parlare di seconde chance a una cerimonia di (meritata) vittoria ha il sapore di prostrazione. È come se Phoenix stesse camminando la sua personale walk of shame, ma può ben essere che creda a tutto ciò che dice.
Ciò che rimane, è l’immagine di un multi-miliardario con una statuetta d’oro in mano che piange per il trattamento delle mucche. Ironico, perché pare la totale inversione del ruolo per cui è stato premiato… ma parleremo dopo di questo argomento.
La pantomima ricorda quella impiegata da Di Caprio e, come in quel caso, sembra aver funzionato, poiché Phoenix è uscito vincitore dal tritacarne delle polemiche ed è tornato a casa con l’Oscar per il miglior attore. Joker ha ottenuto ben undici nomine, quell’anno, e un’altra vittoria per la migliore colonna sonora. Soddisfazioni, ma pur sempre contentini per non rilasciare il premio principale.
Joker non avrebbe potuto vincere, non con ciò che implica. Ma Hollywood non avrebbe potuto liquidare la questione senza irritare gli spettatori: il film, del resto, ha colpito e affascinato milioni di persone e ha sollevato certe questioni sociali particolarmente sentite e pressanti. Come fare? Semplice: si decreta vincitore Parasite, film coreano di Bong Joon-ho uscito nel 2019.
Joker vs Parasite
Parasite non solo è ben girato (anche se le uniche inquadrature interessanti sono quelle degli esterni), piacevole, esotico e con quella patina da cinema d’autore (almeno per l’americano medio – non è un caso che A. O. Scott del The New York Times lo abbia definito «terribilmente divertente, quel tipo di film intelligente, generoso, esteticamente energico che annulla le stanche distinzioni tra film d’essai e film di intrattenimento»), ma tocca alcuni degli stessi temi di Joker, così sentiti e portati all’attenzione del pubblico quell’anno.

Vincitore della Palme d’Or al festival di Cannes, Parasite ha riscosso tale premio, secondo il presidente della giuria e regista Iñárritu, perché «parla in modo divertente di qualcosa di così rilevante, urgente e globale con un film locale di grande efficienza». Per il membro della giuria Elle Flanning, invece, «Si tratta di una favola, una bella favola».
In effetti, Parasite denuncia il classismo dei ricchi e, al contempo, non si limita a vittimizzare gli inferiori: sono tutti colpevoli, tutti parte del medesimo gioco. Non lo fa bene, perché oggettivamente i ricchi in questione non hanno alcuna colpa, se non quella di essere viziati e ingenui, mentre i poveri combinano guai “leggermente” più gravi, ma nessuno vuole un film che tenga fede alle sue premesse, no?
Del resto, Parasite è stato spacciato dalla critica come una black comedy, un film che fa della satira graffiante della società. Ma è davvero così?
Ebbene, Parasite era il film perfetto per gli Oscar del 2020 perché, al contrario di Joker, è assolutamente innocuo. La “denuncia” di Bong Joon-ho è borghese, astratta e surreale come il tono del film e la sua violenza, in a vacuum… proprio come l’ambientazione stessa in cui è girato. È un simpatico esercizio intellettuale rivolto a un pubblico benestante e distante. E la sceneggiatura è debole e didascalica, povera di temi e soluzioni, fin troppo timida… oltre che ricca di difetti.
Il regista non è nuovo a film del genere. Ricordo Okja (pessima sceneggiatura, didascalico che vira sull’assurdo) e Snowpiercer, quest’ultimo accolto da alcuni come un cult movie, anch’esso estremamente generico, rimasticato e smussato. Forse, uno dei film con l’ambientazione peggiore che abbia mai visto: pura cartapesta, come in un libro fantasy da quattro soldi. Anch’esso “denuncia” del classismo… eppure, più borghese del sistema che intende criticare.
A Parasite e opere simili mancano realismo, visceralità, coraggio e una buona dose di tecnica. E manca una visione. Del resto, se Joker si fosse limitato a criticare il sistema non sarebbe stato un gran problema; il problema è che il film pone un’alternativa. Quella della ribellione, della violenza, della creazione dei propri valori, della propria comicità. E, parliamoci chiaro, rappresentare la violenza per come è veramente non è cosa facile, soprattutto se la si è vista solo col cannocchiale… cosa che credo si applichi al buon Bong Joon-ho.
Parasite è quel tipo di opera che le persone guardano pensando che sia profonda. Ma non lo è: il messaggio che cerca di trasmettere è tanto esplicito da distruggere ogni eleganza. Ed è trasmesso in modo fiacco, incoerente e fallace. È incredibile (o forse no) che abbia vinto anche il premio Oscar per la miglior sceneggiatura, quando Bong Joon-ho scrive le scene così male da strappare la sospensione dell’incredulità a più riprese.
Di Classismo & Violenza
Non potevamo non parlarne. Uno dei motivi per cui Joker è stato tanto temuto e attaccato riguarda un nervo scoperto della società occidentale. Non mi riferisco alla povertà, sulla quale sono state spese tante chiacchiere, lacrime e litanie. Del resto, la povertà è un feticcio necessario: è l‘humus del sogno americano, parte della mitologia del ricco imprenditore o dell’attore di successo, il ponte che collega il potente e l’inferiore.
L’adorazione cristiana della povertà è la benzina delle classi agiate. È ciò che permette a chi sta in alto di dire: «ero come te, sai?» e di nutrire l’illusione, il sogno. Avete mai letto le millemila interviste di persone di successo che parlano di quanto fossero povere e sfortunate, prima? Quelle che ammettono di non aver mai vissuto nella miseria si contano sulle dita di due mani monche: sembra che lo star system, in particolare, sia un lazzaretto.
Fa ridere, soprattutto pensando a quelli che se la bevono perché “il successo arriva solo per chi se lo merita“, chi “ce la mette tutta”. E per mettercela tutta bisogna sentire i morsi della fame, bisogna aver toccato il fondo, bisogna aver sperimentato la crudeltà della vita eccetera, no? Come potrebbe spingersi a tanto, come potrebbe arrivare a un tale livello un borghese qualunque? E il sogno continua.
La verità è che l’illusione criticata da Joker è la nostra illusione. Ecco perché il film ha colpito tanto in profondità: tutti i paesi occidentali funzionano, attualmente, allo stesso modo. La vita è, in generale, una situazione pietosa in preparazione di un futuro radioso… e lo è, a maggior ragione, l’indigenza. In un’ottica messianica tutta catto-capitalista, la povertà diventa una condizione favorevole, una potenzialità da mettere a frutto… e chi non ce la fa, vuol dire che se lo merita.
È ciò che affermano a più riprese i vari personaggi di Joker che impersonano l’establishment, il sistema: Thomas Wayne e Murray, in particolare. Il film, però, è realistico, e col realismo risponde alla mitologia capitalista: la vera povertà è qualcosa di orribile, di endemico e irrecuperabile. È solitudine, alienazione, sottomissione, disperazione, privazione… e nella stragrande maggioranza dei casi è ereditaria. Dal sogno americano, o italiano che sia, non c’è risveglio: i poveri vivono di merda continuando a sognare, finché non crepano.
Joker fa dannatamente male perché, mettendoci nei panni di Arthur, ci ricorda che soffriamo tutti della medesima allucinazione. Probabilmente non siamo ridotti così male, non soffriamo di una simile patologia mentale, ma la vita di moltissimi di noi è ormai altrettanto precaria. Del resto, Arthur ha, per lo meno, un tetto sopra la testa. Eppure, continuiamo a sperare e a fingere che vada tutto bene.
Prendete il reddito di cittadinanza, misura non sostenibile a lungo, e immaginate cosa succederà quando sarà revocata. Quante persone credete che non potranno più pagare l’affitto?
Se credete che basti lavorare, vuol dire che non sapete nulla della realtà che ci circonda. La maggior parte delle (poche) assunzioni sono contratti brevi, da poche ore (20-25) a circa 600 euro mensili di paga. Chi ci paga affitto, bollette e spese varie con 600 euro al mese? È semplice aritmetica. Bene, ora pensate ai tanti personaggi dei media e politici che irridono tale realtà. Gente che ha altri guadagni e altri interessi. Gente come quella che ha scritto il seguente editoriale.

Il classismo e la crisi della società paventate da Joker riguardano tutti. Non è un caso che le sparatorie siano quasi all’ordine del giorno, in USA: la società americana è l’apogeo dell’alienazione sociale. Quando citano la violenza di Joker, gli opinionisti hanno ragione solo a metà: non è il film il problema, ovviamente, ma ciò di cui parla, che è reale.
Avete capito dove sto andando a parare? Di norma non faccio politica, e questa non è “politica” in senso stretto, dal momento che non riguarda la destra e la sinistra. Sono anni che le cose peggiorano in Italia e non faranno che precipitare. Nel momento in cui il reddito di cittadinanza o altre forme di sostentamento verranno pian piano revocate, scoppierà una bomba sociale. Il paese si accorgerà, all’improvviso, di essere povero come uno del terzo mondo. Ed è, ancora, semplice aritmetica.
Joker è arrivato proprio al momento giusto e non sarebbe potuto essere diversamente. Italia, Francia, USA… tutti gli stati atlantisti si stanno sgretolando sotto i nostri occhi dal punto di vista politico, sociale e/o economico. Il nichilismo nicciano che emerge dalla sceneggiatura è quanto mai attuale. La crisi che stiamo vivendo è totale: è una crisi esistenziale, valoriale, perfino religiosa… ed è in momenti come questi che si inizia a pensare, per ovvi motivi, alle alternative.
Tornando al film, Joker ha avuto un certo impatto perché non ha parlato di una società razzista, ma di una società classista. Le due cose non vanno per nulla a braccetto, in quanto è il censo il solo a contare in una società classista e, anzi, tutto ciò che pretende di determinare gli individui a prescindere dal denaro è nemico del sistema. E in una società del genere, la cosa che più spaventa è la sola, terribile arma che può sfruttare chi si trova alla base della piramide: la violenza.
Abbiamo già accennato a quest’aspetto dell’opera. È la violenza a fornire l’arma della rivalsa: lo vediamo quando Arthur uccide i tre borghesi, quando ammazza sua madre, quando uccide Randall, quando spara a Murray… e quando trionfa su una Gotham devastata dalla guerriglia urbana. L’omicidio è il mezzo attraverso cui Joker riesce a liberarsi e a ottenere giustizia e, con lui, una parte della società. La violenza è anche giustizia sociale e, come si suol dire, “la rivoluzione non è un pranzo di gala“.
Non è un caso che, dopo aver ucciso i tre yuppies, Arthur affermi: «Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente… ma esisto, e le persone iniziano a notarlo». La violenza ha posto le condizioni per la sua esistenza: lui, che era sempre stato una nullità, può fare qualcosa di concreto, può contare come e più degli altri. Questo perché, al di là di tutto, è una persona, e le persone sono fatte di carne e sangue. Non vanno sottovalutate.
Parlavamo, prima, della violenza come livella. È vero, e Joker ce lo suggerisce più volte, come quando il grande e orgoglioso Thomas Wayne viene ucciso da un balordo qualunque. Il classismo teme la violenza, ed è il motivo per cui tale elemento è così stigmatizzato nella Gotham del film (nonché nella nostra società). L’omicidio dei tre borghesi scuote l’opinione pubblica, terrorizza l’establishment… e infatti non si parla d’altro per settimane.
Non è un caso che Arthur/Joker risponda alle accuse di Murray con queste parole: «Oh, ma perché tutti si disperano per quei tre? Se fossi stato io a morire sul marciapiede, voi mi avreste camminato sopra. Io vi passo accanto ogni giorno e non mi notate». Ed è verissimo; il film ce ne dà conferma in numerose scene. Arthur vale meno di zero, a differenza di quei tre, e noi tutti sappiamo come ci siano i cosiddetti “morti di serie A” e “morti di serie B”.
Al potere, ai potenti, ai ricchi gli ultimi interessano per i loro fini. Sono mercenari, marionette, carne da macello per il tritacarne del sistema. Se così non fosse, quella che alcuni considerano la nazione più progredita al mondo non godrebbe del modello sanitario che tutti conosciamo, tra le altre cose. Il governo taglia i fondi per le spese mediche di Arthur, condannandolo letteralmente alla pazzia.
Joker smaschera la società per quella che è e, come abbiamo dimostrato, ribalta la concezione stessa della violenza. Oggi, chiunque pensa che questa sia “sempre sbagliata“, ma è ovvio che non sia così, altrimenti lo stato non ne avrebbe il monopolio (Weber, Reinhard), non avremmo le forze di polizia e così via. In Joker, per esempio, la violenza è giusta… e questo è un problema, soprattutto in un paese in cui i pazzi si armano e sparano sulla folla per molto meno.
Chi mi legge, sia in narrativa che in “saggistica”, saprà che non sono un moralista, ma un amoralista. Ebbene, a me dei derelitti non interessa minimamente, perché sono più egoista del peggior classista. Tuttavia, so che siamo tutti collegati e che anche le torri d’avorio poggiano sul medesimo suolo; che vivere tra lazzaroni puzzolenti che vogliono farti la pelle non è bello né piacevole; che rintanarsi in enclave come topi non è una soluzione; che la grandezza è una dimensione comunitaria e il Duomo di Siena non l’ha costruito un uomo solo.
È nell’interesse di tutti che le persone che ci circondano vivano in modo dignitoso, e non in un buco merdoso in attesa di un messia che non arriverà mai. Non è difficile arrivarci. A guardare oltre, però, Joker fornisce anche una risposta a quelli che s’interrogano sulla sua profezia. Il film sembra affermare, in pratica, che la società è responsabile dei propri mostri. Una visione, ancora, diametralmente opposta all’individualismo classista, ma quanto mai vera.

E voi che ne pensate di Joker? Da quale parte della barricata vi trovate, e perché? Scrivetelo nei commenti!
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